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LA RISPOSTA AI COMMENTI

Sono stati numerosi i commenti alla nota in merito alle provocatorie dichiarazioni del Ministro Tremonti sulle statistiche dell’Istat sulla disoccupazione. E in questi giorni vi sono state anche altre strampalate sortite di commentatori e uomini di governo sulla qualità e l’eccesso di tempestività (sic!) delle statistiche diffuse dall’Istat. Proprio perché strampalate le tralascio.
Rispondo invece ad alcuni dei commenti, cominciando da quelli che hanno sollevato dubbi o critiche.

Ma lÂ’Istat racconta frottole?

I dubbi di tre lettori riguardano la credibilità della rilevazione. “Sarebbero 1.500 famiglie intervistate al giorno. Ma voi ci credete?” “Ma i campioni vanno modificati di tanto in tanto, o no?” “Ditemi, quanti di voi conoscono almeno una famiglia che sia stata interrogata dell’Istat?”
Ogni rilevazione sulle forze di lavoro si svolge nell’arco di un trimestre. Per semplicità, faccio dunque riferimento a una rilevazione trimestrale. Il campione di famiglie è di circa 76-77.000. Quelle che vengono trovate e rispondono sono dell’ordine dell’88%. Siamo a 67-68.000 famiglie, delle quali sono intervistati i componenti che hanno almeno 15 anni: 165-170mila persone. Tenuto conto del disegno dell’indagine, delle famiglie che non hanno il (o non desiderano rispondere al) telefono e della cura particolare messa nel raggiungere gli stranieri, grosso la metà delle interviste sono faccia a faccia mentre l’altra metà avviene per telefono. In ogni caso le interviste sono computer assisted, svolte cioè con l’ausilio di un personal computer che gestisce il questionario elettronico, sono realizzate da una rete di 350 rilevatori – selezionati e adeguatamente formati, e l’intero processo è monitorato in maniera sistematica. Che c’è di sorprendente nel fatto che, contando cinque giorni la settimana (ma qualche intervista si fa anche di sabato), si effettuino circa 1.050 interviste il giorno? Corrispondono a un carico di 3-4 interviste giornaliere per intervistatore professionale: un carico del tutto normale.
È ovvio che le stime si basano su un campione, sia pure piuttosto grande. Ed è altrettanto evidente che la cura posta nell’indagine non esclude vi siano errori. Ma essi sono contenuti entro limiti ragionevoli, e in buona parte sono individuati e corretti controllando la coerenza delle risposte. In definitiva, i risultati sono credibili, affidabili: soprattutto per i grandi aggregati. Non a caso, l’Istat fornisce stime provinciali delle principali grandezze non ogni trimestre, ma soltanto in termini di media annua (cioè, combinando i risultati di quattro rilevazioni).
E si rassicuri un lettore: il campione di famiglie viene rinnovato, con un piano di rotazione tale per cui una famiglia è intervistata 4 volte nell’arco  di 16 mesi (cioè, di 6 rilevazioni), e poi esce definitivamente dal campione(1).
Quanto all’aver conosciuto o meno una famiglia che sia stata interrogata dell’Istat: via, non è così che si ragiona riferendosi a fenomeni che toccano una frazione dell’ordine di 1 su 360 degli oltre 24milioni e mezzo di famiglie! Comunque, se mai servisse una testimonianza per soddisfare la curiosità di quel lettore, ebbene io conosco due famiglie che hanno fatto parte del campione delle forze di lavoro.

Forse i disoccupati sono ancora di più

Di tutt’altro tenore è l’obiezione di un altro lettore, secondo il quale “il problema non è tanto nella sovrastima della disoccupazione, quanto nella sua probabile (anzi sicura) sottostima”. La questione non è centrale nel dibattito intorno alle dichiarazioni del Ministro Tremonti, ma l’affermazione è plausibile. Il perché è presto detto. Il mercato del lavoro italiano è segmentato, vischioso. Chi cerca lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno, affronta dei costi di ricerca spesso elevati rispetto alla possibilità di trovarlo. Per di più, coloro che cercano un primo lavoro – e in Italia sono un terzo dei disoccupati – così come i disoccupati (precedentemente occupati) di lunga durata non hanno diritto all’indennità di disoccupazione, sicché di fatto non è loro richiesto neppure di compiere periodicamente la segnalazione di disponibilità al lavoro presso un Centro per l’impiego. L’insieme di questi fattori – strutturali e attinenti alle caratteristiche del nostro welfare del lavoro (e al modo mediocre con cui è amministrato) – comporta che una frazione non trascurabile di persone alla ricerca di lavoro e disponibili a lavorare non compia azioni attive di ricerca a cadenza almeno mensile: manchi cioè di uno dei requisiti per essere ufficialmente contata come disoccupata. Recenti studi mostrano che la gran parte di tali persone sono simili ai disoccupati ufficiali, sia per le loro caratteristiche che per il loro comportamento nel mercato del lavoro(2).

L’intervento di Tremonti è la spia di un più generale degrado del paese

Infine, mi trovo amaramente d’accordo con un altro commento, che legge in questa vicenda il sintomo di un degrado più generale dell’intero paese, e della sua classe dirigente in particolare. Davvero, vi è “un disprezzo per la scienza, la conoscenza in generale, per cui si può dire tutto senza necessità di parlare di metodi e tecniche”, senza suffragare le proprie affermazioni con l’evidenza informata, anzi avanzando accuse tanto infondate quanto destabilizzanti, “mettendo tutto sul ridere [ed] elevando le chiacchiere da bar a verità”.
Provo un profondo disagio per la situazione di un paese che vede i sondaggi – non importa di che qualità – branditi come argomenti se fa comodo; le stime e le proiezioni serie, che dovrebbero servire come riferimento (certo, da vagliare e da aggiornare) per l’azione, irrise – e i loro autori invitati al silenzio; l’assenza di uno sforzo pubblico per informare correttamente ed educare a un uso consapevole dei dati. E vedo con preoccupazione il suo futuro.

(1) Informazioni essenziali su contenuti, disegno e modalità di svolgimento dell’indagine sono nella nota Rilevazione sulle forze di lavoro. Le caratteristiche dell’indagine sono presentate in modo più dettagliato nel volume La rilevazione sulle forze di lavoro: contenuti, metodologie, organizzazione.
(2) Vedi Brandolini A., P. Cipollone e E. Viviano, “Does the ILO definition capture all unemployment?”, Journal of the European Economic Association, 2006, vol. 4 (1), pp. 153-179, e Battistin E., E. Rettore e U. Trivellato, “Choosing among alternative classification criteria to measure the labour force state”, Journal of the Royal Statistical Society – Series A, 2007, vol. 170 (1), pp. 5-27.

LA CIAMBELLA E IL BUCO

Le critiche del ministro Tremonti all’Istat lasciano allibiti. L’accertamento dello stato di disoccupazione è fatto in modo stringente, sulla base di un insieme di quesiti che mirano a rilevare una situazione oggettiva. E’ un sistema utilizzato in tutti i paesi sviluppati, che consente confronti credibili nel tempo e nello spazio. Minare la credibilità dell’informazione statistica ufficiale o ridurre gli spazi di autonomia di istituzioni con cruciali funzioni tecniche e scientifiche non aiuta a uscire dalla crisi. A meno che non si vogliano illudere i cittadini con finzioni.

IL COMMENTO ALL’ARTICOLO DI PISAURO-VISALLI

La critica costruttiva sulle proposte di riforma della pubblica amministrazione è sempre utile, anche quando non condivisibile. L’articolo di Pisauro e Visalli pubblicato il 4 giugno 2009 su lavoce formula alcune critiche e suggerisce alcune proposte. Cominciando dalle prime, gli Autori individuano due limiti della riforma:
1- Un primo limite "culturale" sarebbe l’idea che "la produttività dipenda innanzitutto dagli sforzi degli individui e in secondo ordine dalle norme di legge e non dai modelli organizzativi, dagli obiettivi e dalla distribuzione delle risorse sul territorio";
2- in secondo luogo, il sistema di valutazione, coordinato dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche, sarebbe troppo centralizzato e monolitico.
A fronte di queste critiche l’articolo accenna tre proposte:

a) spostare l’enfasi sugli uffici e non sugli individui, dotandoli di sistemi di contabilità industriale che misurino la produttività anche nella PA;
b) indirizzare il lavoro della commissione verso la costruzione di modelli di valutazione che permettano di comparare le performance collettive, specifici per ciascuna amministrazione e che la aiutino a ridefinire il proprio modello organizzativo;
c) legare l’incentivazione non ad una gratifica annuale ma al percorso di carriera.

La risposta all’articolo è semplice, sia perché le critiche sono infondate, sia perché alle soluzioni proposte il decreto delegato già offre precise risposte.
Con riferimento alle critiche, si può facilmente dimostrare che:

NON E’ VERO CHE GLI SFORZI INDIVIDUALI NON CONTANO

Un’altrettanto enorme letteratura, rispetto a quella in verità non citata nemmeno a titolo esemplificativo dagli Autori, dimostra che lo sforzo individuale e le risorse umane sono centrali per migliorare la produttività e l’efficacia, non meno dei modelli organizzativi. A differenza, qui vogliamo citare, sia pur a titolo di esempio, O’Toole Jr., Meier K., (2008); Pfeffer J.,(2007); Lazear EP & Shaw KL (2007); Jacobs RL & Washington C., (2003); Wood S (1999); Koch MJ & McGrath RG, (1996). Le riforme, attuate o in corso, nelle più avanzate esperienze internazionali (Regno Unito, Canada, ecc.) mostrano che l’attenzione sulle modalità di riconoscimento del merito dei dipendenti pubblici rimane centrale. Non si tratta quindi di un limite culturale, bensì della valorizzazione dell’asset fondamentale della PA, e cioè l’impegno dei dipendenti.

NON E’ VERO CHE IL DECRETO NON SI INTERESSA DEGLI OBIETTIVI

La definizione degli obiettivi e il loro collegamento con le risorse disponibili sono i cardini del ciclo di gestione della performance introdotto dalla riforma. L’art. 5 afferma che gli obiettivi devono soddisfare delle caratteristiche metodologiche precise. Devono essere: rilevanti e pertinenti rispetto ai bisogni della collettività; specifici e misurabili; sfidanti; riferibili ad un arco temporale determinato; commisurati a standard definiti a livello nazionale e internazionale; confrontabili e correlati alla quantità e alla qualità delle risorse disponibili. "Buoni" obiettivi sono essenziali per valutare le performance: senza scomodare l’ampia letteratura scientifica a riguardo (solo a titolo esemplificativo, Chun & Rainey, 2005), basta leggere i documenti programmatici di qualche amministrazione pubblica per comprendere come gli obiettivi delle strutture, prima ancora che degli individui, non soddisfino i requisiti metodologici elementari, rendendo vana o addirittura controproducente la valutazione delle performance. Tant’è vero che dai rapporti consuntivi sul raggiungimento degli obiettivi di tante amministrazioni, emergono in genere livelli dal 90% al 100%: o siamo in presenza della Pubblica Amministrazione più efficiente del mondo o, evidentemente, c’è qualcosa che non va. Il decreto interviene e assegna agli attori del sistema di valutazione (commissione centrale, organismi indipendenti, dirigenti, organi di indirizzo politico) responsabilità precise. È un passo innovativo che crea le condizioni per risolvere il "vizio originario" del nostro sistema di programmazione e valutazione strategica.

NON E’ VERO CHE IL DECRETO NON SI INTERESSA DEL LIVELLO ORGANIZZATIVO

Il decreto non prescrive modelli organizzativi specifici, ma questo è ovvio. Il decreto riconosce che il problema fondamentale non sono né i giusti principi (già largamente presenti nelle norme), né l’imposizione di modelli organizzativi astrattamente ottimali, bensì un corretto sistema di incentivi, materiali e non. Sarebbe insensato assegnare a norme di legge la fissazione di specifici modelli organizzativi che pertengono all’autonomia di ogni singola amministrazione. La logica della riforma è invece quella di determinare, attraverso la creazione di un nuovo sistema di incentivi, basato sulle leve della trasparenza, della misurazione, della responsabilità e della premialità, una pressione forte sui risultati, lasciando alle amministrazioni l’autonomia di definire i più opportuni assetti organizzativi per conseguirli. Per ovviare agli evidenti problemi di ineffettualità delle riforme precedenti si è scelto di agire attraverso un mix di strumenti tali da spingere concretamente e continuamente le amministrazioni verso percorsi di miglioramento continuo dei processi e dei servizi.
A questo fine, la dimensione organizzativa – intesa non tanto nella sua accezione strutturale ma in termini di sistemi operativi – è presente nel decreto in modo matriciale. Infatti:
Tutto il decreto è incentrato sul binomio trasparenza-valutazione della performance, che si esplica in gran parte a livello organizzativo e non di singoli individui.

All’art. 4 si affronta il tema del "ciclo di gestione delle performance" che inquadra la valutazione a livello organizzativo nell’ambito degli altri sistemi operativi (pianificazione strategica, budgeting, rendicontazione, ecc.).
All’art. 7 si stabilisce che il "sistema di misurazione e valutazione della performance" deve consentire la valutazione organizzativa e individuale. È ben chiaro che i due livelli sono profondamente interconnessi, come insegna la letteratura organizzativa e manageriale e ci suggeriscono autorevoli istituzioni internazionali (OECD 1996, 1997, 2004 e 2005).
All’art. 9 si precisa che: a) la valutazione dei dirigenti è collegata agli indicatori di performance relativi all’ambito organizzativo di diretta responsabilità; b) la valutazione del personale è connessa al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo e/o individuali.
All’art. 10 si chiarisce che il piano e il rapporto di performance consentono, in relazione alle risorse disponibili, la valutazione della performance dell’amministrazione e non solo del personale dirigenziale e non.
All’art. 13, commi 4 e 5, scorrendo i compiti della Commissione, si rileva facilmente come molti di essi siano ascrivibili alla dimensione organizzativa piuttosto che a quella individuale (es. qualità dei servizi pubblici, benchmarking, ecc.).
4. Non è vero che il sistema di valutazione è troppo centralizzato e monolitico. Al contrario il sistema disegnato è flessibile e decentrato. Il modello non è univoco, ciò che è univoco sono i requisiti metodologici minimi. La differenza non è banale e un esempio può chiarirlo. Ogni amministrazione, coerentemente al proprio contesto interno ed esterno, definirà obiettivi suoi propri e specifici. Tali obiettivi però dovranno soddisfare dei requisiti minimi (se ne dovrà motivare la rilevanza, pertinenza, misurabilità, raggiungibilità, ecc.). Gli attori che parteciperanno alla definizione degli obiettivi, alla valutazione delle performance, ecc., sono interni alle singole amministrazioni e non centralizzati. Ciò che sarà centralizzato sarà la definizione dei requisiti minimi – che sarà competenza della commissione centrale – per garantire una valutazione corretta e la massima trasparenza esterna. Cosa c’è di centralizzato e monolitico in tutto ciò? Si può argomentare, al contrario, che sia un buon bilanciamento tra necessità di governance del sistema e autonomia delle singole amministrazioni.
Quanto alle soluzioni proposte dagli Autori, si può facilmente dimostrare che esse già sono contenute nel decreto:
Enfasi su uffici e non individui, e adeguati sistemi di misurazione. Oltre a quanto già argomentato, appare molto limitativo e anche un po’ anacronistico individuare nei (soli) sistemi di contabilità industriale la soluzione per la misurazione delle performance delle pubbliche amministrazioni. Infatti, quest’ultima ha una natura multi-dimensionale (una citazione per tutti: il modello del valore pubblico di Moore). La riforma va ben oltre la mera introduzione della contabilità industriale, ma comporta la definizione di un sistema multidimensionale di misurazione delle performance (non solo input ma anche output e outcome in una logica di balanced scorecard).
Indirizzare il lavoro della Commissione verso la costruzione di sistemi di misurazione che permettano di comparare le performance collettive. All’art. 13, comma 4, tra i compiti della Commissione è previsto già il ruolo di accompagnare la costruzione di sistemi di misurazione che permettano di comparare le performance a livello sia organizzativo che individuale (benchmarking) per aiutare ciascuna amministrazione a ridefinire il proprio modello organizzativo.
Legare l’incentivazione non ad una gratifica annuale ma al percorso di carriera. Forse è sfuggito, ma nell’ambito del decreto, la valutazione non è solo legata alla premialità economica ma anche al percorso di carriera (art. 24). Inoltre, la valutazione individuale positiva può dar luogo a incarichi specifici (art. 25). Non è illusorio quindi pensare che l’abbinamento di queste disposizioni abbia un impatto sulla motivazione, a breve e a lungo termine. Al contrario, pensare che la motivazione del personale possa essere spinta unicamente da prospettive di lungo termine sembra quanto meno anacronistico e rispecchia una visione della PA d’antan.
In conclusione, desideriamo ringraziare gli Autori, dal momento che ci hanno consentito di chiarire e comunicare meglio logiche e aspetti di una riforma che, essendo complessa, può risultare non pienamente intelligibile ad una prima e non approfondita lettura. Certo, se i loro spunti ci fossero giunti nell’ambito delle varie occasioni di consultazione sui contenuti del decreto – alle quali peraltro uno di loro è stato personalmente ma vanamente invitato a partecipare – sarebbero stati apprezzati meglio e prima.

LA REPLICA DEGLI AUTORI AL COMMENTO DI HINNA E TRONTI

Nella cortese risposta al nostro articolo del 4 giugno, i Consiglieri del Ministro segnalano che lo spirito della riforma è in linea con le nostre osservazioni. Ne siamo lieti. Se l’enfasi della Riforma e della costituenda Commissione sarà focalizzata su impostare e governare un sistema per misurare la performance delle varie amministrazioni, comprendere i livelli di produttività di uffici simili in territori diversi, confrontare tali livelli con attività comparabili di altre amministrazioni in Italia e all’Estero, il Paese ne beneficerà. Se poi questa perfomance si articolerà oltre che in banali sistemi di contabilità industriale per misurare produttività e costo per singolo servizio anche in moderni sistemi di balanced score card in cui si misurino anche i livelli di servizio, la soddisfazione degli utenti e dei dipendenti, ecc., saremo probabilmente all’avanguardia in Europa. Se infine le singole Amministrazioni Pubbliche stimolate dal confronto troveranno la forza e la creatività di ridefinire il proprio modus operandi, ridurre gli organici in eccesso e accorpare strutture sovrapposte o ridondanti, allora potremo dire che il Paese ha fatto un balzo in avanti. Non resta che fare ottimi auguri ai futuri componenti della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche. Ne avranno bisogno.
La dimensione organizzativa è certamente presente nella riforma. Ce ne eravamo resi conto. Tuttavia, nonostante i chiarimenti, continuiamo a pensare che vi sia un eccesso di enfasi sulla valutazione individuale e che lo schema (monolitico?) 25-50-25 possa rivelarsi una forzatura. Ne comprendiamo la motivazione, a fronte di sistemi di valutazione che spesso classificano tutti a pari merito al primo posto. Ma la cura scelta può aggravare il male. Nessuno nega che l’apporto individuale sia importante anche nella pubblica amministrazione. Il problema è che in gran parte delle attività pubbliche il lavoro è organizzato (e non può essere altrimenti) per gruppi, dove in genere il contributo individuale è difficilmente enucleabile e misurabile (ovvero è molto costoso farlo). La questione diventa allora come disegnare meccanismi retributivi incentivanti per i singoli all’interno del gruppo. La soluzione (il riferimento di partenza è Bengt Holmstrom) è riferire gli incentivi alla performance del gruppo nel suo complesso e non certo organizzare tornei tra i singoli. Se si forza la situazione, in assenza di un meccanismo di valutazione trasparente e accettato da tutti i componenti del gruppo, si corre il rischio di minare la percezione che i singoli hanno dell’equità dello schema retributivo con effetti negativi proprio sulla performance che si vorrebbe incentivare. Tutti uguali allora? Certamente no. Gli incentivi attribuiti al gruppo consentono un’ampia differenziazione. Un esempio è l’esperienza dell’Agenzia del territorio (il vecchio Ufficio del Catasto), dove il premio di produttività ai dirigenti (in quanto responsabili di uffici) è individuale, mentre quello erogato agli impiegati è differenziato solo per ufficio e varia, per i 122 uffici, su una scala da 1 a 8. Soprattutto, questi incentivi rispondono all’obiettivo di premiare la performance in termini del servizio erogato dall’ufficio. Se una squadra di vigili del fuoco spegne l’incendio con successo, non è chiaro quale vantaggio si ottenga da una graduatoria che distingue, nella squadra, chi è più bravo, chi è mediamente bravo e chi è un po’ scarso o poco volenteroso. Insomma, l’invito è a distinguere e a procedere per gradi. Benissimo gli incentivi annuali individuali, dove sono possibili, ma senza modelli unici del tipo 25-50-25, lasciando che a decidere sulla forma della distribuzione siano i dirigenti. Senza dimenticare però che gli incentivi individuali annuali non sempre sono sensati e che comunque alla fine ciò che interessa è la performance a livello di unità produttive.
Riguardo alla questione delle carriere. Gli artt. 24 e 25 non erano sfuggiti. Ma affinché le carriere funzionino come meccanismo incentivante occorre che la struttura delle carriere stesse sia stabile nel tempo e i percorsi di avanzamento siano ben definiti. Cosa che non ci sembra avvenga oggi. Sarà pure anacronistico (?) ma in organizzazioni con rapporti di lavoro permanenti e dove spesso i singoli sviluppano nel corso della loro vita lavorativa competenze idiosincratiche (vale a dire non facilmente spendibili altrove) la motivazione del percorso di carriera resta la più potente. Basta peraltro guardare ai meccanismi che governano le burocrazie di eccellenza (ce ne sono anche in Italia).
È più di decennio che nella nostra pubblica amministrazione è stato introdotto un sistema di definizione degli obiettivi e valutazione dei risultati. Siamo tutti d’accordo sul fatto che l’esito finora non sia stato soddisfacente. Nonostante, come dicono Hinna e Tronti, i giusti principi siano già largamente presenti nelle norme. La nuova riforma è apprezzabile nell’enfasi che pone su trasparenza e valutazione. Importante è non ricadere negli errori del passato, sviluppare sistemi di misurazione, senza dimenticarne limiti e ambiti, e ricordare che le norme di legge, anche eccellenti, sono la premessa ma, se si vogliono ottenere risultati concreti, non possono sostituire la difficile pratica del lavoro nello specifico e nelle singole strutture sui processi, sugli strumenti, sulle risorse, sugli assetti organizzativi.

IL POSTO PUBBLICO? SI EREDITA

A parità di istruzione, genere, età, stato civile, area geografica e altri parametri, la probabilità di entrare nella pubblica amministrazione aumenta del 44 per cento per gli individui il cui padre lavora nel settore pubblico. Ma il nepotismo non è solo fonte di iniquità, ha anche costi rilevanti per le organizzazioni pubbliche, costrette a impiegare lavoratori meno competenti. E’ essenziale un meccanismo che premi o penalizzi economicamente i responsabili delle selezioni sulla base della qualità delle scelte effettuate.

MINISTRO MELONI BATTA UN COLPO!

Se con la recessione in giro per il mondo è un brutto momento per tutti, in Italia sembra essere un momento tragico più che altro per i giovani. La disoccupazione giovanile è aumentata dal 18 al 25 per cento e circa 400 mila precari, quasi tutti giovani, hanno perso un lavoro nel primo trimestre del 2009 rispetto al primo trimestre del 2008. La rilevazione trimestrale delle forze lavoro sembra un vero bollettino di guerra per i lavoratori atipici: sono andati distrutti 150 mila lavori a termine, 100 mila collaboratori e 150 mila lavoratori autonomi, tra i quali vi sono diverse partite IVA “parasubordinate” che forniscono le loro prestazioni a un solo committente. Il lavoro a tempo indeterminato, protetto dalla cassa integrazione, è invece aumentato. Se non fosse grazie all’occupazione straniera, che ha registrato una nuova crescita, l’occupazione italiana sarebbe addirittura diminuita di 426 mila unità. Dei 400 mila lavoratori precari che hanno perso lavoro, al massimo uno su tre ha accesso al sussidio di disoccupazione ordinario. Questi giovani sono stati beffati due volte. Hanno avuto un lavoro decisamente meno protetto di quello dei loro padri e, una volta disoccupati,  vengono completamente abbandonati dallo Stato. In modo quasi provocatorio, il Ministro Sacconi ha ieri annunciato di voler creare un bonus da destinare a quelle imprese che assumono lavoratori in cassa integrazione. Come se i 400 mila precari neodisoccupati non esistessero e non fossero il vero problema emerso dalla rilevazione trimestrale dell’Istat.  Sindacati e Confindustria annuiscono. Giorgia Meloni, titolare del dicastero per i giovani, almeno lei batta un colpo!

MERCATI DEL LAVORO SULL’ORLO DELLA CRISI

La disoccupazione cresce in Europa a ritmi superiori a quelli del passato. E con un andamento simile a quello degli Stati Uniti. La recessione di oggi interviene infatti su mercati del lavoro europei resi più flessibili dalle riforme degli ultimi anni. Ciò non significa che sia auspicabile tornare alle rigidità del passato, come invece potrebbe accadere sull’onda della crisi. Serve invece un approccio integrato e, per quanto possibile, coordinato nella regolamentazione del mercato del lavoro e dei mercati finanziari, per garantire la stabilità di entrambi.

QUANTI SONO I LAVORATORI SENZA TUTELE

Due milioni nello scenario peggiore, un milione e mezzo in quello più favorevole: sono questi i numeri dei lavoratori senza tutele. Gli interventi del governo hanno sì ridotto la platea dei coloro che in caso di perdita del posto resterebbero privi di qualsiasi forma di sussidio, ma sono ben lungi dall’averla annullata. Tanto più che le indennità di disoccupazione e in deroga si esauriscono in fretta, mentre la crisi occupazionale potrebbe essere lunga. Tutto il sistema è da riformare in mercato del lavoro caratterizzato da carriere sempre più frammentate.

MA IL PROBLEMA NON SONO SOLO I FANNULLONI

Trasparenza e valutazione sono i due principi guida della riforma Brunetta. Il limite è l’idea che la produttività dipenda innanzitutto dagli sforzi degli individui e dalle norme di legge, ma non dai modelli organizzativi, dagli obiettivi e dalla distribuzione delle risorse sul territorio. E’ vero il contrario. Occorre dotarsi di sistemi di contabilità industriale che misurino la produttività anche nella Pa, con modelli specifici per ciascuna amministrazione. E in questi casi il principale incentivo per gli individui non è la gratifica annuale, ma il percorso di carriera.

LA PRECARIA INDAGINE SUI PRECARI

L’Italia è uno dei pochissimi paesi europei in cui non sono ancora disponibili dati sull’occupazione e la disoccupazione nel 2009. Questi dati vengono raccolti sulla base di rilevazioni continue, il che significa che, ad esempio, anche oggi sono in corso rilevazioni. Poi i dati vengono centralizzati, si svolgono una serie di controlli di coerenza e poi vengono elaborati. Tutto questo richiede circa tre mesi. Ciò non impedisce dunque a un istituto di statistica di pubblicare ad aprile i dati di gennaio, a maggio quelli di febbraio e così via. Da noi, invece, si aspetta la fine di ogni trimestre per rendere pubblici i dati, il che significa che solo a fine giugno sapremo cosa è accaduto nei primi mesi del 2009. Questo è un fatto molto grave perché impone alla politica economica (e al dibattito pubblico) di operare al buio. Soprattutto in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo, questo ritardo è molto costoso. Impedisce, ad esempio, di capire cosa sta succedendo ai lavoratori precari. Quanti di loro hanno già perso il posto di lavoro nella recessione.
Perché in Italia non si pubblicano dati mensili su occupazione e disoccupazione basati sullÂ’indagine sulle forze lavoro? Il problema è che per svolgere unÂ’indagine che interessa i lavoratori precari lÂ’Istat si è dotato di una rete di Â… precari. Si tratta infatti di circa 320 rilevatori che operano sul territorio con tecniche CAPI (computer assisted personal interviews). Questi rilevatori hanno una tipologia contrattuale – co.co.co. – che la Funzione Pubblica già nel 2005 dichiarò illegittima, intimando all’Istat di cambiarla. Da allora, di anno in anno e di emendamento in emendamento, la rete sopravvive in regime di deroga e in attesa di una "soluzione definitiva". L’ultimo decreto milleproroghe ha concesso l’ennesima proroga ma solo fino al 30 giugno di quest’anno. NellÂ’attesa di vedere cosa succederà ai rilevatori, lÂ’Istat ha così deciso di rimandare i piani di pubblicazione di dati mensili sulle forze lavoro, lasciando tutto in sospeso.
Ma c’è un rischio ancora peggiore. Nel caso in cui la Funzione Pubblica decidesse di non concedere più la solita proroga, lÂ’Istat potrebbe condurre tutte le interviste senza rilevatori sparsi sul territorio. In altre parole, lÂ’indagine verrà svolta solo per via telefonica. Questo significa ottenere stime distorte e incoerenti con quelle degli anni precedenti, con ripercussioni anche sulla stima del PIL, per la quale l’occupazione stimata a partire dallÂ’indagine forze lavoro rappresenta un asse portante.
Per capire gli effetti di questa scelta, basta ricordare come si svolge oggi lÂ’indagine. Questa prevede quattro interviste per ogni famiglia a cadenze prestabilite. La prima intervista viene effettuata da un rilevatore professionista presso l’abitazione della famiglia con tecnica face to face (CAPI). Quelle successive sono svolte telefonicamente da una società specializzata, tranne che nel caso di famiglie senza telefono o con intestatario straniero. In questi casi, sono gli stessi rilevatori della prima intervista a visitare nuovamente la famiglia. Se tutto dovesse svolgersi con il metodo CATI si rischia di avere una bassa qualità della prima intervista e di non raggiungere le famiglie senza numero di telefono. Inoltre, il metodo CAPI è fondamentale quando si ha a che vedere con famiglie di immigrati, che non parlano bene la nostra lingua.

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