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Categoria: Lavoro Pagina 89 di 113

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Sono d’accordo che, per cio’ che riguarda la bellezza, la correlazione con il reddito potrebbe indicare una causalita’ inversa: i ricchi si curano di piu’, vanno dal dentista e dal parrucchiere, sono più rilassati, e perciò possono apparire piu’ belli all’intervistatore. Per l’altezza, questo tipo di causalita’ inversa e’ meno plausibile.
Molti commenti osservano che la bellezza non e’ tutto, sia nella vita, sia anche nel lavoro. Certamente sono d’accordo. Trovare un effetto causale non vuol dire certo spiegare tutta la variazione nei salari.
Un commento suggerisce che la bellezza e’ produttiva in tanti tipi di lavoro (investment banking è un caso citato) perché i clienti vogliono interagire con impiegati belli, e che ciò spiega la differenza salariale. Per ciò che riguarda l’altezza, lo studio citato nel mio articolo dice che ciò non è vero, giacché gli alti cresciuti tardi
non guadagnano di più. Per ciò che riguarda la bellezza non esiste ancora (che io sappia) uno studio che investighi se per caso i belli "tardivi" non guadagnano tanto quanto i belli "adolescenti."

OBBLIGO DI PREMIARE IL MERITO

Anche nella Pa si va finalmente verso l’adozione di un sistema di indicatori di produttività e di misuratori della qualità del rendimento del personale. I settori che raggiungono standard più alti dovranno beneficiare di maggiori risorse per premiare la produttività individuale. Come riconoscimento della capacità di cambiamento e di propensione all’innovazione. Per esempio, usufruendo di una parte più consistente di fondi, collegata a un percorso di diminuzione della percentuale fissa di retribuzione a favore della parte variabile.

LA BELLEZZA? E’ MEZZA RICCHEZZA

E’ opinione comune che altezza e bellezza siano di aiuto non solo nella vita in generale ma anche sul lavoro, determinando stipendi più alti per chi è esteticamente più “dotato”. Alcuni studi recenti sfatano però questo mito. Bellezza e altezza sono importanti nell’ adolescenza perchè incidono positivamente sull’autostima.  Ed è questo, a ben vedere, che nella vita adulta può fornire un vantaggio, anche salariale. Sia per gli uomini sia per le donne.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie a tutti i lettori che hanno inoltrato dei commenti, quasi tutti ottimi. Rispondo brevemente, e cumulativamente.

Innanzi tutto, vorrei chiarire che a mio giudizio la decisione della corte europea (che nella mia lettura stigmatizza la discriminazione basata sulla origine etnica) è ottima. Egualmente, non sono necessariamente a favore dei sistemi di quota proprio perché essi, come il dirigente belga, tendono a far dipendere una decisione dall’appartenenza a una categoria (nel caso della ditta belga, la categoria “europei”, e nel caso delle quote rosa la categoria “donne”).
Detto questo, è vero che c’è un limite all’analogia. Mentre gli “europei” sono una categoria “avvantaggiata”, le donne sono viste in certi ambiti come “svantaggiate”. Alcuni commenti hanno segnalato questa importante differenza. La posizione di questi lettori è certamente legittima.
Un lettore chiede se ci siano studi che valutino l’impatto di rimedi di affirmative action. Lo studio che ci va più vicino, a mia conoscenza, è il lavoro del professore di legge Richard Sanders.(1) Io interpreto i dati da lui presentati come evidenza che, almeno nell’ambito delle Law Schools americane, preferenze razziali nelle ammissioni non aiutano a selezionare “gemme nascoste”, ne’ hanno l’effetto di migliorare le performance di coloro che ne beneficiano – almeno nell’arco del periodo di studio preso in esame.
Una lettrice dice che in concorsi con prove anonime le donne ricevono voti relativamente migliori che in concorsi non anonimi. Sarei interessato ad avere questi dati, se esistono in forma sistematica. Per chi è interessato all’argomento, riferisco al classico articolo “Orchestrating Impartiality”, che mostra che, quando I concorsi per orchestrale furono fatti “ciechi” (con il candidato dietro uno schermo), le donne furono assunte più frequentemente che nei concorsi normali.(2)

(1) Si veda per esempio  “A Systemic Analysis of Affirmative  Action in American Law Schools”, disponibile al sito http://www.law.ucla.edu/sander/Systemic/final/SanderFINAL.pdf
(2) “Orchestrating Impartiality: The Impact of "Blind" Auditions on Female Musicians” di Claudia Goldin e Cecilia Rouse The American Economic Review, Vol. 90, No. 4 (Sep., 2000), pp. 715-741   

CONFRONTO CON I LETTORI

Ringrazio i lettori per queste precisazioni, cui diamo spazio per completezza di informazione anche se riferite ad un articolo apparso su Repubblica e non su questo sito. La posizione dei dipendenti pubblici e’ oggi sulla carta migliore di quella dei privati coinvolti dalla norma anti-precari, ma come chiarito su questo sito da Luigi Oliveri, in realta’ esistono molte clausole che possono impedire la loro effettiva stabilizzazione in caso di irregolarita nella gestione del loro rapporto di lavoro.

IL PRECARIO NELLA MANOVRA DI MEZZA ESTATE

Disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato privati e pubblici ma anche nell’ambito delle due categorie, dubbi di costituzionalità: sono alcuni dei grossi problemi cui va incontro l’emendamento sui precari della “manovra di mezza estate”. La disposizione proposta scarica le conseguenze dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro tutte sulle spalle del dipendente. Questo piace a Confindustria, ma negli ultimi giorni anche da parte del Governo si manifesta la volontà di modificare il testo.

MISURARE LA PRODUTTIVITA’ NEL SETTORE PUBBLICO

L’Agenzia delle Entrate ha studiato una metodologia per quantificare la produttività del lavoro in ambito pubblico. La chiave di volta consiste nell’individuare i servizi esterni erogati, destinati ai singoli cittadini o alla collettività nel suo insieme. A ciascuna tipologia si associano uno o più indicatori, oggettivamente misurabili e verificabili: la produttività diventa così uno strumento per monitorare l’efficienza. Il metodo scoraggia l’utilizzo di arbitrarie promozioni di massa e incrementi non giustificati delle retribuzioni nelle qualifiche più alte.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Diversi lettori hanno espresso un certo scetticismo rispetto alla possibilità che la concorrenza possa ridurre la discriminazione sul mercato del lavoro. In particolare, una lettrice argomenta che la concorrenza ha fatto sparire “i concorsi e l’orario di lavoro contrattuale” dando origine a pratiche di assunzione e promozione non basate sul merito e la produttività potenziale. La lettrice sembra tuttavia alludere più al settore pubblico che al settore privato. Il settore pubblico in Italia come in altri paesi non è esposto a una vera concorrenza di mercato. Alcuni paesi hanno introdotto meccanismi volti ad aumentare l’efficienza del settore pubblico ed a promuovere la meritocrazia ma fondamentalmente la pressione concorrenziale sul settore non è cambiata radicalmente (tranne che il settore pubblico o para-pubblico si è tendenzialmente ridotto). Ciò a cui allude giustamente la lettrice, non è la pressione concorrenziale esterna a un’impresa o un’organizzazione, a cui ci riferiamo invece nell’articolo, ma è l’introduzione di una maggiore flessibilità nel pubblico impiego senza adeguati incentivi per il management, che può offrire, al contrario, opportunità per la discriminazione, perché lascia più margini di manovra senza, appunto, aumentare la pressione a fornire servizi più efficienti e dunque a assumere e incentivare i migliori, indipendentemente dal loro sesso. Questo non vuol dire che una maggiore flessibilità, rispetto a un sistema rigido di concorsi, non debba essere introdotta, ma ciò richiede adeguati checks and balances. Nell’articolo, viceversa, discutiamo l’effetto della pressione concorrenziale nel privato, la quale constringe la le imprese  ad assumere e promuovere i migliori per evitare di perdere quote di mercato.

Ma è importante chiarire un punto rispetto alla natura della discriminazione. Da un punto di vista teorico una maggiore concorrenza sul mercato può anche aumentare le pratiche discriminatorie quando queste sono percepite come profittevoli per le imprese. Inoltre, la concorrenza può portare le imprese all’adozione di forme di organizzazione del lavoro che penalizzano certi gruppi, tra cui le donne. Ad esempio, maggior concorrenza spesso costringe le imprese a rispondere rapidamente all’evoluzione della domanda e per far questo le imprese spesso richiedono una maggiore flessibilità dell’orario del lavoro che di fatto penalizza alcuni lavoratori. Due considerazioni si impongono tuttavia a questo riguardo. Primo, gli studi empirici mostrano che, almeno sulle differenze salariali e occupazionali tra uomini e donne, gli effetti benefici di una maggiore concorrenza dovuti alla riduzione della discriminazione “inefficiente” – cioè basata sul pregiudizio — tendono a dominare gli effetti negativi dovuti a un aumento di pratiche di gestione di fatto sfavorevoli alle donne. Secondo, un’adeguata legislazione anti-discriminazione serve appunto a combattere queste pratiche quando sono discriminatorie (per esempio quando una donna si vede rifiutare un posto di responsabilità per il semplice fatto di essere mamma, indipendentemente dalla sua effettiva disponibilità di tempo e dalle sue capacità). Inoltre, altri interventi di politica economica (in particolare un’adeguata politica della famiglia) possono aiutare a disincentivare queste pratiche e/o a ridurne gli effetti quando non si tratta di pratiche discriminatorie.
Infine, le leggi possono favorire cambiamenti culturali quando questi sono alla base della discriminazione . Si pensi, per esempio, all’effetto dell’introduzione delle leggi contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti, in una situazione in cui, almeno in alcuni Stati , il problema era radicato in attitudini sociali e culturali. (1) Ovviamente questo richiede anche che le leggi anti-discriminazione siano efficaci ed applicate  rigorosamente, proprio quello che è assente in Italia.

Su un altro fronte, un altro lettore è scettico sulla possibilità che, dato il livello basso dei salari, ci possa essere oggi in Italia discriminazione basata sul sesso. Questo presupporrebbe che i salari nominali si siano ridotti e schiacciati contro i minimi contrattuali. Ma il problema principale in Italia è la bassa, bassissima, crescita della produttività che limita gli incrementi salariali in generale ma non impedisce che le disparità tra i salari dei lavoratori vengano mantenute se non aumentate. Inoltre, anche se un uomo e una donna fossero pagati nello stesso modo per un lavoro uguale, ciò non impedirebbe, come ricordato dalla lettrice di cui sopra, che la discriminazione si possa realizzare riguardo alle opportunità di lavoro offerte alle donne, generando quindi differenze salariali medie tra i sessi dovute unicamente alla discriminazione.

(1) Si veda per esempio: Leonard (1984), “Antidiscrimination or Reverse Discrimination: The Impact of Changing Demographics, Title VII, and Affirmative Action on Productivity”, The Journal of Human Resources, Vol. 19, No. 2, pp. 145-174, Chay (1998), “The Impact of Federal Civil Rights Policy on Black Economic Progress: Evidence from the Equal Employment Opportunity Act of 1972”, Industrial and Labor Relations Review, Vol. 51, No. 4, pp. 608-632, e Hahn et al. (1999), “Evaluating the Effect of an Antidiscrimination Law using a Regression-Discontinuity Design”, NBER Working Paper No. 7131.

QUEGLI INDICATORI NEMICI DELLE DONNE*

La legge sugli incentivi alle aziende che assumono donne non si applica alla Calabria, che pure ha un tasso di occupazione femminile al 31 per cento. Un caso che deve servire da monito per il futuro. Se gli indicatori utilizzati per ripartire gli stanziamenti per le politiche sociali e del lavoro si basano solo sulla disoccupazione, in alcune fasi potrebbero essere penalizzati proprio i segmenti più deboli sul mercato del lavoro. Costruire o individuare l’indicatore adeguato a misurare un fenomeno è difficile, ancora più complesso è costruirne uno sensibile al genere.

QUALE RIFORMA PER IL PUBBLICO IMPIEGO

Sul pubblico impiego il governo indica una serie di innovazioni che è difficile non condividere. Quindici anni di insuccessi, tuttavia, spingono a essere cauti sulla possibilità di realizzarle. Perdura l’idea di applicare in modo uniforme gli stessi principi a tutta la pubblica amministrazione. E riemergono i progetti ad hoc di miglioramento della produttività. Mentre l’esperienza insegna che sarebbe preferibile un approccio graduale, iniziando a misurare e premiare la produttività delle strutture prima che quella dei singoli. Sulla base di indicatori ben definiti e trasparenti.

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