Sul primo punto sollevato da Giorgio Conti e da altri lettori. Ho lavorato per quattro anni come sindacalista della Fiom-Cgil (in una zona della Brianza), poi per altri sei anni alla Camera del Lavoro di Milano, in mezzo agli operai e con una retribuzione pari alla loro. Conosco da vicino la fatica del loro lavoro. In seguito, il mio lavoro è sempre stato di natura intellettuale e non manuale; ma ho sempre lavorato per sette giorni alla settimana e per almeno dieci ore al giorno: ne è prova quello che ho fatto fin qui, e chiunque può controllarlo direttamente sul mio sito e nell’Archivio dei miei scritti. Insomma, so che cosa è il lavoro.
Il dovere dello studioso è dire tutto quello che pensa anche quando questo va controcorrente; e dirlo senza asservirsi ad alcun interesse costituito. Nel caso di Pomigliano ho detto e dico ciò di cui sono convinto: il motivo pregiudiziale addotto dalla Fiom per rifiutare l’accordo è indifendibile. E osservo che quel motivo (pretesa contrarietà alla Costituzione della clausola sui tassi anomali di assenza per malattia e della clausola di tregua) non ha alcuna attinenza con la faticosità dell’organizzazione del lavoro proposta dalla Fiat.
D’altra parte, i diritti dei lavoratori si difendono prima di tutto combattendone gli abusi. Una regola di tutela del lavoratore che si ammala non può avere lunga vita, se essa si presta a essere diffusamente utilizzata per assistere alla partita di calcio; una disposizione che, “chirurgicamente”, impedisce questo abuso mi sembra il modo migliore per difendere la tutela generale dei lavoratori che si ammalano. La stessa disposizione, peraltro, prevede che una apposita commissione esamini i casi in cui c’è l’evidenza di una situazione reale di infermità del lavoratore, nonostante la coincidenza con la partita. Mi sembra, questo, un modo molto ragionevole per far fronte alle anomalie gravi che, su questo terreno, nello stabilimento di Pomigliano si registrano da decenni; qualche cosa, comunque, su cui accettare la discussione, non certo da respingere pregiudizialmente.
Sul secondo punto. La Costituzione attribuisce a ciascun cittadino, oltre al diritto di sciopero, un diritto più fondamentale ancora: una amplissima libertà personale; questo non toglie che, quando il cittadino è anche lavoratore, questa libertà sia legittimamente limitata per quaranta ore alla settimana, né che un contratto collettivo possa disciplinare questa limitazione, regolando il tempo e le modalità del lavoro con effetti direttamente vincolanti per i singoli lavoratori rientranti nel suo campo di applicazione. Non basta, dunque, affermare che la Costituzione prevede il diritto di sciopero, per trarne la conseguenza che il contratto collettivo non possa regolarne modalità e limiti di esercizio. E il riferimento alla legge n. 146 del 1990 lo conferma; perché, se così non fosse, sarebbe incostituzionale la previsione, contenuta in quella legge, di contratti collettivi che regolano modalità e limiti del diritto di sciopero con effetti direttamente vincolanti per i singoli lavoratori, sia pure soltanto in alcuni settori (servizi pubblici) e non in altri. Invece, in vent’anni nessuno ha mai sostenuto che quella legge sia incostituzionale.
“Suicida” per un sindacato serio non è accettare una clausola di tregua rigorosa ed effettivamente vincolante per tutti i lavoratori cui il contratto si applica, ma semmai proprio il suo rifiuto, che priva il sindacato stesso della principale moneta di scambio di cui esso dispone al tavolo negoziale e lo espone al rischio di essere ridicolizzato dai concorrenti opportunisti.
Lo stesso discorso vale anche per rispondere a Stefano Liebman, secondo il quale è pura mistificazione far passare per normale la clausola n. 15 dell’accordo (quella che qualifica come illecito disciplinare la partecipazione individuale a scioperi vietati dalla clausola di tregua). L’articolo 40 della Costituzione stabilisce soltanto che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”; non stabilisce né che la titolarità di questo diritto appartenga al singolo lavoratore piuttosto che al sindacato (questione, peraltro, un po’ “di lana caprina”), né che questa materia non possa essere oggetto della disciplina contenuta nel contratto collettivo, applicabile anche ai singoli lavoratori, come lo sono le materie della retribuzione o dell’orario di lavoro (queste pure oggetto di previsione costituzionale, nell’articolo 36). Che la titolarità del diritto di sciopero appartenga al singolo lavoratore, e che questa materia non possa essere oggetto della disciplina contenuta nel contratto collettivo applicabile anche ai singoli lavoratori, sono due affermazioni nate da una elaborazione dottrinale risalente agli anni ’50 e ’60; elaborazione che è stata messa in crisi dalla legge n. 146/1990, la quale prevede esplicitamente la negoziazione collettiva di limitazioni anche molto drastiche dell’esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici, con efficacia diretta anche nei confronti dei singoli lavoratori. E’ vero che a Pomigliano d’Arco si producono automobili e non servizi pubblici; ma diversi giuslavoristi hanno sottolineato come, sul piano logico-sistematico, quella legge del 1990 contraddica la tesi dottrinale secondo cui lo sciopero è un diritto individuale di cui il contratto collettivo non può disporre. A meno che si voglia sostenere che lo sciopero nei servizi pubblici è una fattispecie ontologicamente diversa rispetto allo sciopero nell’industria manifatturiera (ma questo non mi sembra realisticamente sostenibile).
Questo per rispondere all’obiezione strettamente giuridica di Stefano Liebman (al quale consiglierei di usare con maggiore prudenza il termine “mistificazione”). Resta poi il problema di capire se e come un sistema di relazioni industriali degno di questo nome possa reggersi senza la chiave di volta costituita da una clausola di tregua sindacale affidabile: non è un caso che in quasi tutti gli altri Paesi europei quella chiave di volta sia pacificamente riconosciuta e rispettata, anzi rivendicata dai sindacati come propria prerogativa essenziale e garanzia del proprio potere contrattuale. Che in Italia questo sia vietato dall’articolo 40 della Costituzione non mi sembra davvero sostenibile.
A tutti gli altri lettori, che ringrazio dei loro commenti, propongo infine questa considerazione: nel libro Gomorra di Roberto Saviano sono descritte le condizioni impressionanti in cui centinaia di migliaia di operai al nero lavorano nei sottoscala e scantinati delle periferie delle città campane, senza vedere il sindacato neanche di lontano, senza malattia pagata, senza diritto di sciopero, senza contributi previdenziali, per nove o dieci ore al giorno, per un salario di 700 o 800 euro al mese. Sono tutte aziende che potrebbero essere individuate immediatamente, anche soltanto confrontando i tabulati dei consumi dell’energia elettrica con quelli dell’Inps o dell’Erario: se non lo facciamo, se il sindacato stesso non lo chiede con convinzione, è perché temiamo l’impatto economico-sociale pesante della chiusura di tutti quei posti di lavoro. Ma, così facendo, accettiamo ormai da decenni delle violazioni gravissime alla legge dello Stato, che consegnano alla gestione della Camorra interi pezzi di società civile; e accettiamo delle deroghe al contratto collettivo nazionale infinitamente più rilevanti di quelle proposte a Pomigliano da un imprenditore come la Fiat, cui si potranno imputare durezze e spigolosità, ma che opera pur sempre alla luce del sole e nel rispetto della legge. Ha un senso tutto questo? A me non sembra.
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Grazie ai militanti della Lega adesso sappiamo davvero cosa è il federalismo in salsa padana. Nei giorni scorsi hanno tempestato di telefonate sedi di partito ed emittenti padane alla ricerca di chiarimenti. I sindaci del Carroccio si sono rifiutati di salire sul palco della festa di Pontida. Come è possibile, si chiedevano molti di loro, che un Governo in cui la Lega conta sempre di più abbia regalato miliardi alla Sicilia spendacciona, abbia salvato dalla bancarotta il Comune di Catania, regalato 300 milioni a quello di Roma in un momento in cui ne taglia 2500 a tutti gli altri, e adesso riduca del 14 per cento i fondi alle Regioni del Nord? Che razza di federalismo, si chiedevano, può di fatto commissariare tutti gli enti territoriali togliendo loro qualsiasi margine di autonomia fiscale, con l’eliminazione dell’Ici e il blocco di tutte le addizionali?
La risposta, un po’ stizzita, è arrivata da Pontida. Umberto Bossi e gli altri leader della Lega ci hanno finalmente chiarito qual è la visione federale del partito. Si regge su quattro pilastri.
Il primo è il folklore. La squadra della Padania ha vinto i campionati mondiali di calcio, ha sottolineato con orgoglio il padre del Trota, team manager della rappresentativa. Non sappiamo se al prestigioso Campionato partecipasse la rappresentanza di Bahia, capitanata da Ricardino Kakà. O solo la squadra dell’oratorio di Klagenfurt. Ma l’importante è vincere. Evviva.
Il secondo è l’amore. Come ha sottolineato Bossi, la Lega è amata in tutto il mondo. Per fare un esempio, ha parlato della Svizzera. Lì i banchieri e le mucche, se ci presenta come militanti della Lega, ti accolgono come fratelli. Si hanno tutte le porte (incluse quelle delle cassette di sicurezza?) spalancate.
Il terzo pilastro è l’acqua. Finalmente il Lago Maggiore è tornato in Lombardia, finalmente la regione più ricca ha la sua spiaggia. Ce ne rallegriamo. Potremo finalmente non doverci più portare appresso il passaporto (e in bicicletta appesantisce alquanto la pedalata) quando andiamo a Stresa.
Il quarto è il campanile. Lavori pubblici e servizi sociali solo ai residenti di quel municipio, possibilmente da almeno 10 generazioni. Solo che qui si sa dove si comincia e non dove si finisce. Perché Sulbiate inferiore dovrebbe accettare che anche i residenti di Sulbiate superiore partecipino a un concorso per vigile urbano? E la frazione della frazione di Buccinasco che diritti ha? Inutile spiegare a Bossi & C. che le grandi federazioni, come gli Stati Uniti, si reggono proprio sulla mancanza di ogni discriminazione territoriale tra i cittadini residenti in luoghi diversi. Come tra parentesi, fa anche la nostra Costituzione e il Trattato Europeo. Dal Bill of Rights siamo passati al Boss of Rights.
Confermando la volontà di lasciare che la propria valuta si apprezzi gradualmente, la Cina ha fissato il tasso di cambio di riferimento di 6,7980 per un dollaro. Con quali conseguenze per la Cina? Guardando a esperienze simili di altri paesi, si può prevedere che non ci sarà un crollo della crescita. Né si avranno cadute della borsa o maggiori rischi di crisi bancarie. Vedremo probabilmente un rallentamento della crescita. Che comunque può essere evitato con opportune misure a sostegno dei consumi delle famiglie. E se saranno soprattutto i beni importati a beneficiarne, si tratterà del contributo cinese al riequilibrio globale.
L’estensione indiscriminata del cosiddetto equo compenso per la copia privata a tutti i dispositivi provvisti di memoria hardware altera irrimediabilmente il principio di proporzionalità tra l’entità del prelievo e le riproduzioni per uso personale realizzate dagli utenti. Perché il provvedimento resti nell’ambito del diritto d’autore e non configuri un mero aiuto di Stato alle grandi case discografiche e cinematografiche, è necessario introdurre limitazioni che assicurino trasparenza nella ripartizione del compenso e un’adeguata protezione dei consumatori.
Le vicende del bando Futuro in ricerca per i giovani ricercatori rappresentano l’ennesimo esempio di un sistema che si affida a meccanismi lenti e opachi e dai finanziamenti incerti. Lo scopo di sostenere le eccellenze scientifiche era certamente nobile. Tanto che i progetti presentati sono stati molti. Ma la storia del suo svolgimento sembra suggerire che senza una gestione chiara e trasparente del processo di valutazione e di assegnazione delle risorse, il richiamo ai principi di meritocrazia è solo uno slogan.
La cosa che più colpisce dell’accordo di Pomigliano è già evidente nelle righe che precedono il testo. Si dichiara che ciò che di seguito viene definita ipotesi di accordo altro non è che un documento conclusivo presentato dalla Fiat l’8 giugno 2010, a cui si aggiunge un punto 16, per nulla irrilevante. Il testo consiste in realtà in una dichiarazione unilaterale della azienda, travestita poi da accordo negoziale. Un caso davvero unico.
Finora la storia è stata una vera maestra di vita. La sequenza degli eventi negli ultimi anni ha infatti seguito diligentemente quella osservata nelle crisi susseguitesi con regolarità impressionante in quindici secoli, sotto ogni regime economico e politico, sotto ogni latitudine e con qualsiasi livello di sviluppo economico. Se è così abbiamo davanti tre possibili scenari. Ricordando anche che tutte le crisi sono state accompagnate da restrizioni ai movimenti di capitale, se non da vere e proprie forme di protezionismo finanziario.
Il decreto sulla manovra finanziaria dedica un intero articolo al rinnovo, tramite gara, della concessione dell’autostrada del Brennero, in scadenza nel 2014. Eppure l’infrastruttura è matura e i compiti del nuovo concessionario si limiteranno all’esazione dei pedaggi e alla manutenzione. Ruoli che si potrebbero appaltare a imprese private, mentre lo Stato potrebbe incamerare tutto il ricavo netto. Perché infatti lasciare quote consistenti di profitto a concessionari che nulla investono, nulla rischiano e ben poco hanno da fare?
La crisi globale ha rilanciato l’interesse per il sistema delle istituzioni e delle regole che governano il funzionamento dell’impresa. Ripartendo dal sostanziale fallimento dell’autoregolazione, ma consci anche dei limiti della regolazione. I paesi dell’Ocse hanno espresso la volontà di adottare principi comuni per rendere la crescita economica più forte, più sana e più equa. E riconoscono la necessità di promuovere l’applicazione dei principi di correttezza, integrità e trasparenza nella conduzione degli affari e delle attività finanziarie internazionali.