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L’UNIONE EUROPEA DOPO IL REFERENDUM IRLANDESE

Il sì dell’Irlanda al nuovo Trattato di Lisbona non risolve tutti i problemi. Gli euroscettici possono in alcuni casi diventare forze di governo e dunque i paesi che credono nell’Unione devono procedere nelle scelte concrete con gli strumenti della cooperazione rafforzata. Ci sono poi i seri pericoli di disintegrazione posti dalla crisi economica e finanziaria. E la necessità di parlare con una voce unica sulle grandi questioni mondiali. Serve un esercizio della funzione d’iniziativa, politica e legislativa, che il Trattato assegna in esclusiva al presidente della Commissione.

QUANDO L’AMBIENTE GIOCA IN CASA

L’approccio di Italia e Francia alle politiche ambientali non potrebbe essere più diverso. Almeno per quanta riguarda l’edilizia: Oltralpe diventa uno tra i possibili strumenti in grado di facilitare il raggiungimento degli obiettivi di crescita eco-compatibile in un’ottica di sostenibilità di lungo periodo. Da noi, invece, il Piano casa è pensato come una misura di sostegno immediato alla crescita del Pil, mentre le questioni di efficienza energetica e ambientale vengono derubricate a corollario. Le tragedie come l’Abruzzo e Messina dovrebbero far riflettere.

SE LA RIPRESA PUNTA SUL VERDE

Con la crisi cresce l’interesse per i cosiddetti lavori verdi, legati allo sviluppo di energie alternative. Non mancano le opinioni critiche, ma dal settore potrebbe derivare un aumento sia della produttività che dell’occupazione. E dunque i green jobs potrebbero permettere di riassorbire parte della crisi occupazionale che colpisce settori più tradizionali dell’economia. In ogni caso, hanno un valore intrinseco di tutela ambientale che ha un suo peso economico. E potrebbero consentire, indirettamente, una redistribuzione di risorse a favore delle generazioni future.

CHI PENSA ALLA PENSIONE

Stati Uniti e Regno Unito sono i due paesi con la previdenza privata più sviluppata. Eppure, all’indomani dello scoppio della crisi finanziaria, si sono impegnati a rafforzare il settore, anche operando forzature di tipo paternalistico. Il tutto preceduto, però, da una prolungata riflessione sulle modalità di funzionamento del sistema e sui correttivi che possano renderlo davvero credibile agli occhi dei lavoratori. Anche in Italia si ipotizza la riproposizione del silenzio-assenso. Ma prima occorre pensare alle precondizioni necessarie al suo successo.

IL COMMENTO DI GUZZETTA SULLO SCUDO FISCALE

Sul merito dello scudo fiscale si è detto molto e lavoce.info ha fornito, come sempre, utilissimi elementi di conoscenza.
Ma il merito, ahimé, è solo una parte, molto grave, certo, del problema. Altrettanto, se non più grave, è la narrazione che lo accompagna.
Porcherie in Italia se ne sono fatte tante. Sia con le azioni che con le omissioni. Sia da governi di centro-destra (soprattutto azioni) sia da governi di centro-sinistra (soprattutto omissioni). E mi interessa poco, in questo momento, fare graduazioni di responsabilità. Non perché non siano importanti, ma perché penso che ognuno le possa fare per sé, da cittadino. E molti le abbiano già fatte.
Né mi interessa applicarmi ad una riflessione sullo spirito degli italiani (Vittime? Complici? Ignavi? Furbetti?  Semplicemente “adattivi” alle condizioni date?). Lo spirito italiano è piuttosto complesso per interpretazioni monocausali e unidirezionali (come dimostra, tra gli altri, il saggio di Guido Crainz, Autobiografia di una repubblica).
La logica di una lettura semplicemente partigiana (da destra o da sinistra) di quanto accade, ci consegna solo un fiume di recriminazioni reciproche. Buone per la polemica politica quotidiana e per quando si andrà a votare.
Ma c’è qualcosa che trascende le pur importantissime posizioni partigiane. C’è qualcosa che ci coinvolge, come si dice, in modo bi-partisan. Che riguarda ben più del rosicchiamento di qualche voto di qua o di là, della casacca che portiamo.
Che attiene al tono della nostra convivenza civile.
Ciò che mi interessa adesso è parlare del futuro e di cosa, qui e ora, la “politica dello scudo” consegna al nostro futuro.
Qualunque cosa si pensi, oggi, ci sono degli sconfitti certi dello scudo. Sconfitti che stanno, tanto per essere chiari, sia a destra che a sinistra.
E gli sconfitti sono i cittadini-contribuenti leali al fisco. Siano essi lavoratori dipendenti (che non possono evadere) o lavoratori autonomi (che possono e non lo fanno, e ce ne sono tantissimi, come quel gommista di Messina di cui conservo gelosamente la ricevuta di 5, dico 5, euro).
La sconfitta è innanzitutto culturale. Perché oggi, in Italia, si chiede a questi contribuenti qualcosa di più della semplice lealtà fiscale. Si chiede qualcosa di più della semplice responsabilità di essere cittadini responsabili, di temperamento civile.
Oggi si chiede loro di sopportare una duplice umiliazione.
La prima umiliazione è quella di sentirsi degli utili idioti, irrisi dal cinismo di frasi come “tanto tutti lo fanno”, “tanto tutti hanno il proprio scheletro nell’armadio” (e quand’anche fosse? Non ci sarà anche una questione di misura, di scala?), “se non lo fanno, non è perché siano particolarmente virtuosi, ma, semplicemente, perché non se lo possono permettere”. “Sono fondamentalmente dei fessi, perché si sono scelti un lavoro che riduce il margine per comportamenti da furbi, perché hanno sbagliato commercialista o, la cosa più grave, perché continuano a raccontarsi che esistono virtù normali, come pagare le tasse”. Insomma chi è causa del suo mal pianga se stesso.
La seconda umiliazione riguarda la narrazione che accompagna l’adozione dello scudo. Coerentemente col menzionato cinismo, l’argomento più o meno è: “non siamo stati in grado di pizzicarli prima, almeno cerchiamo di racimolare quanto si può”. E poco importa se non si è fatto abbastanza, se nulla lascia preludere che si farà di più nel futuro, se quello che si fa oggi non ha nulla a che vedere (sul piano del rigore) con quanto altri paesi (Stati Uniti e Regno Unito) fanno e se alcuni profili del provvedimento  oltre che discutibili nel merito, sono anche dubbi in punto di legittimità. Quel che importa è che si salvi il salvabile (sic!).
Ora queste argomentazioni sono umilianti perché narrano di un paese disperato, sull’orlo del fallimento, costretto a rivolgersi ai peggiori cittadini per chiedere loro aiuto. Come un imprenditore costretto a ricorrere agli strozzini per pagare i propri debiti.
E l’umiliazione sta proprio in questo: che i cittadini leali col fisco sono, per il tramite dello Stato che li rappresenta, costretti a rivolgersi a chi leale non è stato, a chi manca di qualsiasi responsabilità sociale, a chi ha concorso palesemente (sottraendo risorse al fisco e alla collettività o, peggio, riciclando proventi criminali) a determinare la situazione che ci costringe a chiedere disperatamente, proprio a lui, un aiuto estremo.
Oltre il danno, insomma, la beffa.
Ora, nel paese sgangherato in cui siamo, tutto può trovare una giustificazione. Persino lo scudo fiscale. Evviva la Realpolitik.
Ma una cosa non è tollerabile. Non è tollerabile che la narrazione di questa porcheria consegni alla coscienza nazionale, all’etica pubblica, al futuro di questo paese, l’idea che tutto ciò sia normale. E che da domani, i contribuenti leali, dovranno per giunta ritenersi soddisfatti che i propri rappresentanti hanno salvato il salvabile.
Faccio una proposta che non ha nulla di provocatorio o ironico. Ma che, nelle condizioni date, è un atto di onestà intellettuale e civile verso il paese.
Vorrei che qualcuno di coloro collocati ai vertici istituzionali del mio paese avesse il coraggio di presentarsi ai suoi concittadini, magari, stavolta sì, a reti unificate, e facesse questo semplice e drammatico discorso:

“Scusateci, siamo disperati, l’Italia è alla frutta. Per non portare i libri in tribunale, siamo ridotti a blandire i peggiori cittadini (evasori, criminali, opportunisti) chiedendo il 5 % per le loro malefatte e per la loro impunità. Ci vergogniamo, ma non possiamo fare altrimenti. Non è il mondo alla rovescia. No, siamo noi italiani ad essere in una condizione disperata. Grazie, cari contribuenti, di non averci ancora mandati al diavolo!”.

AUTO ROTTAMATA, AUTO SALVATA. MA DOPO?

Il problema fondamentale del settore automobilistico è la capacità produttiva in eccesso. L’effetto degli incentivi è semplicemente di rinviare la resa dei conti fra i produttori europei. Almeno, negli Stati Uniti gli aiuti sono stati condizionati a un piano draconiano di ristrutturazione del settore che apparisse sostenibile nel medio periodo. In Europa invece le rottamazioni sono state decise dai singoli governi, senza forme di coordinamento esplicito. Il rischio è che i costi sociali saranno molto più alti e concentrati geograficamente quando il gioco al rinvio non sarà più possibile.

FIAT BATTE CASSA. UN FILM GIÀ VISTO

La politica europea sugli aiuti di Stato è ricca di ipocrisie: ancora oggi sono quasi trenta i canali attraverso i quali i governi possono finanziare le imprese nazionali. Tra l’altro, le rottamazioni per l’auto sono considerate aiuti ai consumatori e quindi non conteggiate. Quanto alla Fiat, ha già ricevuto oltre 300 milioni di aiuti di Stato ufficiali proprio per gli stabilimenti del Sud che ora minaccia di chiudere. Dovrebbe perciò cercare sul mercato le risorse per superare le difficoltà dovute alla crisi. Ed elaborare un piano industriale di rilancio delle produzioni italiane.

QUESTO PATTO NON SCOPPIA DI SALUTE

Il Governo ha finalmente proposto alle Regioni il nuovo Patto per la salute per il 2010-2011. Il documento è un mero aggiornamento di quello del 2006 e non tiene conto della mutata situazione economico-sociale né della legge sul federalismo fiscale. Ci sono molti adempimenti che hanno l’obiettivo di tagliare la spesa pubblica. Ma manca una strategia di politica per la salute. E non si affrontano seriamente neanche i problemi di efficienza, a partire dalla spesa farmaceutica, responsabile di buona parte dei disavanzi delle Regioni con squilibri di bilancio.

L’ISTAT, LE RILEVAZIONI E UNA DISCUSSIONE SENZA DATI *

L’Istat ha affidato ad una società privata, tramite gara, alcune fasi della rilevazione delle forze di lavoro. Nulla cambia rispetto alla piena titolarità dell’indagine, che resta all’Istituto. Sempre Istat determina i contenuti e le metodologie della rilevazione ed effettua i necessari controlli di qualità in tutte le fasi del processo. La scelta ha comunque suscitato un acceso dibattito. Ma i problemi della statistica sono altri: dal continuo taglio di risorse che mette l’Italia all’ultimo posto per spesa pro-capite tra tutti i paesi europei alla scarsa flessibilità organizzativa.

L’INFORMAZIONE STATISTICA? MEGLIO PUBBLICA

L’affidabilità, imparzialità e accessibilità delle rilevazioni statistiche sono di fondamentale importanza per un sistema d’informazione democratico. Solleva perciò perplessità la decisione dell’Istat di affidare alcune fasi della rilevazione delle forze di lavoro a una società privata di ricerca. In casi simili, non ci sono garanzie istituzionali dell’autonomia e indipendenza delle ditte private esterne, sulle quali potrebbero esercitarsi pressioni indebite. E l’esternalizzazione potrebbe accrescere i costi e peggiorare la qualità delle rilevazioni.

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