I problemi strutturali del nostro mercato del lavoro sono tutti legati all’ingresso e al rientro: per i giovani in cerca di prima occupazione, per le donne dopo la maternità , per chi sceglie un “periodo sabbatico”. Invece deve essere possibile entrare, uscire e poi rientrare nel mercato del lavoro, senza trovarsi ogni volta di fronte a ostacoli pressoché insormontabili. Per il primo impiego si può concepire un percorso a tre fasi: la prova, l’inserimento e la stabilità . Affiancato da altri due provvedimenti: salario minimo e contributo previdenziale uniforme.
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La questione della precarietà va senz’altro affrontata. Ma i veri nodi sono sul come potenziare gli ammortizzatori sociali e sul come regolare le flessibilità . Bisogna definire sussidi, e schemi di finanziamento, che ne scoraggino l’uso prolungato e ripetuto nel tempo, da parte delle imprese e da parte dei lavoratori. E stabilire come regolare il sistema. L’uso della flessibilità potrebbe essere per esempio calmierato da un costo aggiuntivo che tenga conto del maggior ricorso ad ammortizzatori sociali insito nel lavoro a termine.
Una delle grandi riforme italiane è stata l’applicazione del sistema privatistico alla dirigenza pubblica. A dieci anni dal varo prevale il senso di frustrazione per gli esiti che ha dato. L’introduzione di regole di trasparenza, come suggerisce il decalogo di Stefano Micossi, è certo indispensabile. Ma occorre rilanciare con determinazione i controlli interni e i sistemi di valutazione, oggi ridotti a una serie di passaggi formali. Da affiancare a nuovi meccanismi premiali che siano capaci di meglio garantire il raggiungimento dei risultati desiderati.
L’esperienza della Norvegia suggerisce che l’introduzione di incentivi finanziari può migliorare la gestione e la qualità dei servizi sanitari, inclusa la riduzione delle liste di attesa. Mostra anche però quanto sia improbabile che aumenti di produttività possano da soli finanziare una più vasta offerta di sevizi ospedalieri migliori. E in assenza di stringenti vincoli di bilancio, a livello locale o centrale, vi è il rischio che gli stessi incentivi inducano costi che, almeno ex-ante, sono giudicati eccessivi dalla società .
Il processo formale di trasformazione delle organizzazioni sanitarie pubbliche in aziende si è compiuto. Ma nella sostanza gli obiettivi della riforma sono stati elusi e il sistema attuale è inefficiente e costoso. Come risolvere la situazione? Indispensabili il ritorno al rispetto dei requisiti di professionalità dei manager delle aziende sanitarie e la sospensione delle pratiche di lottizzazione. Ma soprattutto si dovrebbe arrivare alla separazione del soggetto che presta i servizi sanitari da quello che li acquista per conto dei cittadini.
L’indagine conoscitiva sulla legge 194 dà risultati interessanti. In Italia, dal 1983 al 2003 le interruzioni volontarie di gravidanza si sono ridotte in valore assoluto del 43,5 per cento, mentre il tasso di abortività è tra i più bassi del mondo. Il calo però non riguarda le donne con cittadinanza straniera. Gli aborti occupano mediamente meno del 10 per cento dellÂ’attività dei consultori. L’altro 90 per cento è dedicato alla procreazione cosciente e responsabile, alle attività di prevenzione oncologica e ai percorsi di preparazione al parto.
Con le riforme degli anni Novanta le politiche sanitarie hanno puntato a spostare il luogo di cura dall’ospedale al territorio. Ma se si vuole veramente provare a ridurre gli sprechi e a migliorare l’efficienza della spesa, diventa ineludibile una maggiore attenzione a tre aspetti microeconomici: la dimensione dei presidi, la riduzione della capacità produttiva solo attraverso la diminuzione dei posti letto, lasciando invariato il personale, e il comportamento degli ospedali rispetto agli incentivi forniti dai meccanismi di rimborso.
La risposta del mondo politico alla fusione Autostrade-Abertis potrebbe segnare un nuovo indirizzo in termini di politica industriale. Ma per coloro che hanno a cuore gli interessi pubblici, non serve agitare lo spauracchio dello straniero o affliggersi con l’inevitabile debolezza del regolatore. Sarebbe meglio riflettere sugli errori commessi in passato e rimboccarsi le maniche per mettere in moto una buona riforma della regolazione di settore, indipendentemente dal fatto che gli operatori siano italiani o multinazionali.
Bologna sperimenterà un ticket di ingresso nella zona a traffico limitato del centro storico per i non residenti. Ma la proposta è poco convincente e corre il rischio di screditare la già scarsa “reputazione” delle politiche di road pricing. Come dimostra l’esempio londinese, per avere successo queste misure devono essere semplici e chiare, con specifici obiettivi e poche eccezioni. Tutte qualità che sembrano mancare alla soluzione bolognese. Più efficace ed equo appare invece il sistema dei crediti di mobilità studiato a Genova.
Gestione diretta di Anas per la Venezia-Padova. Potrebbe essere l’occasione per iniziare ad applicare tariffe determinate con l’obiettivo di promuovere l’efficienza allocativa del traffico, per ridurre la congestione, ad esempio separando il più possibile il traffico pesante da quello delle auto. Ma il rinnovo della concessione per la Cisa e la Brescia-Padova contraddice questa scelta. E ripropone la questione della riforma del settore, magari seguendo le indicazioni contenute nel Piano generale dei trasporti del 2001. Price cap compreso.