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Categoria: Pensioni Pagina 22 di 38

LE CONSEGUENZE DELL’IMMOBILISMO

Finalmente abbiamo la Relazione unificata sull’economia e la finanza. Era un documento atteso e importante per capire come è evoluta la strategia di politica economica del governo dopo l’aggravarsi della crisi e per avere un quadro più preciso sullo stato dei conti pubblici. Certifica le conseguenze dell’immobilismo di fronte alla crisi. La spesa pubblica aumenta accentuando il suo squilibrio a favore di pensioni e dipendenti pubblici, mentre disavanzo e debito peggiorano in modo consistente. E le stime potrebbero essere troppo ottimistiche sul lato delle entrate.

LE TASSE DEGLI IMMIGRATI *

I contributi previdenziali relativi a lavoratori stranieri ammontano per il 2007 a quasi 7 miliardi, circa il 4 per cento del totale. Ai quali si aggiungono oltre 3 miliardi tra Irpef, Iva, imposte per il lavoro autonomo e sui fabbricati. Un apporto sempre più rilevante, dunque. Ma per una seria analisi sui costi e i benefici dell’immigrazione, servirebbe come in altri paesi europei una commissione tecnica indipendente di indagine. Con il compito di individuare metodologia e indicatori e di redigere un rapporto periodico.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo i lettori che con il loro contributo ci danno l’occasione di chiarire alcuni aspetti sulle simulazioni presentate. Lo scopo della nostra simulazione è unicamente quello di valutare gli effetti sulla spesa pensionistica derivanti dall’innalzamento graduale dell’età pensionabile, in risposta alla sentenza della Corte di Giustizia europea. Di conseguenza, i risultati presentati fanno riferimento solamente alla spesa che deriva dai trattamenti previdenziali per le lavoratrici del settore pubblico. Non viene presa in considerazione, invece, la spesa pubblica volta alla remunerazione dell’attività lavorativa né i costi sociali di vario genere che derivano dalla riforma. Non considerando quindi gli effetti sul mercato del lavoro non è stato necessario utilizzare alcuna ipotesi sul turn-over.

Siamo convinti che la simulazione illustrata nel nostro articolo non possa rappresentare un’analisi completa per valutare la proposta di riforma nel suo complesso e le sue conseguenze sulla spesa pubblica. Per far ciò, come correttamente sottolineato nei diversi commenti, è necessario analizzare con cura non solo gli effetti sul mondo del lavoro, ma anche le conseguenze della riforma sull’intero sistema di welfare. Il nostro lavoro è quindi da considerarsi come un contributo ad un’analisi più generale.

UGUALI DI FRONTE ALLA PENSIONE

Il ministero per la Pubblica amministrazione ha elaborato una proposta di riforma che innalza gradualmente l’età pensionabile delle lavoratrici del settore pubblico da 60 a 65 anni. Con un possibile risparmio totale di circa un miliardo, secondo le nostre stime. Dal 2010 al 2014 il blocco delle uscite riduce notevolmente la spesa pensionistica rispetto allo status quo. Dal 2015 il risparmio rallenta, per l’aumento delle prestazioni dovuto al prolungamento dell’attività lavorativa di tre o quattro anni.

UNA PROPOSTA DA NON ACCETTARE*

La recente proposta della Presidente della Confindustria di lasciare per un anno nelle casse delle aziende il flusso del TFR versato alla Tesoreria dello Stato (si tratta del TFR accantonato per i lavoratori delle imprese con più di 50 addetti, per un ammontare per il 2009 pari a circa 4,2 mld di Euro), riporta l’attenzione sulle peculiari modalità con le quali in Italia si è inteso finanziare la previdenza complementare.
All’estero, generalmente, i contributi alla previdenza complementare sono a carico delle imprese datrici di lavoro in quanto i fondi pensione costituiscono uno dei principali strumenti di “fidelizzazione” della forza lavoro all’azienda; nel tempo, i piani pensionistici sono divenuti in tali esperienze una componente essenziale del reddito dei lavoratori nell’età anziana e perciò anche un elemento rilevante delle relazioni sindacali.
In Italia le dichiarazioni contenute in primis nei testi legislativi (v. art.1 lettera c) legge delega 243/2004 “ sostenere e favorire lo sviluppo della previdenza complementare…”e l’art. 1 del D.Lgs. 252/05 che assegna alla previdenza complementare il compito di “assicurare” ai lavoratori una copertura previdenziale integrativa), non sembra abbiano avuto adeguata eco nel contesto produttivo: le risorse messe a disposizione della previdenza complementare dal sistema delle aziende sono assai esigue (il contributo a carico dei datori di lavoro è mediamente poco superiore all’uno per cento del salario lordo).
Poi c’è il TFR che è uno dei pochi ammortizzatori sociali di cui dispone il Paese e che, soprattutto in momenti di crisi, rappresenta un elemento di parziale ristoro finanziario per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. Inoltre, il TFR è stato in questi anni la principale fonte contributiva che ha reso possibile l’adesione dei lavoratori dipendenti ai fondi pensione: senza l’apporto dei flussi di TFR l’accantonamento dei lavoratori a fini di previdenza complementare si ridurrebbe a ben poca cosa, considerando le scarse disponibilità di reddito e di risparmio e gli oneri imposti dalla contribuzione alla previdenza obbligatoria.
Nel 2007, si è inserito sulla scena un nuovo attore, lo Stato, che ha destinato a se stesso la quota di TFR dei lavoratori delle aziende sopra i 50 addetti non devoluta ai fondi pensione, e che si sta avvalendo di tali somme per finanziare iniziative variamente finalizzate.
Ma il TFR è da sempre anche una fonte di autofinanziamento per le imprese: queste infatti approfittando del contenuto livello di rendimento, che per legge devono riconoscere al TFR accantonato in azienda per i propri dipendenti, lo utilizzano per il conseguimento di obbiettivi produttivi. Appare comprensibile dunque che in un simile frangente di crisi le imprese possano proporre di fare appello a tale risorsa per fronteggiarne gli effetti.
La proposta di mantenere il TFR nelle aziende va nondimeno valutata anche da un altro punto di vista: qualora fosse accolta, questa avrebbe probabilmente una ricaduta sulle possibilità, già messe a dura prova dalla crisi in corso, di sviluppo della previdenza complementare nell’anno appena iniziato. Sappiamo che difficoltà di crescita delle adesioni alla previdenza complementare si sono avute maggiormente nel contesto delle piccole imprese, dove il TFR non destinato a previdenza complementare resta in azienda; ora un altro fronte di potenziale conflitto d’interessi in capo ai datori di lavoro sarebbe riaperto anche nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni nelle quali la previdenza complementare è cresciuta in questi anni di più e, ancora di più, dall’avvio della riforma.
Occorrerebbe, invece, trovare nuove e più proficue strade per conciliare gli interessi dei fondi pensione, delle imprese e dello Stato, ad esempio promuovendo iniziative comuni sul fronte dei finanziamenti di opere di pubblica utilità. Inutile sottolineare, peraltro, che si tratta di un tema che richiede seri e molteplici approfondimenti.

* L’autore è Commissario Covip

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Le risposte dei lettori riflettono tre atteggiamenti:

– una diffidenza nei confronti dei fondi pensione e una preferenza per il sistema pubblico;
– un diffuso timore per le conseguenze del metodo contribuivo, e un rimpianto per le garanzie pubbliche del passato;
– una (giusta) indignazione nei confronti del “colpo di mano” della Camera.

I lettori che condividono la proposta del Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, di lasciare il TFR nella disponibilità delle imprese esprimono tutti una netta preferenza per il TFR in quanto tale (ossia come liquidazione). Queste risposte rafforzano la mia tesi sul messaggio “negativo” della proposta (in sé comprensibile), la quale pur limitandosi a stabilire un confronto tra utilizzatori intermedi del TFR (imprese grandi piuttosto che Tesoro), stabilisce indirettamente una preminenza del TFR sui fondi pensione. Per quanto comprensibile, oggi, alla luce della crisi finanziaria, questo tipo di giudizio (che contrasta nettamente con il favore entusiastico con cui l’introduzione dei fondi pensione fu accolta nel nostro paese, quasi che fossero l’elemento taumaturgico per tutti i mali dell’economia italiana) è però pericoloso. In tema di risparmio di lungo termine non ci si può affidare alle emozioni del momento. E’ un atteggiamento che riflette la mancanza di una cultura del rischio nel nostro Paese: quando si guadagna tutto va bene; quando si perde ci si chiede “dov’era lo stato, che non ha fornito la necessaria protezione”.

Non sappiamo se questa crisi segnerà una svolta nel funzionamento dei mercati finanziari. Quel che sappiamo è che nel passato il rendimento dei mercati finanziari è stato, in media, nel lungo periodo, assai superiore al tasso di crescita dell’economia. Il problema non è rifuggire dai mercati finanziari; piuttosto, si devono trovare modalità trasparenti e poco costose per ridurne i rischi e magari fornire qualche garanzia (di cui, tra l’altro, il TFR gode). E nel frattempo educare gli individui al risparmio per l’età anziana, che è necessariamente un risparmio di lungo termine.
Anche la diffidenza nei confronti del metodo contributivo nasce dalla mancanza di consuetudine con il rischio, e dalla facilità con cui, nel passato, gli oneri delle garanzie offerte alle generazioni presenti sono state addossati alle generazioni giovani e future (con il debito pensionistico). Il metodo contributivo è severo, in media, se “severa” (dal punto di vista della crescita) è il sistema economico. In questo caso, mentre è compito dello stato fornire una tutela ai più deboli, non ha senso cercare di dare a tutti più di quanto non sia finanziariamente sostenibile. Senza contare l’iniquità distributiva del vecchio metodo retributivo. Anche qui: il contributivo si può migliorare, ma screditarlo prima che sia entrato in vigore è sbagliato.
Quanto al provvedimento da “casta” condivido, ovviamente, l’indignazione dei lettori e mi piacerebbe vedere qualche reazione politica. 

PS Quanto alla presunta confusione tra i due fondi presso l’INPS, non mi pare che ci sia. E’ proprio al fondo di tesoreria che gestisce il TFR che facevo riferimento, non al fondo pensione “residuale”.

OMBRE SULLA PREVIDENZA

Il presidente di Confindustria chiede al governo di lasciare il Tfr dei lavoratori presso le imprese, apparentemente una proposta ragionevole in tempi di stretta creditizia. Ancor più grave è la sospensione del metodo contributivo decisa per i dipendenti della Camera. Due fatti che lanciano un messaggio sbagliato, con il rischio di allontanare i lavoratori dai fondi pensione e, di conseguenza, da una decorosa integrazione alla pensione pubblica. Il pericolo è un ripudio del metodo contributivo, l’unico compatibile con la sostenibilità finanziaria del sistema.

LA SENTENZA EUROPEA E LA RIFORMA DELLE PENSIONI*

LA CONTROVERSIA COMUNITARIA

Con la sentenza del 13 novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee ha condannato la Repubblica italiana per la normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano uomini o donne. La procedura di infrazione non riguarda i dipendenti privati, perché il regime previdenziale amministrato dall’Inps è considerato un regime c.d. legale, di natura previdenziale in senso tecnico, conforme alla normativa comunitaria. Il regime gestito dall’Inpdap rientra invece, secondo la Commissione e la Corte di giustizia, tra i c.d. regimi professionali, ovvero quei regimi nei quali il trattamento pensionistico è pagato al lavoratore direttamente dal datore di lavoro. Ora, poiché l’art. 141 del Trattato Ce definisce come retribuzione “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore, in ragione dell’impiego di quest’ultimo”, il divieto di ogni discriminazione retributiva in base al sesso va applicato anche alle pensioni dei dipendenti pubblici. Dalla sentenza della Corte di Giustizia deriva dunque, per lo Stato italiano, l’obbligo di parificare l’età pensionabile dei pubblici dipendenti tra uomini e donne quanto alla pensione di vecchiaia.
Il 13 gennaio 2009 il Governo ha inviato una nota alla Commissione europea nella quale si assicura la volontà dell’Italia di adempiere alla sentenza, si rappresenta che le possibili soluzioni tecniche sono allo studio, che esse saranno applicate secondo criteri di gradualità e flessibilità e, infine, che maggiori ragguagli circa le soluzioni prescelte saranno forniti al più presto. In caso di mancato adeguamento, la Commissione aprirebbe formalmente la procedura con una lettera di messa in mora. Le sanzioni consistono in una somma forfetaria e in una penalità di mora. Per l’Italia è stata fissata una somma forfetaria minima di 9.920.000 euro, mentre la penalità di mora può oscillare tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione della seconda sentenza, a seconda della gravità dell’infrazione. Si tratta, come si vede, di somme molto ingenti.
L’urgenza di ottemperare alla sentenza deriva anche dal fatto che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria senza doverne attendere la previa rimozione da parte del legislatore. Oggi, infatti, un dipendente pubblico di sesso maschile potrebbe adire il giudice nazionale per ottenere la pensione di vecchiaia a 60 anni, invocando la norma che prevede tale facoltà per le donne.

IL SISTEMA PENSIONISTICO ITALIANO

I dati sulle prestazioni di vecchiaia delle lavoratici del settore pubblico (per le quali il pensionamento a 60 anni è una possibilità non vincolante, introdotta con la riforma del 1995) consentono di evidenziare la consistenza della scelta di proseguire l’attività lavorativa anche se si sono maturati i requisiti per la pensione. La figura 1, che presenta la piramide per età di pensionamento dei percettori di pensioni dirette (vecchiaia, anzianità e inabilità) erogate dall’Inpdap, mostra che nel 2007 l’età modale per le donne è di 57 anni, ovvero di un anno inferiore a quella degli uomini; ma è elevata anche la frequenza delle uscite dal lavoro ad età più avanzate. In particolare si registra un picco in corrispondenza dei 60 anni, quando si ha la facoltà di accedere alla pensione di vecchiaia. Per le donne il ritiro avviene prevalentemente in corrispondenza dei requisiti previsti per il pensionamento di anzianità e per quello di vecchiaia; per gli uomini, invece, si distribuisce su di un arco di età più ampio, dato che il vincolo per la vecchiaia è più stringente ma più probabile l’uscita per anzianità, grazie a carriere lavorative più continuative. Le donne che si pensionano a 65 anni o anche ad età superiori non sono comunque poche (circa il 23 per cento delle uscite dal lavoro per vecchiaia).

Figura 1. Pensioni Inpdap dirette sorte nel 2007 – Piramide per età

Fonte: Inpdap, Trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, anno 2007.

LA RISPOSTA ALLA SENTENZA DELL’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA

Al fine di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne nel pubblico impiego, le soluzioni astrattamente prospettabili, limitando il più possibile il perimetro dell’intervento normativo sono tre:

a)     Elevare, nel settore pubblico, l’età pensionabile delle lavoratrici parificandola a quella dei lavoratori, rendendo obbligatorio e non più facoltativo anche a loro l’accesso alla pensione di vecchiaia a 65 anni. Tale soluzione comporterebbe risparmi di spesa pensionistica. Senza effettuare un analogo intervento sul settore privato si aprirebbe, comunque, un problema di parità di trattamento nella normativa pensionistica riferita alle lavoratrici tra settore privato e pubblico impiego.
b)     Estendere nel settore pubblico anche agli uomini la facoltà di accesso alla pensione di vecchiaia all’età di 60 anni. Tale opzione sarebbe onerosa per la spesa pensionistica e, comunque, in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile. Anche in questo caso, poi, verrebbe a crearsi una notevole disparità tra i lavoratori del settore privato e di quello pubblico.
c)     Fissare per entrambi i sessi un requisito di età flessibile per l’accesso facoltativo alla pensione di vecchiaia nel settore pubblico, nell’arco di età tra 60 e 65 anni, con costi per l’erario da quantificarsi e comunque crescenti in relazione alla diminuzione dell’età minima stabilita, lasciando per tutti il limite legale a 65 anni. Si tratterebbe, in ogni caso, di una misura in contrasto con la tendenza generale all’aumento della vita media e dell’età pensionabile, e che aprirebbe un’asimmetria nella normativa pensionistica riferita ai dipendenti di sesso maschile tra il settore pubblico e quello privato.

A queste tre ipotesi più “conservatrici” se ne possono affiancare altre due più innovative:

d)     Estendere ai dipendenti pubblici il regime previdenziale dell’Inps, considerato dalla Corte di Giustizia di tipo c.d. legale. Tale soluzione consentirebbe di mantenere la differenza di età pensionabile tra uomini e donne ed escluderebbe la creazione di una disparità nell’ordinamento interno tra dipendenti pubblici e privati; ma comporterebbe una riforma di tutto il sistema previdenziale più radicale di quanto finora considerato, anche dai progetti del passato governo: l’Inpdap dovrebbe essere completamente assorbito da parte dell’Inps fino a scomparire, e così il sistema delle contribuzioni figurative, le peculiarità del trattamento di fine servizio (Tfs) e i regimi speciali, con costi ed effetti di difficile quantificazione.
e)     Fissare l’età della pensione di vecchiaia, uguale fra generi, a regime nella Pubblica Amministrazione nell’arco flessibile dei 62-67 anni.Questa soluzione farebbe tesoro del fatto che già ora, a legislazione vigente, dal 2013 in poi l’età minima di accesso alla pensione di anzianità diverrà di 62 anni per tutti i lavoratori dipendenti (63 per i lavoratori autonomi) e, inoltre, i dipendenti pubblici possono optare di rimanere in servizio fino a 67 anni. E permetterebbe sia di parificare l’età pensionabile tra uomini e donne, sia di elevarla gradualmente, e quindi di ottenere per il sistema pensionistico pubblico risparmi di spesa. La soluzione aprirebbe uno squilibrio rispetto al settore privato, ma proporrebbe anche un cammino di equiparazione delle opportunità e di prolungamento della vita attiva per tutti i lavoratori, dato che l’aumento a 62 anni nel 2013 del requisito di età per la pensione di anzianità si applica a tutti i dipendenti, e anche nel privato è possibile già ora rimanere al lavoro fino a 67 anni. La scelta di estendere il provvedimento anche al privato, infine, potrebbe comportare rilevanti risparmi all’intero sistema previdenziale italiano (pubblico e privato) e liberare così le risorse necessarie a compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere delle lavoratrici dipendenti.
La delineazione delle ipotesi di possibile azione deve, ovviamente, comprendere anche l’ideazione di un periodo transitorio di messa a regime delle norme, durante il quale i requisiti di età per il pensionamento di vecchiaia vengano elevati a gradini (ad esempio di un anno ogni due anni, o simili). Al fine di verificare gli effetti sulla spesa previdenziale e, più in generale, sulla finanza pubblica, delle ipotesi qui sintetizzate, il Ministro Brunetta ha avviato una Commissione di studio composta da Giuliano Cazzola, Fiorella Kostoris, Filippo Patroni Griffi, Germana Panzironi, Maria Cozzolino, Riccardo Rosetti e da me. Il 19 gennaio la Commissione ha prodotto un primo progress report dei lavori, che è stato pubblicato sul sito del Ministero per la pubblica amministrazione, a questo indirizzo.
Nelle prossime settimane la Commissione intende concludere il proprio impegno con la pubblicazione della relazione definitiva; ma sarà lieta di considerare con cura suggerimenti e proposte che possano provenire dagli amici della Voce.info.

* L’autore è Consigliere economico del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.

IL COMMENTO ALL’ARTICOLO DI BOERI E BRUGIAVINI*

La sentenza dell’Alta Corte di Giustizia della Ue ha contribuito a riaprire il dibattito sulle pensioni, sia pure con l’alibi che all’ordine del giorno sia posta soltanto l’età pensionabile di vecchiaia delle donne. Il Governo ha dichiarato di voler ottemperare alla sentenza, limitatamente al caso delle dipendenti delle pubbliche amministrazioni. E’ sempre più evidente, tuttavia, che il tema della previdenza non potrà essere a lungo sottratto – ne sono convinto – alla ricerca di risorse in cui è impegnato il Governo per fare fronte al finanziamento degli ammortizzatori sociali. E per fare cassa la strada maestra è quella di agire sull’età pensionabile (che è pur sempre il parametro fondamentale di ogni sistema pubblico a ripartizione). Molto utili ed interessanti sono, dunque, le simulazioni di Agar Brugiavini e Tito Boeri riguardanti alcune ipotesi di intervento sull’età di quiescenza, tra cui è ricordata anche una proposta contenuta in un progetto di legge (AC 1299) del quale sono primo firmatario.  Tra gli argomenti affrontati,  il progetto di legge (dove si fa ampio ricorso alle norme di delega) intende promuovere  un incremento graduale – fino a 62 anni – del limite anagrafico delle donne – nel sistema retributivo –  in vista del ripristino, a partire dal 2014 di un pensionamento flessibile e unificato, nel modello contributivo, in un range compreso tra 62 e 67 anni, correlato agli effetti di incentivo/disincentivo derivanti da appropriati coefficienti di trasformazione.  Si tratta, pertanto, di una soluzione modulare che non è sorda alle propensioni e alle esigenze delle persone, garantendo nel medesimo tempo un sostanziale innalzamento dell’età pensionabile. E’ questo il principale cambiamento che il progetto di legge introduce rispetto all’impostazione della legge n.243/2004, riconfermata anche dalla successiva legge n.247 del 2007, che, nel sistema contributivo, prevede percorsi d’uscita estremamente rigidi: a regime, infatti, anche nel sistema contributivo, i lavoratori potranno andare in pensione facendo valere i requisiti della vecchiaia (65/60 anni di età e cinque anni di contribuzione effettiva a condizione di percepire un trattamento pari ad 1,2 volte l’importo dell’assegno sociale), con 40 anni di versamenti a qualunque età oppure a 61/62 anni se dipendenti e a 62/63 anni se autonomi con 35 anni di anzianità. L’idea del mio progetto è solo la riproposizione aggiornata dell’impostazione di cui alla legge n. 335 del 1995, la quale prefigurava nel sistema contributivo una sola forma di pensionamento a partire da 57 anni per arrivare a 65 (in relazione con i coefficienti di trasformazione). I 57 anni non erano una congettura, ma il punto d’arrivo della riforma del trattamento d’anzianità nella fase di transizione; i 65 il limite massimo della vecchiaia. Immaginare, quindi, un segmento compreso tra 62 e 67 anni corrisponderebbe, alla luce delle normative nel frattempo intervenute, ai medesimi criteri adottati  nel 1995. Nel 2013, infatti, il requisito anagrafico per ottenere la pensione di anzianità sarà, nei fatti, pari a 62 anni. Per portare all’appuntamento, a regime, con questo nuovo limite minimo anche le regole del modello retributivo, rimarrebbe un solo <scalino> da salire: allineare gradualmente a 62 anni l’età di vecchiaia delle donne che andranno in quiescenza col calcolo retributivo. E’ importante, poi, chiarire un passaggio importante. Oggi sarebbe possibile ed equo intervenire sull’età di vecchiaia delle donne proprio perché si è data una sistemazione al problema dell’anzianità. Nel mondo del lavoro privato (subordinato ed autonomo) sono poche le lavoratrici (nel Fpld-Inps, ad esempio, appena il 17%) che riescono a maturare i necessari requisiti contributivi dei 35 anni. Soggetti deboli del mercato del lavoro, le donne “private” sono praticamente costrette ad attendere i 60 anni (quando bastano i 20 anni di versamenti previsti per la vecchiaia) per andare in quiescenza (ogni anno i due terzi delle nuove pensioni di vecchiaia sono erogate a donne). Diverso è il caso dei lavoratori. Le coorti dei pensionati del retributivo hanno una storia lavorativa che consente loro di maturare i canonici 35 anni  all’età anagrafica prevista; tanto che la pensione di anzianità è praticamente una prerogativa maschile. Così, quando si poteva andare in pensione di anzianità a 57/58 anni, sarebbe stato iniquo elevare il requisito anagrafico di vecchiaia delle lavoratrici, perché l’esito sarebbe stato quello di continuare a mandare, nei fatti, le donne in pensione ad un’età più elevata di quella degli uomini. Adesso le cose sono cambiate. Scalone o scalini, il requisito dell’anzianità arriverà a 62 anni nel 2013. Sarebbe, allora, non solo utile ma equo puntare alla soluzione del pensionamento flessibile tra 62 e 67 anni, che (tra le altre cose) consentirebbe risparmi di quasi un miliardo di euro l’anno, per un congruo arco di tempo. 

* Giuliano Cazzola è vice presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A GIULIANO CAZZOLA

Ringraziamo Giuliano Cazzola per i suoi commenti e per le spiegazioni circa i termini e le giustificazione della sua proposta, che abbiamo valutato assieme alle altre.  Trattandosi di proposta piuttosto complessa le avvertenze circa le nostre stime sono particolarmente importanti in questo caso. In ogni caso secondo le nostre simulazioni la proposta Cazzola (BBC) ha un profilo temporale simile a quello della proposta Boeri-Brugiavini con spostamente graduale delle età (BB2) e porta da qui al 2020 a risparmi leggermente inferiori (per circa 500 milioni) a quest’ultima.

 

Risparmi cumulati, anno 2020
   
Riforma Risparmio cumulato
(milioni di euro)
BB1 10.274
BB2 11.731
D 1.467
Q 8.979
BBC 11.150

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