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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 62 di 71

Senza valutazione non c’è accademia

Intervista a Walter Tocci, deputato dell’Unione e membro della commissione Cultura della Camera, per tracciare un bilancio dell’attività del primo anno di governo Prodi in materia di università e ricerca. Si discute di Anvur e Civr, di finanziamenti e di incentivi alla produzione scientifica, di concorsi e delle troppe norme che regolano l’attività degli atenei. Ma l’appuntamento cruciale è la prossima Finanziaria. Se non ci sarà un congruo aumento di fondi per la ricerca e l’università legato alla valutazione, allora il guasto diventerà irrimediabile.

Privatizzazione, la parola magica

Privatizzazione completa e totale di tutte le strutture di ricerca e di istruzione terziaria: la soluzione ai mali estremi dell’università italiana. Alcuni atenei potrebbero essere ceduti a istituzioni straniere, altri chiusi o trasformati in spa e poi venduti in Borsa, regalati alla popolazione oppure organizzati in cooperative. Con i fondi risparmiati si potrebbero finanziare borse di studio, ricerca di base e progetti specifici. E nel lungo termine ne deriverebbe una valorizzazione del patrimonio e della tradizione culturale italiana.

Carnegie italiana cercasi

Sono due i punti di forza del sistema americano di finanziamento alla ricerca: la molteplicità delle fonti che erogano le risorse e l’autonomia garantita alle università dall’assenza di un controllo centrale. Anche in Italia esistono vari enti finanziatori e ricercatori in concorrenza per ottenere i fondi. Il problema principale è che sappiamo molto poco dei meccanismi economici e organizzativi che guidano le strategie degli uni e degli altri. Come gli americani nel 1967, dovremmo avviare uno studio indipendente, rigoroso e completo del nostro sistema accademico.

I fondi pubblici per l’università

Sul principio che sia opportuno finanziare l’università con risorse pubbliche non sembrano esserci dubbi. Ma due ragioni rendono preferibile anche una fornitura pubblica del servizio: l’intervento pubblico dovrebbe comunque sussidiare la ricerca di base, e l’informazione sulla qualità dell’istruzione è molto difficile da misurare e percepire, specialmente durante una transizione a un nuovo regime. Incentivi, concorrenza e liberalizzazioni delle carriere del personale possono essere introdotti utilizzando i molti strumenti di cui già si dispone.

Uguali perché mobili

L’istruzione media degli italiani è significativamente cresciuta, in particolare dopo la riforma della scuola dell’obbligo nel 1962. Nel conseguimento della laurea permane però un differenziale di probabilità legato al diverso background familiare. Per le differenze di reddito e perché per i figli di non laureati l’università è un investimento più rischioso ed è maggiore il costo opportunità. Ma anche per effetto dei modelli di ruolo. Frequentare un ateneo lontano dalla città di residenza della famiglia potrebbe attenuarne l’impatto.

La buona ricerca merita un premio

La riduzione degli aumenti salariali automatici dei docenti universitari è inefficace perché mina la credibilità della politica salariale del datore di lavoro nei confronti dei potenziali aspiranti professori. Meglio mantenere un profilo intertemporale della retribuzione, con la possibilità di concedere uno scatto doppio a chi è particolarmente produttivo sul piano scientifico. Aumenterebbe così la concorrenza tra atenei per attrarre i ricercatori migliori. Mentre sarebbero sanzionati quelli in cui le carriere sono clientelari.

La mobilità sociale resta al palo

I dati mostrano che la cosiddetta riforma del “3+2” ha avuto un effetto di “democratizzazione” dell’entrata all’università, ma non dell’uscita. Nelle facoltà sono aumentati del 9 per cento gli iscritti i cui genitori non hanno una laurea, tuttavia non è cresciuto il numero di laureati che proviene da tali famiglie. Sale infatti il tasso di abbandono. Passato per gli studenti con padre e madre meno istruiti dal 10,5 del 1998 al 12,3 del 2001. E se non si riduce il differenziale nei tassi di abbandono, non può esserci crescita della mobilità sociale.

Un piano straordinario. Ma non risolutivo

Non è il precariato il problema dell’università. In molti paesi la carriera accademica inizia dai contratti a termine. Le anomalie italiane sono retribuzioni dei contrattisti troppo basse e nessuna certezza per i meritevoli di raggiungere una posizione di ruolo in tempi brevi. Il “piano straordinario di assunzioni di ricercatori” previsto dalla Finanziaria non è una soluzione. Invece si dovrebbe riconoscere la massima autonomia e libertà d’iniziativa degli atenei. Compreso l’aumento sostanzioso degli assegni di ricerca se serve per assicurarsi i migliori.

Un test per il preside

L’unico modo per difendere l’istruzione pubblica è migliorarne la qualità. Ma anche nella scuola è l’organizzazione del lavoro che va modificata perché non dà ai dirigenti scolastici gli incentivi e gli strumenti necessari affinché possano migliorare i risultati didattici. Per questo va difeso il principio di un esercizio di valutazione per ogni scuola. Utilizzando i punteggi ottenuti dai singoli istituti per valutare l’operato dei presidi. Con l’obiettivo di migliorare rispetto a sé stessi, non genericamente rispetto al sistema scolastico nazionale.

Ambiguità e vecchi modelli

La nuova direttiva Invalsi non chiarisce la funzione di una rilevazione degli apprendimenti senza standard di riferimento definiti, realizzata all’inizio dell’anno scolastico e attraverso la sola somministrazione di prove cognitive. Perché poi affidarla a rilevatori esterni, quando il problema è superare la diffidenza degli insegnanti verso gli obiettivi delle rilevazioni e l’uso dei loro risultati? Accettabile che sulla legge 53 si proceda con gradualità. Ma non per questo si devono dimenticare le prospettive di medio e lungo periodo.

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