Il “decreto competitività” prevede per le piccole imprese quotate una soglia modulabile per l’obbligo di Opa. Ma la riforma dà a Consob una discrezionalità non voluta. Ed è un nuovo freno all’ingresso di investitori istituzionali nelle Pmi quotate. Il vero problema è la dimensione delle aziende.
LE SOGLIE MODIFICATE PER L’OBBLIGO DI OPA
Il “decreto competitività” agostano è intervenuto su due aspetti del diritto societario. Se prima vigeva il principio “un’azione, un voto”, ora arriva il voto multiplo, che premia chi detiene le azioni per oltre due anni; i gruppi di controllo ringraziano per il regalo, che permette loro di continuare a sifonare soldi dalle società, nonostante un limitato impegno finanziario. Tralasciamo però il tema, pur rilevante, per concentrarci sulle modifiche del decreto all’obbligo di offerta pubblica di acquisto (Opa), che Renzo Costi e Francesco Vella hanno giudicato positivamente su lavoce.info. Incurante del pericolo, da sutor mi avventuro ultra crepidas, in un campo non mio (ma nel quale ho vangato per tanti anni). Fino ad ora, chi superava il 30 per cento dei diritti di voto in una società quotata doveva offrire a tutti gli azionisti di acquistare le loro azioni al prezzo massimo pagato per ottenere il controllo; semplice ed efficace, questo regime non generava incertezze. Il difetto di tale rigidità era quello di tutte le soglie: basta collocarsi un’azione al di sotto, per sfuggire all’obbligo. Il tema fu scottante l’anno scorso quando la spagnola Telefònica parve sul punto di ottenere il controllo di Telecom Italia (TI) rilevando la maggioranza dei diritti di voto della “scatola” Telco, che di TI deteneva il 22 per cento circa. A molti ciò parve troppo, visto che già Pirelli e poi appunto Telco avevano preso il controllo di TI senza dover lanciare l’Opa. Di qui era venuta in un primo tempo l’idea di dare a Consob discrezionalità, per imporre l’Opa quando il passaggio di controllo si desuma da indicatori oggettivi, come la nomina della maggioranza degli amministratori. Svanito il rischio Telefònica, il decreto ha invece introdotto due principali modifiche all’obbligo di Opa. Per le imprese maggiori, l’obbligo scatta al superamento del 25 per cento (a meno che altri azionisti detengano più del 30 per cento); le quotate di minori dimensioni, che cioè fatturino meno di 300 milioni e capitalizzino meno di 500 milioni, potranno invece fissare nello statuto la percentuale di possesso – variabile fra il 25 e il 40 per cento – oltre la quale scatta l’obbligo di Opa. La questione della soglia Opa fu ampiamente dibattuto nel 1997, quando una commissione ministeriale presieduta da Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, scrisse la bozza del testo unico della finanza (Tuf). La commissione optò per la soglia fissa del 30 per cento, ben conscia delle sue conseguenze: ritenemmo allora tutti, c’era anche Renzo Costi, che gli inconvenienti della soglia fissa facessero meno danni dell’incertezza, nella quale la Consob avrebbe dovuto amministrare discrezionalmente l’obbligo di Opa. Non a caso la direttiva della UE sull’Opa, pur nella risibile scelta di un’Opa à la carte (troppi opt out consentono agli Stati di derogare al regime generale), richiede una soglia fissa per l’obbligo. Il “decreto competitività” prevede sì una soglia fissa, però modulabile: ogni società, sotto date dimensioni, stabilirà la propria soglia Opa. Proprio la modularità piace a Costi e Vella, in quanto dà alle società la scelta della percentuale oltre la quale scatta la soglia: la ritengono amica del mercato. Mi permetto di dissentire. Il nuovo regime dà a Consob discrezionalità (e grane) probabilmente non volute, con il contorno di sicuri ricorsi al Tar, e costringe gli investitori a setacciare uno per uno gli statuti delle Pmi quotate; se questo è il pane quotidiano dei giuristi, è però indigesto agli analisti, amici di situazioni chiare. Avranno pure torto, ma decidono loro dove investire. C’è poi da chiedersi cosa avverrà quando una Pmi quotata supererà le dimensioni prefissate: dovrà cambiare lo statuto? Forse non a caso gli autori suggeriscono che l’innovazione sia estesa anche alle grandi imprese.
LE COLONNE D’ERCOLE DELLE PMI
La complicata modularità delle soglie Opa è un nuovo freno all’ingresso di investitori istituzionali nelle Pmi quotate. Già soffrono perché le case d’investimento non vogliono “coprire” i loro titoli con la ricerca, necessaria invece agli analisti per decidere dove investire. Studiare una Pmi costa quasi quanto studiare una grande impresa, ma rende molto meno, perché molto minore sarà l’investimento. Di questo ulteriore ostacolo proprio non si sentiva l’esigenza. Gli autori non amano “incertezze analoghe a quelle che si incontrano adottando il criterio dell’accertamento in concreto del cambio del controllo”, ma per questo la soglia fissa è il massimo. Il voto plurimo vuol convincere a quotarsi le società che ne sono dissuase dal timore della diluizione legata all’arrivo di nuovi azionisti; anche la soglia modulabile è pensata per favorire le Pmi quotande. È questo fine a essere scentrato perché, e veniamo al cuore del problema, quel che manca non sono tanto le società che vogliono quotarsi, quanto i denari desiderosi di comprarne le azioni. Il problema non è e non sarà l’offerta di titoli, ma la domanda: si veda l’andamento recente delle Ipo, fatte o tentate. Non ci sono solo le nostre imprese: il mondo è grande e non finisce a Chiasso. Ci penserà la stretta creditizia a convincere i dubbiosi a ricorrere al mercato dei capitali: solo aumentando i mezzi propri molte Pmi troveranno nuovo credito, quando la domanda ripartirà, e ne avran bisogno. Un recente studio comparato di Nomisma sulle imprese italiane e tedesche conferma che non è la specializzazione settoriale delle nostre imprese a frenare sviluppo e innovazione nel paese, bensì la loro dimensione, troppo piccola: le esigenze della famiglia prevalgono su quelle dell’impresa. Se avviene anche a Luxottica, figuriamoci altrove. Ecco la frontiera che dobbiamo varcare, le colonne d’Ercole che le nostre Pmi non osano affrontare. È ora di capire che questa è ormai la nostra priorità. Smettiamo allora di vezzeggiare le Pmi in tanti modi, ad esempio non utilizzando tutti gli strumenti antievasione disponibili, perché metterebbero in ginocchio imprese marginali. Per sopravvivere, si fondano con i concorrenti, e se la famiglia perderà il controllo spesso sarà meglio, anche per lei.

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