Per non deprimere ulteriormente i consumi sarebbe giusto evitare l’aumento dell’Iva. Ma non a tutti i costi, suggerisce un’analisi dei dati Istat. Se invece di ridurre la spesa pubblica, si aumentassero ancora le accise, la cancellazione dell’aumento Iva avrebbe indesiderabili effetti regressivi.
Le previsioni del governo sul deficit 2013 incorporano tra le entrate dello Stato due miliardi attesi dall’aumento di un punto dell’Iva dal 21 al 22 per cento a partire dal primo luglio 2013. Non c’è dubbio che ci sarebbe la necessità di scongiurare questo ennesimo colpo ai consumi, magari senza pregiudicare gli obiettivi di deficit, sostituendo l’aumento dell’Iva con tagli di spesa corrispondenti. Tutto ciò nella speranza che le riduzioni di spesa non deprimano a loro volta i consumi e che nello stesso tempo si crei spazio per le riduzioni di imposta di cui si parla (Imu sulla prima casa) o meglio ancora quelle di cui si dovrebbe parlare (Irap sul costo del lavoro).
L’IVA AL 21 LA PAGANO SOPRATTUTTO I RICCHI
Parlando di Iva, tuttavia, il rapporto dell’Istat sulla situazione del paese 2013 contiene un’utile tabella che fa riflettere sugli effetti di equità del possibile aumento dell’Iva.
Fonte: Istat, Rapporto annuale sulla situazione economica del paese, maggio 2013
Siamo abituati a pensare che le imposte sul consumo come l’Iva, oltre a deprimere i consumi, siano anche regressive. Un’imposta la cui aliquota è la stessa indipendentemente dal reddito della persona è regressiva perché pesa di più sui meno abbienti. La tabella Istat indica invece che l’aumento dell’Iva di cui si discute potrebbe essere meno regressivo in termini di equità di quanto si pensi. La tabella mostra infatti che le famiglie meno abbienti – il primo quinto nella tabella Istat – destinano la maggior parte della loro spesa (circa il 38 per cento) alle categorie di beni e servizi colpite dall’Iva al 4 o all’10 per cento (la cui aliquota rimarrebbe ferma), mentre i beni “ivati” al 21 per cento rappresentano solo poco più di un quarto del loro paniere di spesa. Vuol dire che, dall’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento, una famiglia che spende – diciamo – 20 mila euro l’anno subirebbe un aggravio di tassazione pari a 52 euro. Ad essere più colpiti dall’aumento dell’Iva, sarebbero invece le famiglie più ricche che – dice la tabella – spendono quasi il 40 per cento del loro paniere in beni e servizi con Iva al 21 per cento. Per una famiglia con una spesa di 40 mila euro l’anno (dunque doppia rispetto alla famiglia meno abbiente), l’aggravio di tassazione sarebbe di 156 euro, dunque di tre volte maggiore rispetto a quello della famiglia meno abbiente.
EVITARE L’AUMENTO DELL’IVA MA NON A TUTTI I COSTI
Riassumendo, con i consumi al palo da troppo tempo, è giusto anzi giustissimo cercare di non aumentare ancora l’aliquota dell’Iva. Ma va bene farlo solo se in parallelo si riduce la spesa pubblica. Se invece, per evitare l’aumento dell’Iva, si arrivasse a ritoccare ancora le accise sui carburanti o la tassazione sugli affitti, allora sarebbe opportuno tenere a mente un altro dato sempre ricavabile dalla stessa tabella dell’Istat: affitti e spese per il carburante valgono un quarto del paniere per le famiglie che appartengono al quinto più povero e solo un quinto per le famiglie più ricche. In un momento di crisi di tutto si sente il bisogno tranne che di operazioni Robin Hood al contrario che tolgono ai poveri per dare ai ricchi.
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Ermione D'Annunzio
Insomma l’aumento dell ‘Iva inciderebbe su una parte dei consumi per un target di popolazione,e su altre spese per un altro target. Dati i costi esorbitanti degli affitti sul mercato sia con intermediari che privato e privo di intermediazioni: in alcune città le famiglie realmente hanno contratti d’affitto dichiarati sui quali inciderebbe l’Iva? E nelle città (o nei piccoli centri abitati dove gli inquilini sono solo famiglie perché è praticamente vietato vivere da single o in gruppi non familiari) dove i contratti non si dichiarano per consuetudine, incide l’Iva?
Guest
negli affitti l’iva è esente…
Simone Griguol
ma sulla propensione marginale al consumo in che modo incideberre l’iva? alla fine ok, penso che sia anche ovvio che chi guadagna 100.000 € o più all’anno, spenda di più per beni nel campo dell’iva al 21%… alla fine se uno guadagna 800€ al mese,spende una buona parte per comprarsi da mangiare e da bere in primis (quindi direi iva al 4% e al 10%…) (e magari anche l’affitto di una casa -> esente)… e con quello che rimane (se rimane) si compra anche gli abiti e poco più… non voglio dire che sia una ricerca inutile, però è un pò all’ “acqua di rose” questo studio… pur senza criticare il Dott. Francesco Daveri, sicuramente un ottimo studioso
Federico B
Editoriale pro-vocatorio. Mi è molto piaciuto. Ed intanto it’s raning yen, alleluia…la guerra delle valute è iniziata……come abbattere il debito con altro debito, del resto (andarlo a chiedere al governo barzel-Letta di Imu-nità…)
Libero pensiero
Fuor di polemica, JKGalbraith diceva che ci sono pochi i campi dell’attività umana in cui la storia conta così poco come nel mondo della finanza. Mi pare che anche a Roma dovrebbero essere in grado (forse) di realizzare che è ora (20 anni fa sarebbe stata ora) di tagliare le inefficienze. La stessa esperienza Giapponese (abenomics) mi pare metta in evidenza la difficoltà di recupero ingegnerizzato dagli effetti di un grande deleveraging post scoppio di asset bubbles a debito, unitamente ai vincoli di tradizionali opzioni politiche quali stimolo fiscale -in EU precluso, o limitato…-, tassi di interesse bassi, monetizzazione del debito. La vera lezione dell’esperienza giapponese, mi pare, è che la sola alternativa a un prolungato periodo di stagnazione è quello di evitare ennesime bolle alimentate a debito, ed ulteriori accumuli di debito pubblico inefficiente. Speriamo che anche il governo di IMU-nità se ne avveda. Saluti
giulioPolemico
Mi sembra un buon articolo, anche se non dobbiamo trarre l’errata conclusione che alla fine l’aumento dell’IVA risparmia i “poveri” e colpisce quasi solo i “ricchi”, perché comunque anche i “poveri” acqusitano beni con aliquota interessata dall’aumento (visto che i beni con aliquota non al 21% sono ben pochi). Tuttavia le distinzioni dell’articolo mi sembrano valide.
Rimane però parte della recessività dovuta a tale aumento, perché se è vero che i “poveri”, rispetto ai “ricchi” proporzionalmente comprano meno beni ad aliquota ordinaria, e quindi sono proporzionalmente meno interessati dal suo aumento, è anche vero che il negozio che guadagna meno a causa della riduzione dei consumi, licenzia comunque la commessa, indipendentemente dal fatto che siano stati soprattutto i “ricchi” a diminuire gli acquisti a causa dell’aumento dell’aliquota.
enzo
personalmente sarei favorevole a una riduzione delle accise compensate da tagli alla spesa. ma questo è un altro discorso . nell’esempio portato è vero quanto detto in termini percentuali. ma quanto incidono 52 euro nella prima classe e 156 nell’ultima? probabilmente i 52 e disincentiverebbero i consumi più dei 156. un’altra cosa : in questa fase è possibile che tranne i venditori forti che scaricheranno tutta l iva sui consumatori , molti venditori saranno costretti a ridurre i margini per compensare almeno in parte quest’aumento.
Angelico Iadanza
Sarebbe interessante vedere la dinamica del paniere di beni acquistati dal 1° quinto negli ultimi anni. Ho la sensazione che si saranno pure i meno colpiti dall’aumento IVA, ma perché tra crollo dei redditi e cambio dei consumi a seguito dei precedenti aumenti il 1° quinto quei beni li ha abbandonati per cause di forza maggiore più che per libera iniziativa
Francesco
N.B. Da una diversa lettura della tabella ISTAT sopra riportata si evince che la quota di spesa delle famiglie meno abbienti (1° quinto), per i prodotti a cui viene applicata un’aliquota IVA del 21%, è superiore, in termini relativi, a quella per i beni a cui si applica l’IVA del 4 e del 10 percento (26% contro 12,3 e 25,9)
Potremmo quindi guardarla anche da altri punti di vista. E’ “scontato” che le fasce più agiate destinino una quota più rilevante del loro reddito per l’acquisto di beni e servizi “di non stretta necessità”, la cui aliquota IVA è pari al 21%, non avendo essi problemi di sussistenza. Ma basta questo per poter affermare che un aumento della terza aliquota IVA graverebbe più sui ricchi che sui poveri? Secondo me no. Si sta sottovalutando che essa si applichi indistintamente dal reddito che si percepisce.
E’ quindi chiaro che un ulteriore aumento della terza aliquota IVA sarebbe finanziato più dai ricchi che dai poveri. Ma di certo graverebbe più su quest’ultima fascia, che peraltro come noto è quella che destina maggior parte del proprio reddito al consumo.
Piero
Sono d’accordo con l’impostazione dell’articolo, aggiungo che l’aumento dell’Iva oggi e necessario per una politica di svalutazione fiscale, in ogni caso le classi deboli vanno tutelate, e la valutazione fiscale va accompagnata anche da una politica ne risolva il problema creditizio delle imprese, non ha senso aumentare i consumi esteri se le imprese chiudono, oggi la Confindustria ha dichiarato che al nord la situazione sta precipitando e Letta afferma stiamo facendo tutto quello che è possibile, questa non è una bella dichiarazione.
PP_TM
Come spunto a fare scelte ponderate è apprezzabile. Ma il ragionamento ha un buco sull’assunzione che i beni al 21% siano tutti “voluttuari”. Ciò è falso. Vestirsi non vuol dire solo andare da prada, sono anche beni di prima necessità. E questa spesa è anelastica. L’impoverimento che porterebbe un aumento dell’iva sarebbe molto grave. Anche per le fasce alte.
francesco farci
Non è vero che un aumento delle accise aumenterebbe proporzionalmente il prezzo di vendita delle benzine mentre un aumento dell’Iva causerebbe un aumento dei prezzi al consumo superiore (vista la speculazione dei commercianti e la difficoltà di aumentare precisamente dell’1% tutti i prezzi, che quindi aumenterebbero più che proporzionalmente). E se questo è vero non possiamo quindi dedurre che l’aumento dell’Iva potrebbe deprimere i consumi (in particolare dei più poveri) più di quanto un aumento delle accise farebbe sull’acquisto di benzina?
Margareth Thatcher
Nello studio l’impatto è misurato su quintili di spesa e non di reddito.
Se consideriamo che i più abbienti risparmiano una quota parte del loro reddito molto più elevata dei poveri (che possono avere anche risparmio negativo) e si valuta correttamente la progressività come incidenza rispetto al reddito il risultato si ribalta. Per ogni euro guadagnato, i più poveri pagano più Iva dei ricchi. Ci sono diversi studi in merito, anche per il caso italiano.
Non è quindi una sorpresa il risultato del rapporto Istat, si tratta di un errata lettura di un evidenza parziale.
jorge
Se in alternativa all’IVA si aumentassero le accise per esempio sui carburanti la decisione avrebbe effetti regressivi, pur se non si considera che l’IVA è una imposta molto più evasa delle accise. Tuttavia se invece delle accise si aumentasse la tassazione sugli affitti percepiti ben difficilmente l’effetto sarebbe regressivo: i proprietari di immobili locati si collocano certamente nelle fasce più elevate di reddito.
Massimiliano
Calcoli fatti basandosi sull’assunto che una famiglia con il reddito di 40mila euro è ricca. Assunto sostanzialmente falso. Se infatti si rifanno i calcoli per una famiglia con reddito di 80mila euro il risultato è che, essendo nella stessa fascia abbiamo un raddoppio del costo. Con la differenza che una famiglia con 40mila euro è sostanzialmente ai limiti, quella da 80 comincia ad essere benestante.
Il problema è che l’analisi ISTAT fa riferimento ad una organizzazione della popolazione sbagliata.
Gradirei vedere le stesse tabelle ordinate in base alla ricchezza, invece del reddito. O in base al numero di immobili posseduti. Scopriremmo, così, (a mio modesto parere) che le differenze sono molt pi accentuate tra le vare fasce e scalano in modo più corretto.
Andrea Meroni
Il senso dell’articolo è dunque: è peggio aumentare l’IVA che le accise sui carburanti (e affitti) per deprimere ulteriormente (ma meno) i consumi e impoverire ulteriormente (ma meno) la classe medio-bassa e ridurre ulteriormente (ma meno) la domanda interna. Per come la vedo io entrambe le opzioni sono pessime, che i beni di non prima necessità cominci a tagliarseli lo stato invece che farli pagare di più a noi!
Andrea Meroni
Se pensiamo di fermare il declino dibattendo su quale ulteriore tassa farà meno male alla classe medio-bassa e frenerà meno i consumi significa che siamo fritti
Alfredo
Fermo restando che le imposte indirette (come l’Iva) sono inique, perchè pesano di più sui meno abbienti, come sosteneva Alessandro Galante Garrone già nel 1969 (ma è poi vero/giusto che questi possono/devono fare a meno di acquistare beni o servizi con iva al 21 o 22 che sia?), in ogni caso chi ne farà le spese saranno i soliti noti: chi evade l’iva e le altre imposte, e dichiara meno di 20mila euro l’anno (e sono tanti!), continuerà a non pagare, mentre i lavoratori dipendenti (quelli che ancora il lavoro lo hanno!) e i pensionati continueranno a pagare anche per loro! Non solo, ma se si riduce il potere d’acquisto diminuirà la domanda di beni/servizi ivati al 21 o 22%, e chi produce detti beni/servizi cesserà l’attività e altri lavoratori diverranno disoccupati. La vedo molto grigia.
ValentinoFancello
La chiusa dell’articolo è certamente corretta. Ma per vedere quanto realmente pesi un imposta non basta la percentuale sul consumo totale ma occorre vedere la percentuale sul reddito totale, parte del quale viene tesaurizzata in percentuale sempre maggiore al crescere del reddito. Vista in questo modo il risultato dovrebbe tornare ad essere quello più ovvio: l’ iva pesa di più sui ceti meno abbienti perchè sono quelli che spendono una percentuale maggiore del proprio reddito.
Giuseppe
L’aveva detto l’ex ministro Grilli, con grande disapprovazione della Camusso. Se, almeno in tempo di crisi, si mettesse da parte la demagogia e si prendesse qualche libro in mano….
Sarastro
Stai semplicemente affermando che un incremento dell’IVA ha un impatto progressivo ma non abbastanza. Non c’è alcun bisogno di ricorrere alla classificazione tra “ricchi” e “non ricchi”.