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PALLA AVANTI ED EMIGRARE

Sempre più spesso i talenti dello sport si spostano da un paese all’altro. Ma anche la circolazione dei campioni richiede misure di policy per garantire equità nella globalizzazione. La segmentazione del mercato del lavoro che accompagna le migrazioni dei calciatori rischia di aumentare il divario tra squadre e di indebolire l’equilibrio competitivo dei campionati. L’Uefa pensa di imporre un limite ai giocatori stranieri. Ma sarebbe più efficace obbligare i club delle maggiori leghe europee a riversare parte dei diritti televisivi alle squadre che hanno formato i campioni.

Che la circolazione internazionale sia un meccanismo per accrescere la quantità di talento disponibile in un paese, è ben noto. Se un tempo si parlava di manodopera, adesso è invece più opportuno parlare di circolazione di cervelli. Il problema è che spesso il brain gain per qualche paese si trasforma in un brain drain per altri. Come mostrato graficamente, più povero un paese, maggiore la percentuale della sua popolazione con un titolo universitario che emigra.

Le sorprese del rugby

Non sono però solo le mani e i cervelli a emigrare, sempre più lo fanno anche i piedi talentuosi. La coppa di mondo di rugby che si sta disputando in Francia e Galles offre interessanti spunti. Rispetto all’edizione precedente, la squadra che ha fatto registrare maggiori progressi è indubbiamente l’Argentina, che per la prima volta si è classificata per la semifinale (tanto da convincere la federazione argentina di calcio a modificare l’orario del derby River-Boca che avrebbe coinciso con la partita dei Pumas contro la Scozia). Nel 1987, nella prima edizione, la nazionale sudamericana schierava unicamente giocatori tesserati in club argentini: realizzò 49 punti, ne subì 88 e battè soltanto l’Italia. Sempre in formazione autoctona, risultati simili nel 1991 e nel 1995 (anzi, in Sud Africa l’Italia riuscì a vincere 31-25), mentre nel 1999, con sei "stranieri" i Pumas si classificarono per la prima volta per il secondo turno, perdendo con onore nei quarti con la Francia che sarebbe poi stata sfortunata finalista con l’Australia.
Quest’anno, a giocare in Argentina sono solo quattro Pumas. Gli altri sono tesserati in Inghilterra, Francia, Irlanda e Italia. Del resto gioca a Padova anche la terza linea Sisa Koyamaibole delle Fiji, l’altra squadra che ha creato la sorpresa quest’anno e che allinea ventuno "stranieri". Confermando uno dei risultati standard della letteratura sulle migrazioni "che i flussi di emigrati di una data nazionalità tendono a crescere verso le destinazioni in cui c’è già una comunità di connazionali" troviamo tra i Pumas anche due fratelli (Ignacio e Juan Fernández Lobbe) dello stesso club inglese, il prestigioso Sale che a fine coppa accoglierà anche l’allenatore Marcelo Loffreda.

Un calcio globalizzato

Se nel rugby la globalizzazione è relativamente nuova e ancora limitata "tra le otto migliori squadre ce ne sono tre che non allineano migranti (Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa), una con un migrante (Inghilterra) e una con tre (Francia)" nel calcio la circolazione internazionale sembra crescere a velocità esponenziale. I migliori calciatori del pianeta intero si concentrano nei club di cinque leghe europee: Inghilterra, Italia, Spagna, Germania, Francia. Le squadre di questi paesi riuniscono giocatori di 91 nazionalità e tutti i continenti sono rappresentati. Quasi la metà dei calciatori stranieri provengono da paesi extraeuropei, con Brasile e Argentina a fare la parte del leone. (1)
In Inghilterra, laddove i club con budget ben superiori ai 100 milioni di euro annui sono mediamente i più ricchi, il tasso di stranieri è del 55,4 per cento. (2) La percentuale sale al 68,6 per cento a livello dei cinque club meglio classificati della scorsa stagione: Manchester United, Chelsea, Liverpool, Arsenal, Tottenham. Nelle cinque migliori leghe europee, nella stagione 2006-2007 la correlazione tra la percentuale di stranieri nella rosa dei club e il piazzamento a fine campionato è positiva e significativa (r²=0,16).
Se i club più ricchi possono permettersi d’ingaggiare i migliori rinforzi disponibili a livello globale, le squadre che dispongono di mezzi inferiori sono costrette a reclutare nel loro paese o a fare un investimento di natura più speculativa su giovani talenti stranieri (meno cari) provenienti da paesi in cui il potere economico del calcio, ma non solo, è debole. La percentuale dei giocatori africani tra gli stranieri nei 25 migliori club europei, per esempio, è minore (11,8 per cento) che nei 25 club più deboli (19,2 per cento). La carta in basso mostra in maniera eloquente che nella stagione 2002-2003 la percentuale di giocatori africani tra gli stranieri era più elevata in numerosi paesi dell’Europa dell’Est che in Italia, Spagna, Germania o Inghilterra.

Insomma, la circolazione del talento può produrre effetti win-win: il caso dei Pumas suggerisce che avere giocatori all’estero rafforza la squadra nazionale, e una semplice analisi statistica mostra che schierare buoni giocatori stranieri aiuta a vincere. Ovviamente, ciò non significa che l’autarchia nello sport sia necessariamente deleteria – in fondo, se è vero che l’esodo di calciatori rinforza le nazionali, l’Italia è comunque campione del mondo – ma sembra confortare l’argomento che il mercato sa trovare il suo equilibro. Tutto bene allora? Solo in parte, perché la circolazione dei calciatori richiede anch’essa misure di policy per garantire equità nella globalizzazione. La segmentazione del mercato del lavoro che accompagna le migrazioni internazionali dei giocatori rischia di aumentare il divario tra le squadre forti e quelle deboli e pertanto di indebolire il competitive balance dei campionati. Sulla base di un nuovo indice di misurazione dell’equilibrio competitivo, Loek Groot dell’università di Ultrecht ha mostrato come nelle ultime stagioni l’indice sorpresa sia diminuito in molti campionati europei. Da ciò la proposta di "decommercializzare" il calcio e consentire la trasmissione delle partite in chiaro. (3)

Come ridurre le ineguaglianze

Anch’esse "teledipendenti", Fifa e Uefa propongono dal canto loro d’imporre ai club di schierare un numero minimo di giocatori con il passaporto del paese in cui giocano o, rispettivamente, di calciatori formati localmente (trascorrere nel paese del proprio club almeno tre stagioni tra i 15 e i 21 anni). Queste misure si scontrano però con il principio della libera circolazione dei lavoratori e con la logica economica del calcio come industria dello spettacolo. Piuttosto che limitare il numero degli stranieri, sarebbe forse più efficace obbligare i club delle migliori leghe europee a riversare parte dei diritti televisivi alle squadre che hanno formato coloro che, lo spettacolo, lo producono, da Kakà a Ronaldinho, passando per Eto’o e Adebayor. Solo così la circolazione internazionale dei calciatori, invece di beneficiare le squadre più ricche, permetterebbe di ridurre le ineguaglianze economiche tra i club su scala nazionale e internazionale e renderebbe le competizioni più equilibrate. C’è anche da scommettere che piuttosto d’arricchire i club brasiliani o argentini, Milan e Inter, per esempio, riprenderebbero a investire nei propri vivai di calciatori.

(1) R. Poli e L. Ravenel (2007), Annual Review of the European Football Players’ Labour Market.
(2)www.eurofootplayers.org (sito dell’Osservatorio dei calciatori professionisti).
(3) Economics, Uncertainty And European Football. Trends in Competitive Balance, Edward Elgar, in uscita in novembre.

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  1. Francesco Laccetti

    L’indice sorpresa, questo è il vero problema. Il vero problema è l’interesse di una partita. L’interesse di una partita è legato alla equivalenza dei contendenti, delle squadre e quindi all’incertezza del risultato. Se l’indice sorpresa. é diminuito in molti campionati europei si deve fare qualcosa. La proposta di “decommercializzare” il calcio e consentire la trasmissione delle partite in chiaro non ha alcun collegamento con l’indice sorpresa. Abbassare i ricavi del calcio, o degli altri sport non porta ad un miglioramento dello spettacolo o dell’interesse. Il miglioramento dell’indice, l’aumento dell’incertezza dei risultati delle partite di calcio si ottiene diminuendo il divario tra le squadre. Per ottenere questo si potrebbe attenuare la differenza economico/finanziaria tra le società sportive. Per raggiungere questo obiettivo sarebbe sufficiente dividere gli incassi [botteghino e televisione] al 50% tra le due squadre che giocano il match. Costantino Rozzi, il simpatico presidente dell’Ascoli, tanti anni fa, proponeva qualcosa del genere e concludeva, rivolgendosi alle “grandi società”: «altrimenti i punti ve li mando per posta». Semplice soluzione: senza vendita collettiva dei diritti, senza solidarietà, solo per garantire, nel tempo, l’interesse delle gare. Se si usasse una regola del genere le squadre “piccole” del campionato italiano di calcio di serie A incasserebbero circa un terzo delle “grandi”. Le differenze rimarrebbero, ma i budget delle società sarebbero meno distanti.
    Se la regola fosse europea cadrebbero molte obiezioni.
    Obbligare i club delle migliori leghe europee a riversare parte dei diritti televisivi alle squadre che hanno formato coloro che, lo spettacolo, lo producono, da Kakà a Ronaldinho, passando per Eto’o e Adebayor. Laproposta mi sembra alquanto originale e fantasiosa. Come si fa a stabilire chi ha “formato” un giocatore? Come si misura il peso di un giocatore nel risultato di una squadra? Al calcio si gioca in 11, al rugby in 15. Come si valuta il miglioramento successivo alla cessione? Se il giocatore non gioca bene la società che lo ha acquistato avrebbe diritto ad avere la restituzione di quanto pagato? L’esempio attuale è Pato, pagato una barca di soldi. Pato dimostra che il club di provenienza ha già ricevuto una cifra considerevole. Se Pato non giocasse bene che cosa succederebbe? Il Milan dovrebbe richiedere la restituzione di quanto pagato?
    Oltretutto si incrementerebbe il concetto che un giocatore è di “proprietà” di un club.
    Sono i calciatori, gli allenatori e le società nel loro complesso che fanno lo spettacolo, non solo le società dove i campioni hanno tirato gli ultimi calci, prima di passare ad un club europeo.
    Porre un limite ai giocatori stranieri? Certamente si sta parlando di extra-comunitari perché se si vogliono porre dei vincoli alla libera circolazione dei “lavoratori” europei, si devono cambiare tutti i trattati esistenti. Tempo due anni e le stesse persone che suggeriscono il vincolo, parlerebbero di insensibilità coloniale, di ghettizzazione, di mancanza di libertà, ecc. Ma non esiste già un vincolo di numero per gli extra-comunitari?

  2. gianmario tondato

    Se estendiamo il concetto di "migranti" presentato nell’articolo ai non nati nel paese di orgine il fenomeno è ancora più rilevante. Per esempio mi pare che nessuno dei primi 5 avanti titolari dell’Australia sia nativo del paese, la Nuova Zelanda è piena di Immigrati dalle Isole vicine, Lomu è stato il più illustre, e anche la Francia ha Betsen, il capitano che è nato in Africa. Complimenti per l’articolo.

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