Il Jobs act cerca di affrontare i due nodi cruciali della bassa partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro e della scarsa fecondità. E lo fa attraverso misure condivisibili. Ma non sarà semplice realizzarle, se le risorse devono essere trovate senza aumenti di spesa per lo Stato.
I DUE NODI CRUCIALI
Nel Jobs Act sono incluse proposte che cercano di affrontare i due nodi cruciali – e apparentemente contraddittori – della situazione delle donne italiane: la bassa partecipazione al mercato del lavoro e la bassa fecondità. L’occupazione femminile in Italia da anni si trova oltre 10 punti percentuali al di sotto della media europea (è al 46,7 per cento, mentre nei paesi UE è del 58,8 per cento). Nel 2014 il tasso di occupazione femminile ha lentamente ripreso a salire al Nord e al Centro, ma è in continua diminuzione al Sud, dove non supera il 30 per cento.
Il tasso di fecondità è al di sotto un figlio e mezzo per donna dalla metà degli anni Ottanta, non è riuscito a risalire negli ultimi trent’anni e ora ha raggiunto il minimo dal 2006 di 1,39 figli per donna, anche a causa della diminuzione della fecondità tra le donne al Sud e tra le immigrate. Ma il dato tutto italiano è l’abbandono del lavoro delle mamme alla nascita del primo figlio: lo fa quasi un terzo delle donne occupate, secondo i dati diffusi dall’Istat e dall’Isfol. Se infatti prima della nascita dei figli lavorano 59 donne su 100, dopo la maternità ne continuano a lavorare solo 43. Le potenziali novità del Jobs Act per donne e mamme riguardano principalmente la conciliazione lavoro-famiglia, su cui si articolano i commi 8 e 9 dell’articolo 1. Sebbene la delega parli giustamente ed esplicitamente di promozione di genitorialità, in un paese in cui il lavoro di cura è prevalentemente femminile è più probabile che l’estensione di misure di conciliazione vada a beneficio della forza lavoro femminile.
LE LINEE GUIDA PER LA CONCILIAZIONE
Quattro sono le linee guida della delega sulla conciliazione: rafforzamento nella tutela dei diritti; misure fiscali per favorire la partecipazione del secondo percettore di reddito; potenziamento dell’offerta di servizi; flessibilità. Sul fronte del rafforzamento delle tutele, la delega prevede in primo luogo l’estensione del diritto al congedo di maternità a tutte le categorie di donne lavoratrici. Viene stabilito l’allargamento del principio dell’automaticità, per cui all’Inps è imposto di pagare la prestazione alle lavoratrici parasubordinate, anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia versato i contributi. L’obiettivo di dare un adeguato e universale sostegno alle lavoratrici madri è certamente un passo importante viste le statistiche citate, per lo più ignorate dai recenti Governi. In secondo luogo, il Jobs Act introduce il tax credit, ovvero un credito d’imposta per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo. Questo può costituire un importante incentivo all’offerta di lavoro, soprattutto se coordinato con la revisione delle detrazioni per coniuge a carico, come indicato nella delega.
Poiché la bassa occupazione femminile, specialmente nell’attuale congiuntura, è determinata anche dalla carenza di domanda di lavoro da parte delle imprese, è opportuno che gli incentivi fiscali operino su entrambi i fronti del mercato del lavoro. Da alcuni anni ci sono agevolazioni sull’Irap per le imprese che assumono donne e giovani, ma manca una valutazione compiuta dell’efficacia di queste misure in termini di incremento dell’occupazione generata, che invece potrebbe guidare gli ulteriori interventi. A queste agevolazioni si sono poi aggiunte quelle più recenti introdotte dalla Legge di stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato, che garantiscono una decontribuzione per l’impresa nei primi tre anni di impiego del nuovo lavoratore. Anche su queste misure è importante che vengano effettuate valutazioni, sia in termini di efficacia, sia in termini di corretto utilizzo da parte delle imprese, che potrebbero avere incentivi a cambiare lavoratore per potere sfruttare al massimo i vantaggi dell’agevolazione, con risvolti negativi sulla stabilità del rapporto di lavoro e sugli investimenti in formazione. Il Jobs Act non riduce però il numero di contratti. Rimangono tutti, inclusi quelli a progetto, che nel settore privato rappresentano la vera forma di lavoro parasubordinato. Ciò può avere effetti più pesanti per le donne, che già ora più numerose nei contratti a termine (14,2 per cento contro il 12,6 per cento per gli uomini nel 2013): i datori di lavoro avrebbero infatti possibilità di fare alle donne contratti brevi e di non rinnovarli alla scadenza in caso di gravidanza, aggirando i vincoli alle dimissioni in bianco.
I SERVIZI PER L’INFANZIA
Il Jobs Act introduce “l’integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia”, che affronta il tema dei pochi nidi pubblici in Italia. La disponibilità di posti al nido pubblico per i bambini va da un’offerta minima del 2,1 per cento in Calabria, fino al 27,3 per cento dell’Emilia Romagna. La delega propone di rispondere alla carenza di servizi con una crescente integrazione pubblico-privato, valorizzando le reti territoriali e l’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende e dai fondi. Ma a supporto della possibilità di ottenere maggiore efficienza anche nel pubblico, va rilevato che in alcune regioni, come l’Emilia, anche in questi anni di crisi e di tagli ai contributi delle regioni, l’offerta di nidi pubblici non è diminuita, anzi è cresciuta consentendo di soddisfare un maggior numero di richieste. La delega contiene inoltre la promozione del telelavoro, l’incentivazione di accordi collettivi per facilitare la flessibilità di orario di lavoro e la possibilità di cessione dei giorni di ferie tra lavoratori per attività di cura di figli minori.
Se nel complesso sono indicazioni positive a sostegno della maternità e del lavoro delle donne, restano aperti due aspetti. Il primo è che per ora si tratta di una delega e solo i decreti attuativi stabiliranno se gli obiettivi si tradurranno in prassi. Il secondo riguarda la clausola secondo cui ogni intervento dovrà essere realizzato senza ulteriori spese a carico dello Stato. Il rischio è che per quanto significative o condivisibili possano essere le politiche, la loro realizzazione dipenderà dall’effettivo reperimento di risorse economiche. E finora il nostro paese non è riuscito a considerare queste misure come prioritarie per lo sviluppo, e quindi in cima all’agenda politica. Un cambio di passo è quanto mai necessario.
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Renato Fioretti
L’ottimismo appare prematuro, se non infondato!
Per punti:
1) Secondo un elementare principio, rafforzare e allargare i diritti, rappresenta sempre un aggravio di spesa per le casse dello Stato. La delega non prevede altre spese.
2) Renzi, in maniera più energica e drastica rispetto a Berlusconi, ha già dimostrato che l’obiettivo è quello di “ridurli” (art. 18 docet).
3) Circa la necessità di “consuntivare” le (già vigenti) misure da adottare: “credito d’imposta”, “detrazioni” e “incentivi” vari, occorrerebbe una vera e propria rivoluzione culturale e politica. Nel nostro Paese, non è mai stato possibile conoscere gli effetti concreti di qualsivoglia provvedimento adottato.
4) Le due autrici definiscono “agevolazione più recentemente introdotta dalla Legge di stabilità” quella che non rappresenta un’invenzione di Renzi. E’ la “ridimensionata” copia di una norma che vige da oltre venti anni (legge 407/90). Tra l’altro, le precedenti disposizioni prevedevano: a) una misura più favorevole alle imprese del Mezzogiorno; b) lo sgravio contributivo anche per i contributi assistenziali; c) nessun tetto alla “decontribuzione”; d) il beneficio legato all’assunzione di disoccupati da almeno 24 mesi (oggi 6).
5) Inoltre, la nuova norma opererà solo per il 2015 e, dal 1 gennaio 2016, non ci saranno più sgravi di alcun genere per le assunzioni a tempo indeterminato!
E’ quindi lecito chiedersi: quali sono i motivi di cotanta soddisfazione?
Asterix
L’estensione del diritto di congedo di maternità se viene effettuato dall’INPS a spese dello Stato (tradotto paghiamo tutti più IMU e IVA per finanziarlo) e non dal datore di lavoro non avrà un effetto positivo per l’economia perché deprimerà la domanda interna. Sul tax credit per le donne che lavorano segnalo che esiste al MEF un gruppo tecnico che sta lavorando ad una revisione delle tax expendtures in materia IRPEF (tra cui quella per lavoro dipendente) quindi sarebbe in contraddizione con tale orientamento prevedere una nuova tax expenditures per le donne che lavorano. Per rendere efficace la misura servono risorse ingenti. La conciliazione dei tempi di lavoro/famiglia era già prevista nel decreo Fornero (il famoso voucher) ma data l’esiguità dei fondi stanziati dubito che le donne italiane ne abbiamo avuto grande beneficio..