Il nostro paese e il Regno Unito hanno stretti rapporti economici. E le conseguenze per l’Italia e gli italiani di una eventuale Brexit potrebbero non essere irrisorie, anche se è difficile quantificarle in questo momento. Effetti dell’abbandono delle quattro libertà fondamentali comunitarie.

Conti difficili da fare

A due mesi dal referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, crescono le possibilità che l’elettorato sancisca l’uscita. Gli attentati di Bruxelles confortano chi considera rischi e costi dell’Ue ben superiori ai benefici e i Panama Papers indeboliscono la credibilità di David Cameron. A poco sembrano servire le analisi che suggeriscono che la Brexit impoverirebbe i sudditi della Regina. Secondo la Confindustria britannica, la crescita del Pil da qui al 2020 sarebbe del 3-5,5 per cento inferiore, a seconda delle modalità dell’uscita. Il Tesoro invece costruisce tre scenari e stima che il costo in termini di mancato Pil sarebbe rispettivamente dello 3,8 per cento, 6,2 per cento e 7,5 per cento. Quali sono però le conseguenze per gli altri paesi europei? Tutt’altro che facile prevederle, quello che è certo è che le interdipendenze sono importanti. Con l’uscita tornerebbero alcune barriere tariffarie e non-tariffarie al commercio e alla mobilità del lavoro, riducendo quindi il vantaggio comparato conferito dal mercato unico. In compenso, investire nel Regno Unito potrebbe diventare più interessante se l’ambiente economico diventasse più liberale a seguito della rimozione di determinata legislazione comunitaria. E la sterlina potrebbe indebolirsi, agevolando l’acquisto di attività britanniche. Anche se bisogna scontare l’effetto negativo sul commercio e sulla fluidità degli scambi, elementi sempre più importanti in un’economia fatta di catene globali di produzione. Il Regno Unito assorbe circa un decimo delle esportazioni europee, molto meno per l’Italia (5,2 per cento nel 2015, rispetto a 12,6 per cento e 10,5 per cento rispettivamente per Germania e Francia). Ma è un mercato tutt’altro che irrilevante per il made in Italy: il saldo commerciale di quasi 12 miliardi di euro è secondo solo a quello con gli Stati Uniti (quasi 22) e rappresenta lo 0,8 per cento del Pil. Un avanzo che ovviamente non scomparirebbe d’incanto con la Brexit, ma sarebbe a rischio concorrenza non-Ue. L’Unione è anche il riferimento principale per le decisioni d’investimento nel Regno Unito, come in qualsiasi paese europeo. Da un lato gli investimenti più importanti sono ovunque intra-europei; dall’altro è il mercato unico a rivestire maggiore interesse per chi investe in un paese membro. La Brexit avrebbe delle ripercussioni per le imprese italiane nel Regno Unito e per quelle britanniche in Italia, anche se è molto arduo immaginare quali e quante.

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Affari in comune tra Regno Unito e Italia

Quello che è sicuro è che ci sono fortissime interdipendenze (tabella): 86 mila lavoratori italiani sono occupati in multinazionali britanniche, 67 mila nel senso contrario. Il Regno Unito pesa meno come destinazione degli investimenti italiani all’estero (al nono posto) che come origine degli investimenti esteri in Italia (al quinto). In Italia, le multinazionali britanniche svolgono attività particolarmente arricchenti per la nostra economia (il contributo in termini di valore aggiunto è maggiore che in termini occupazionali). Non disponiamo sfortunatamente di statistiche equivalenti per il Regno Unito (cosiddette Fats), che permetterebbero di capire quanto è importante l’Italia come destinazione e fonte dell’internazionalizzazione attiva e passiva dell’economia britannica.

Tabella 1

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Fonte: Istat

Non è chiaro quanti sono gli italiani nel Regno Unito. A fine 2014, secondo le statistiche Aire, erano 210mila. Informazioni britanniche vengono dal 2011 Census, il primo in cui si è chiesto “What passports do you hold?”. Tra i 4,2 milioni a indicare un paese straniero (i bi-nazionali UK-estero sono esclusi dal conto), l’Italia conta più di 155 mila residenti (di cui 77mila a Londra). Se con la Brexit venisse sospesa la libera circolazione del lavoro, a rischio sarebbero soprattutto gli europei con poche qualifiche e pertanto teoricamente più facili da sostituire con nativi o con altri immigrati extra-Ue. Un altro flusso in crescita è quello di matricole italiane nelle università britanniche, passate da 3.570 nel 2010/11 a 5.265 nel 2014/15. Anche se è probabile che questi flussi non siano molto influenzati dal costo delle rette, il possibile allineamento alle tasse universitarie per gli studenti extra-Ue non lascerà insensibili i genitori (anche se in senso contrario potrebbe giocare il deprezzamento della sterlina). In sintesi, i flussi economici tra Italia e Regno Unito sono sostanziosi e se la Brexit conducesse a un relativo impoverimento e all’abbandono delle quattro libertà fondamentali dell’Ue, le conseguenze per l’Italia e gli italiani potrebbero non essere irrisorie. Quantificarle è ovviamente un esercizio molto complesso, ma che varrà la pena realizzare.

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* Una versione più lunga di questa nota è disponibile sul sito www.nomisma.it.

 

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