Lo ha ben spiegato il governatore della Banca d’Italia: un aumento dei salari contribuirebbe ad allontanare il rischio deflazione. Pochi i margini all’interno delle aziende, perché la produttività ristagna. Possibili interventi di politica fiscale rispettando gli equilibri di finanza pubblica.
La questione salariale
Le retribuzioni di fatto nominali orarie sono cadute dello 0,7 per cento nel primo trimestre rispetto al corrispondente trimestre del 2015 nel settore privato; quelle dell’industria in senso stretto si sono ridotte dell’1,4 per cento. Nel primo caso, solo in Portogallo si è avuto un andamento simile; nel secondo caso, è andata peggio solamente a Cipro, con flessioni più tenui nel Regno Unito e in Austria.
I dati Eurostat confermano la tempestività dell’allarme lanciato dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, quando ha individuato il debole andamento delle retribuzioni tra i fattori che creano rischi per uno scenario di deflazione in Italia. Ciò perché i salari svolgono un ruolo sia dal lato della domanda interna (come componente del reddito delle famiglie) sia dal lato dell’offerta perché, come componente di costo, sono tra le determinanti principali dei prezzi alla produzione e, quindi, dei prezzi al consumo. La debolezza contrattuale dei lavoratori in presenza di un’elevata disoccupazione si riflette in una “dinamica salariale […] ulteriormente affievolita alla fine dell’anno, risentendo dei mancati rinnovi di molti dei contratti scaduti nel corso del 2015 e nei primi mesi del 2016. […] Nei comparti della chimica-farmaceutica e della gomma-plastica gli accordi hanno contemplato possibili futuri aggiustamenti della crescita salariale in caso di una inflazione realizzata significativamente discosta da quella presa a riferimento nel contratto, con il rischio di ulteriore intensificazione delle pressioni al ribasso sulla dinamica dei prezzi se l’evoluzione dell’inflazione dovesse continuare a essere peggiore di quella prevista nei contratti (mio corsivo)” (Relazione annuale, pagina 99).
La produttività del lavoro
La crescita delle retribuzioni serve quindi a contrastare il rischio di deflazione e le conseguenti ricadute negative su un sistema produttivo già indebolito dalla crisi. Come realizzarla, conciliandola con l’obiettivo della competitività di prezzo rispetto ai concorrenti esteri? I margini di profitto nei conti economici delle imprese per incrementi salariali sono limitati. Nella Relazione della Banca d’Italia (pagine 100-101), l’esame della distribuzione funzionale dei redditi dal 1970, che non si discosta da quanto presentato su lavoce.info, mostra che la quota dei redditi da lavoro sul valore aggiunto del settore privato, al netto della componente dei fitti effettivi e imputati, ha raggiunto o superato nel 2015 il picco intorno al 1975. Solo nel medio periodo si possono prevedere spazi per aumenti generalizzati nelle retribuzioni, resi possibili da un significativo miglioramento nell’andamento della produttività, la cui stagnazione impiomba l’economia italiana da un quarto di secolo. Una lettura di questo fenomeno è la scarsa capacità delle imprese di estrarre sul mercato un prezzo adeguato ai beni e servizi offerti e, quindi, a creare margini per retribuzioni adeguate alla valorizzazione del lavoro, specie se qualificato, con il beneficio associato del sostegno alla domanda interna. Nel breve periodo è dunque prioritario stimolare la domanda di lavoro, perché “si stima che a una riduzione di un punto percentuale del tasso di disoccupazione corrisponderebbe una maggiore crescita salariale di poco meno di un punto nel triennio successivo” (Considerazioni finali pagina 10). Per Visco è prioritario un aumento degli investimenti pubblici mirati, anche in infrastrutture immateriali, e diretti, piuttosto che sotto forma di sussidi alle imprese, di scarsa efficacia. Oltre all’effetto di domanda, dal lato dell’offerta il beneficio è quello di favorire una maggiore produttività del lavoro tramite la ricostituzione dello stock di capitale fisso. Stranamente questa indicazione è stata trascurata dai media, nei cui titoli si è privilegiata quella, successiva nella lista di Visco, dell’ulteriore riduzione del cuneo fiscale.
Come ridurre il cuneo fiscale
L’ulteriore riduzione del cuneo sulle retribuzioni più basse, con una fiscalizzazione dei contributi, è stata sollecitata anche dal Fmi, dalla Commissione e dall’Ocse. Sebbene non esplicitato nella Relazione annuale, è facile inferire la sintonia sulle modalità di copertura: spostamento della tassazione dal lavoro al consumo (con maggiori aliquote Iva) e agli immobili (con estimi catastali rivisti). Sono scelte di politica fiscale diverse da quelle sin qui fatte dal governo, dalla distribuzione di bonus in cifra fissa, all’abolizione della tassazione su tutte le prime case, alla rinuncia a esercitare la delega sul riordino degli estimi catastali. L’opportunità di utilizzare in modo oculato le scarse risorse disponibili per interventi con un impatto significativo a sostegno della domanda di lavoro nel breve periodo, rispettando gli equilibri di finanza pubblica, risulta tanto più cogente dunque quando si consideri il nesso tra andamento delle retribuzioni e rischio di deflazione.
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Stefano Sappino
Finché continueremo a parlare di produttività senza guardare quello che produciamo non imboccheremo la strada giusta. E’ inutile essere produttivi in settori nei quali la concorrenza è data da paesi con costo del lavoro enormemente inferiore. Anzi, non è inutile, è dannoso.
Piero
La Germania dovrebbe raddoppiare i salari, non l’Italia, sono loro che hanno il surplus, l’Italia ha un deficit verso la Germania. Noi dobbiamo essere più competitivi nei loro confronti. Invece la realtà è diversa, in Germania vi sono stipendi più bassi dell’Italia, e quindi aumentano sempre di più il loro surplus nei confronti dell’Italia.