Disuguaglianza e povertà sono un ostacolo allo sviluppo umano e alla crescita economica. Lo afferma l’Ocse, che sostiene la necessità di contrastarle con politiche che favoriscano socializzazione, scolarizzazione, inserimento lavorativo e tutela della salute. Un approccio mai applicato in Italia.
Aumentano i nuovi poveri
Dal 1985 a oggi nella maggior parte dei paesi Ocse la disuguaglianza fra ricchi e poveri è molto cresciuta. In Italia dal 1985 al 2008 si è ridotta, ma dal 2008 al 2014, con la crisi, è aumentata e ora tende a stabilizzarsi a un livello fra i più elevati nei paesi europei: il 10 per cento delle famiglie più ricche ha 6,6 volte il reddito del 10 per cento delle più povere. Anche l’indice di Gini – varia da 0, quando tutti hanno redditi uguali (perfetta equità), a 1, quando tutto il reddito va a una sola persona (massima disparità) – dal 2007 al 2014 registra uno degli incrementi maggiori fra i paesi Ocse.
Negli stessi anni, i poveri assoluti passano dal 3,1 al 7,6 per cento, della popolazione, un aumento di 2,5 volte superiore alla media europea. Nel 2015 sono 4.598.000.
Dunque, ricchi più ricchi, poveri più numerosi e più poveri (tavola 1).
Non ho spazio qui per analizzare chi sono i nuovi poveri. Basti dire che aumentano anche al Nord, appartengono sempre più a famiglie con due e più figli, e anche a quelle con persona che lavora. Fasce sociali e famiglie tranquille sulla propria condizione economica prima della crisi, ora sono minacciate o già colpite da un impoverimento crescente dovuto soprattutto alla perdita, al mancato accesso, alla precarietà, alla bassa remunerazione del lavoro, e non fronteggiato da un sostegno sociale, che è inesistente o comunque insufficiente.
La protesta sociale e politica nasce anche da queste diffuse situazioni di deprivazione e insicurezza soprattutto delle giovani famiglie.
Gli effetti negativi
Accentuata disuguaglianza e diffusa povertà generano forti criticità sul piano umano e sociale. Da qui gli indici complessi dello sviluppo umano costruiti sulla traccia di Amartya Sen.
Ma la graduale costruzione di database con serie storiche adeguate per molti paesi permette all’Ocse di tirare le fila sul controverso rapporto fra diseguaglianza e crescita economica e di affermare con sufficiente attendibilità che a medio-lungo termine le disuguaglianze hanno un effetto negativo, statisticamente significativo, anche sulla crescita. L’aumento di 0,3 punti dell’indice Gini negli ultimi vent’anni ha ridotto la crescita dell’insieme dei paesi dello 0,35 per cento all’anno, cumulativamente dell’8,5 per cento (tavola 2). Per l’Italia, se la disuguaglianza fosse rimasta al livello del 1985, la crescita dal 1990 al 2010 avrebbe registrato un +6 per cento cumulativo.
Accentuate disuguaglianze nuocciono alla crescita perché creano tensioni sociali, perché nel breve periodo contraggono le risorse delle famiglie con basso reddito e quindi forte propensione al consumo, e soprattutto perché nel medio-lungo periodo non favoriscono l’accumulazione di capitale umano. Le persone svantaggiate hanno grande difficoltà a utilizzare le opportunità di crescita, relazionalità, educazione, formazione, occupazione, salute, disponibili, a sviluppare insomma le loro capacità e attivare mobilità sociale.
Se forti disuguaglianze reddituali nuocciono alla crescita, afferma l’Ocse, occorre allora contrastarle con un insieme di politiche, e fra queste con politiche redistributive di risorse e di opportunità, ben disegnate e attuate, che sostengano i poveri e la bassa classe media. Politiche inclusive, con erogazioni monetarie ma anche accesso a servizi di sostegno, socializzazione, scolarizzazione, inserimento lavorativo, tutela della salute.
Misure redistributive e di contrasto alla povertà sono dunque componente essenziale di politiche di sviluppo e crescita economica. E non solo perché, se ben equilibrate fra cash (aiuti monetari) e care (servizi di cura), creano nuova occupazione.
Nel confronto e nell’agenda politica del nostro paese tale approccio non viene focalizzato. Nemmeno per rivedere politiche sociali nazionali parcellizzate e anche regressive, come evidenziano il confronto con altri paesi (tavole 4 e 5) e il fatto che 13 miliardi, più di un quarto delle erogazioni monetarie assistenziali nazionali, vanno alle famiglie mediamente benestanti e talora ricche dei quattro decili Isee superiori, mentre ben il 49 per cento delle famiglie in povertà assoluta non riceve alcun sostegno.
Prima o poi si dovrà prendere atto di queste e altre distorsioni dell’attuale sistema assistenziale, né equo né efficiente, e superare le forti resistenze che si oppongono a discuterlo e rivederlo.
Tavola 1 – Incidenza della povertà assoluta (individui) in Italia dal 2007 al 2015 (%)
Tavola 2 – Incremento della diseguaglianza dei redditi dal 1985 al 2012, indice di Gini
Tavola 3 – Stima dell’impatto dei cambiamenti intervenuti nelle diseguaglianze dal 1985 al 2005 sulla crescita economica dal 1990 al 2010
Tavola 4 – Tasso di popolazione a rischio di povertà prima e dopo i trasferimenti sociali, 2014 (%)
Tavola 5 – Quota della spesa per trasferimenti monetari assistenziali (escluse quindi le pensioni) che va a ciascun quintile di reddito disponibile
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Henri Schmit
Bellissimo! Come se fossimo tornati indietro di 225 anni: la realtà (i privilegi) che cozza con l’ideologia dominante (l’illuminismo). Un compito dei prossimi anni sarà di analizzare le cause fortuite o aberranti che favoriscono le disuguaglianze o gli eccessi di disuguaglianza e i metodi per correggerle o evitarle. Per correggere ci sono i vari tipi di redistribuzione, per evitare bisogna inventare nuove regole contro abusi (contrattuali), sfruttamento (di una poszione asimmetrica, cioè di dominazione).
mikedb
Condivido l’analisi ma le cause sono molto semplici e note a tutti Il paradigma neoliberista il cui scopo è proprio quello di accentrare la ricchezza nelle mani dei più ricchi