Nel ringraziare l’Istat per la replica alla mia nota del 4 settembre, mi preme innanzitutto precisare che in essa non vi era alcuna critica all’Istituto, ma anzi un apprezzamento indiretto per la mole di informazioni comunque messa a disposizione del pubblico.

Oggetto principale dell’articolo non era neanche proporre nuovi indicatori ad hoc, ma cercare di spiegare – proprio sulla base del complesso dell’informazione resa disponibile dall’Istat – quello che appare ai più in contrasto con l’esperienza, e cioè perché i poveri ufficialmente rilevati non stanno aumentando pur in presenza della più grave crisi economica del dopoguerra. L’Istat fa il suo dovere nel difendere misure ufficiali consolidate, ma il punto è un altro e va ben oltre le competenze dell’Istituto e gli stessi confini nazionali, richiamando piuttosto l’attenzione degli esperti della materia sulla necessità di ridefinire le misure di povertà che sono andate affermandosi negli ultimi decenni. Ma andiamo per ordine. Le misure di povertà sono storicamente e localmente determinate. E’ il fenomeno stesso che lo richiede; tralasciando qui le pur necessarie analisi sulla multidimensionalità della povertà e dell’esclusione sociale, in prima approssimazione quello che si misura è l’adeguatezza delle risorse di una famiglia. Ma decidere cosa è “adeguato” dipende dal contesto spazio-temporale di riferimento.
Si pensi alla prima grande inchiesta sulla povertà nel nostro paese, che risale ad una iniziativa parlamentare dei primi anni 50 del secolo scorso. In quell’indagine i poveri furono contati sulla base di tre  indicatori: assenza di consumo di carne, vino e zucchero; condizioni miserrime delle calzature; sovraffollamento nelle abitazioni (oltre 4 per stanza) o abitazioni improprie (grotte, cantine). (1) Nessuno misurerebbe oggi la povertà con quegli stessi indicatori, visto che si tratta di sintomi di deprivazione ormai superati anche nelle fasce più marginali della popolazione. L’esigenza di misurare la povertà relativamente alle condizioni prevalenti in una popolazione nasce proprio dalla volontà di non escludere i più svantaggiati dal benessere in larga misura raggiunto da una comunità. Nelle parole di Townsend – il sociologo cui si deve la prima definizione di povertà relativa – “si può dire che individui, famiglie e gruppi della popolazione sono poveri quando… le loro risorse sono così seriamente al di sotto di quelle cui dispone l’individuo o la famiglia media che essi sono in effetti esclusi dai modi di vita, usanze, attività usuali”.(2)
Ma evidentemente le misure di povertà relativa presuppongono una società sviluppata, la loro motivazione più profonda essendo comunque legata a considerazioni di giustizia distributiva, una volta assicurati a tutti i bisogni elementari. Sarebbe davvero scorretto misurare il fenomeno in termini relativi quando la gran parte della popolazione è invece al disotto del livello di sussistenza. La linea di povertà diverrebbe prossima allo zero e non troveremmo nessun povero. Non a caso nell’ambito dei Millennium development goals delle Nazioni Unite, l’obiettivo di lotta alla povertà è misurato con un semplice indicatore di povertà assoluta: è povero chi ha un reddito inferiore ad un dollaro al giorno. Ma anche quando la sussistenza è garantita in tutta la popolazione, è corretto continuare a misurare la povertà in termini meccanicamente relativi se  una recessione colpisce l’economia per una fase straordinariamente lunga? E, restando nei confini nazionali, è corretto continuare a usare una misura di questo tipo quando negli ultimi vent’anni i consumi medi pro-capite delle famiglie sono rimasti sostanzialmente fermi?
Se riteniamo di sì, dovremmo allora essere disposti ad accettare che lo standard sulla base del quale siamo considerati poveri si abbassi nel tempo e che, indipendentemente dalla dinamica congiunturale, tale standard possa eventualmente andare al di sotto di un minimo socialmente accettabile. Evidentemente non è un problema statistico, ma di giudizi di valore.
Se si osserva il grafico della nota precedentemente pubblicata, negli ultimi quindici anni per ben sette volte la soglia di povertà si è ridotta da un anno all’altro in termini reali (tenuto conto cioè della variazione dei prezzi). Se assumessimo un ragionevole vincolo di impossibilità di variazioni negative nella soglia, oggi racconteremmo una storia diversa della dinamica della povertà in epoca recente. E,  come già evidenziato nella nota del 4 settembre, come effetto della crisi corrente osserveremmo almeno un milione di poveri in più (stima che si ritiene prudenziale).
Ma non solo. La stagnazione dei consumi ha fatto sì che lo standard oggi utilizzato per la povertà relativa sia inappropriato  per alcune delle tipologie familiari più diffuse in ampie parti del paese (il Centro-Nord, in particolare nelle aree metropolitane). E’ proprio l’Istat che ce lo dice, avendo sviluppato una raffinatissima metodologia di misura della povertà assoluta che individua le risorse necessarie ad acquistare il minimo socialmente accettabile per ciascuna famiglia, a seconda del numero e dell’età dei suoi componenti oltre che del suo luogo di residenza. Al di là delle considerazioni di Laura Sabbadini sul punto – comunque condivisibili – c’è qualcosa che l’Istat può fare subito senza alcun costo: imporre nelle proprie elaborazioni che nessuna famiglia che viva al di sotto dello standard minimo accettabile venga considerata “non povera” per una mera applicazione meccanica del concetto di povertà relativa.
Si tratta di due piccoli aggiustamenti – imporre un minimo assoluto alla soglia di povertà e impedire le variazioni negative in termini reali – che rappresentano una sorta di contaminazione tra concetti “assoluti” e “relativi”, magari non gradita ai puristi, ma che in attesa di più elaborate proposte da parte di chi è più titolato di chi scrive, possono sin da subito restituire un quadro del fenomeno più rispondente alla realtà.

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(1) Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-52), Materiali della Commissione parlamentare a cura di Paolo Braghin, Piccola biblioteca Einaudi, 1978.
(2)
 P. Townsend, “Poverty as relative deprivation: resources and style of living”, in Poverty, Inequality & Class Structure, Cambridge University Press, London, 1974.

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