Nel Def 2017 sono stati inseriti per la prima volta indicatori di benessere equo e sostenibile. Tra questi, c’è il tasso di mancata partecipazione al lavoro. Restituisce meglio lo stato attuale del nostro mercato del lavoro: negativo, ma in miglioramento.
Benessere equo e sostenibile nel Def
Nel clima di costante emergenza in cui vive l’economia italiana, non ha ricevuto nessuna attenzione l’inserimento nel Documento di economia e finanza 2017 di indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes), oltre al consueto Pil. L’Italia è stata il primo paese dell’Unione europea e del G7 a inserire tra gli obiettivi di politica economica indicatori non meramente economici, ma volti a misurare il benessere complessivo di una società, seguendo le indicazioni del rapporto Stiglitz, Sen e Fitoussi. La politica economica non dovrà mirare solo ad aumentare la ricchezza prodotta, ma anche a renderne sostenibile la produzione, a ridurne la diseguaglianza nella distribuzione e a favorire la creazione di lavoro.
Il risultato si deve all’iniziativa avviata sei anni fa dall’allora presidente dell’Istat Enrico Giovannini e dall’allora direttore per le statistiche sociali Linda Laura Sabbadini e al lavoro di un’ampia commissione di sociologi, economisti ed esperti di vari settori (dalla cultura all’ambiente) che ha prodotto quattro rapporti annuali sul Bes in Italia.
Un comitato di nomina ministeriale (solo in parte composto da chi li aveva costruiti) ha scelto quattro indicatori tra i molti elaborati dalla commissione Istat: il reddito medio disponibile, un indice di disuguaglianza, le emissioni di CO2 e il tasso di mancata partecipazione al lavoro. È così diventata ufficiale una nuova misura della mancanza di lavoro, che realisticamente getta una luce più cupa sulle condizioni del mercato del lavoro italiano a confronto con quello degli altri paesi dell’Europa occidentale.
Chi cerca lavoro
Passando dal tasso di disoccupazione a quello di mancata partecipazione al lavoro, la posizione dell’Italia peggiora nettamente. Se nel 2016 il tasso di disoccupazione italiano è superiore a quello medio dell’Unione europea a 15 di neppure 3 punti percentuali, per il tasso di mancata partecipazione al lavoro la differenza supera i 9 punti e l’Italia raggiunge Spagna e Grecia tra i paesi europei ove la mancanza di lavoro interessa quasi un quarto della popolazione attiva.
Figura 1 – Tasso di disoccupazione e di mancata partecipazione al lavoro in alcuni paesi europei, 2016
Ciò si deve sia alla diversa definizione dei due indicatori, sia al diverso assetto dei mercati del lavoro. Il tasso di disoccupazione comprende solo chi cerca attivamente un lavoro, cioè chi dichiara nelle interviste per la rilevazione delle forze di lavoro di aver compiuto un’azione di ricerca nell’ultimo mese. Invece il tasso di mancata partecipazione comprende anche chi non ha fatto azioni di ricerca nell’ultimo mese, ma dichiara di voler lavorare e di esser subito disponibile. Questa fascia in Italia è molto più ampia rispetto agli altri paesi europei.
La differenza strutturale non si deve tanto a un effetto di scoraggiamento dovuto alle difficoltà di trovar lavoro, che non si ritrova in Spagna e Grecia, ove le difficoltà sono ancor maggiori, ma al maggior uso delle relazioni familiari e personali per cercare lavoro, che non richiedono di essere reiterate di frequente, e al più scarso ricorso ai servizi per l’impiego, che negli altri paesi europei è obbligatorio ogni mese per percepire i più diffusi sussidi di disoccupazione e implica un’azione di ricerca.
L’effetto di scoraggiamento dovuto all’andamento dell’occupazione spiega piuttosto le variazioni congiunturali della fascia di chi è disponibile al lavoro, ma non lo cerca – un’azione costosa se non altro sul piano psicologico, soprattutto quando i servizi per l’impiego sono carenti, come in Italia. Infatti, negli altri paesi europei questa fascia non varia: nell’Unione europea a 15 la differenza tra il tasso di mancata partecipazione e quello di disoccupazione dal 2007 al 2016 è stabile su valori di poco superiori ai 5 punti percentuali.
In Italia, dal 2007 al 2014, quando l’occupazione si riduce, il tasso di mancata partecipazione aumenta più di quello di disoccupazione e il divario tra i due cresce da 8,8 a 10,2 punti percentuali. Per contro, quando l’occupazione riprende a crescere – dal primo trimestre del 2015 al primo trimestre del 2017 – il divario si riduce da 10,5 a 9,3 punti percentuali, perché il tasso di mancata partecipazione diminuisce più di quello di disoccupazione: rispettivamente da 23,7 a 21,4 per cento e da 12,3 a 11,6 per cento. Dunque, quando le difficoltà di trovare lavoro crescevano, non pochi italiani, soprattutto donne, giovani e meridionali, smettevano di cercarlo, contribuendo ad attenuare l’aumento del tasso di disoccupazione. Al contrario, quando le opportunità di lavoro tornano sia pur debolmente a crescere, lo scoraggiamento si riduce e non pochi disponibili al lavoro si mettono a cercarlo, attenuando la riduzione del tasso di disoccupazione. E occorre anche aggiungere che sia il programma Garanzia giovani, sia la riforma dei sussidi di disoccupazione, che ha ampliato la platea di chi può riceverli purché partecipi a misure di politica attiva, possono aver indotto alcuni – prima solo disponibili – a varcare la soglia dei centri per l’impiego e delle agenzie del lavoro e a risultare quindi statisticamente disoccupati.
Figura 2 – Tasso di disoccupazione e di mancata partecipazione al lavoro in Italia
Perciò, la scelta di inserire nel Def il tasso di mancata partecipazione al lavoro invece del tasso di disoccupazione, pur fornendo una stima peggiore dello stato attuale del mercato del lavoro italiano, consente di accentuarne l’immagine di progressivo miglioramento.
Ci si può chiedere, però, perché non sia stato scelto il tasso di occupazione, cioè il rapporto tra occupati e popolazione in età da lavoro. È un indicatore non solo più solido – secondo un vecchio motto degli statistici del lavoro, “è più facile stimare la ciambella del buco” -, ma consente anche di mostrare quale occupazione manca in Italia.
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Marco Spampinato
A prescindere dal fatto che convenga o meno al governo aggiungere un indicatore (“pulito” in questo caso), il gap tra partecipazione al mercato del lavoro e tasso di disoccupazione sembra mostrare una diversità di struttura economica tra Italia e altri paesi mediterranei, come Spagna e Grecia. Mi chiedo quanta parte di quel gap possa essere attribuita ad una maggiore entità e ad una diversa natura dei divari regionali interni.
In altre parole, quanto di quel gap è dovuto alla diversità strutturale del Sud rispetto al Nord. Nessuna obiezione ai suoi argomenti, incluso quello che la struttura dell’occupazione sia più informativa di ciò che c’è e di ciò che manca. Ad esempio, se potenziali “high skilled workers” del Sud non hanno alcuna opportunità, perchè la struttura occupazionale della propria macroregione segnala assenza di posizioni lavorative del tipo ricercato nel “luogo d’elezione”, questo cluster di lavoratori potenziali potrebbe impiegare un certo tempo (anni) per capire che la strada migliore per usare la propria formazione è l’emigrazione. Quel tempo, nè riconosciuto come inevitabile nè finanziato – se non con risorse familiari -, non indicherebbe una preferenza per cercare lavoro via relazioni personali/familiari, ma completa assenza di categorie di lavoro per le quali il potenziale umano è stato formato. Questo problema non è di aggiustamento salariale, forma contrattuale, incentivi economici; ma prima di tutto di natura cognitiva, affettiva e motivazionale.