Il ritorno all’abuso della cassa integrazione anche nei casi di chiusura dell’azienda è incoerente con la logica del reddito di cittadinanza. Si spiega solo come un messaggio politico di drastica inversione rispetto al percorso concordato tra Italia e UE.
L’incongruenza tra Cig in deroga e “reddito di cittadinanza”
Se c’è una possibilità di trovare i soldi per far partire qualche cosa che assomigli al progetto di “reddito di cittadinanza”, è che esso assorba ogni altra forma di assistenza: questo, del resto, hanno sempre predicato tutti i grandi teorici del “reddito di base” universale, da James Meade a Philip Van Parijs. Ora, invece, il governo M5s-Lega per un verso non accenna neppure a tagliare qualche fronda nella giungla delle forme di assistenza già in atto (non una parola sul loro assorbimento nel nuovo sussidio), ma addirittura ne riesuma una che negli anni recenti era stata soppressa: la cassa integrazione guadagni per i dipendenti delle imprese che chiudono.
Lo sta facendo con un decreto-legge intitolato alla “semplificazione”, col quale – secondo le scarne informazioni che si traggono dalle notizie di stampa – tra le altre misure, si consente non solo la proroga della Cig per il 2018 e il 2019 nelle aziende con più di cento dipendenti con problemi occupazionali, ma anche il suo intervento in quelle la cui attività è cessata, che era stato fortemente limitato dalla legge Fornero n. 92/2012 e poi drasticamente escluso dal decreto legislativo n. 148/2015. E tutto questo anche “in deroga”, cioè anche in imprese escluse dal campo di applicazione della Cig, quindi senza copertura contributiva, o comunque al di là dei limiti fissati dalla legge. Che cosa la misura abbia a che fare con la “semplificazione” non è chiaro; ma ancor meno chiaro è come si concili con il programma contenuto nel “contratto” fondativo della coalizione M5s-Lega, e in particolare con il progetto del “reddito di cittadinanza”.
La Cig è lo strumento destinato a tenere i lavoratori legati all’impresa nei casi di crisi temporanea, dissuadendoli dal cercar lavoro altrove, per evitare la dispersione delle loro professionalità. Quando invece non c’è alcuna possibilità che l’azienda riapra i battenti, attivare la Cig è evidentemente un non senso. Peggio: significa tirare i lavoratori stessi in un vicolo cieco, intrappolandoli nella loro posizione di disoccupati, perché si finge che il loro rapporto di lavoro esista ancora e li si disincentiva dal cercare una nuova occupazione regolare. Se il ministro credesse davvero nel progetto del “reddito di cittadinanza”, logica vorrebbe che dicesse ai lavoratori delle aziende che chiudono: “non temete, se non basterà il trattamento di disoccupazione, scatterà per voi il reddito di cittadinanza”. Sta di fatto, comunque, che il ritorno all’abuso di questo ammortizzatore sociale nelle imprese che chiudono significa non volersi cimentare col problema vero, quello della transizione dal vecchio lavoro che non c’è più a uno nuovo.
Una provocazione nei confronti dei nostri interlocutori europei
Nei decenni passati questo modo sbagliato di utilizzare la Cig era una sorta di complemento del regime di job property di fatto instaurato con l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nelle imprese di dimensioni medio-grandi: al lavoratore che perdeva il lavoro a causa di una crisi aziendale irreversibile si offriva l’illusione che il rapporto di lavoro restasse in vita (l’intervento della Cig consentiva infatti di evitare i licenziamenti), con la prospettiva di rimanere per anni e anni aggrappati al sussidio, fino al cosiddetto “scivolo” verso il pensionamento di anzianità a 55 o 56 anni. Si ricordano casi funesti di Cig erogata per 10, 15 e persino 20 anni di fila. Nel 2012 per la sola Cig “in deroga”, quindi senza alcuna copertura contributiva, l’Inps ha speso poco meno di 700 milioni, dei quali 56,3 in aziende nelle quali l’intervento era in atto da 5 o da 6 anni, 27,5 in aziende nelle quali durava da più di 7 anni fino a 10, e 5,1 in aziende nelle quali l’erogazione era in corso da più di 10 anni (fonte: Inps, giugno 2013).
Perché, dunque, il governo M5s-Lega è così determinato nella scelta di ripristinare l’abuso della Cig? Probabilmente perché la misura – insieme al ritorno indietro rispetto alla riforma pensionistica del 2011 – assume una valenza politica molto forte di rottura del delicato equilibrio negoziato e coltivato dai governi italiani degli ultimi sette anni con la Commissione UE.
Quando, nel novembre 2011, Mario Monti assunse la carica di presidente del Consiglio, uno dei suoi primi atti fu di incontrare il capo del governo tedesco per ottenere il sostegno della Germania alla manovra italiana per superare la gravissima crisi che il nostro debito pubblico stava attraversando. Angela Merkel gli promise l’appoggio, ma gli fece osservare la difficoltà in cui si trovava nel chiedere ai contribuenti tedeschi di condividere i rischi con gli italiani, finché questi ultimi continuavano a fruire diffusamente dei pensionamenti di anzianità all’età media di 58 anni, e finché continuava l’abuso sistematico della cassa integrazione, erogata per anni e persino decenni ai dipendenti di aziende che non esistevano più. Il superamento di queste due gravi anomalie nella struttura della spesa pubblica italiana, negli anni immediatamente successivi, è stato parte non secondaria di un patto che ha consentito al governo italiano di concordare con la Commissione UE spazi di flessibilità del nostro bilancio pubblico rispetto ai vincoli pattuiti nel 2010, e a Mario Draghi di guidare la Banca centrale europea in una manovra monetaria straordinaria, di cui l’Italia è stata la principale beneficiaria.
La scelta che il governo italiano sta compiendo oggi di smontare la riforma del sistema pensionistico e di ritornare all’abuso della cassa integrazione, anche al costo di sottrarre risorse al “reddito di cittadinanza”, si spiega soltanto con una vera e propria aperta provocazione nei confronti delle istituzioni europee. La premessa di uno scontro duro cercato molto spregiudicatamente e con grande evidenza nei fatti, nonostante le quotidiane dichiarazioni di “non voler mettere in discussione l’appartenenza dell’Italia all’UE”.
Tabella 1 – Mobilità in deroga, importi erogati per competenza 2012 a soggetti che alla data di cessazione dell’attività avevano meno di 60 anni – dati aggiornati al 4 giugno 2013
Fonte: relazione presentata dall’Inps alla Commissione lavoro del Senato del 4 giugno 2013
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Savino
L’abuso della Cassa è l’anticipo del reddito di cittadinanza. Cioè, a chi governa non interessa più risolvere il problema occupazionale in sè, ma spostare quel lavoratore nel limbo dello pseudo-welfare di politiche passive-attive-passive del lavoro. Questo processo calpesta la dignità del lavoratore, rendendolo per sempre schiavo della politica e del consumismo orientato.
giampiero
Non è una critica nominalistica. Il reddito di cittadinanza dovrebbe essere, se fatto seriamente, un sussidio universale. La cassa integrazione per cessazione riguarderà invece solo alcune categorie di lavoratori, quelli assunti dalle grandi imprese con un minimo di 100 dipendenti…
Gianni
Ovviamente la differenza tra cig e mobilità, rispetto alla naspi, e nel calcolo, ben più favorevole ai lavoratori. Rispetto alla reddito di cittadinanza e nella contribuzione che continua figurativamente ad esser versata si da far sperare di raggiungere la pensione, mentre nel reddito di cittadinanza, si spera, non vi dovrebbe essere contribuzione. Dal mio insignificante punto di vista tutto e’ da ricondurre al assurdo ed inspiegabile privilegio di cui gode il lavoro privato che chissà perché vuole godere della avomibilita del lavoro pubblico, di cui si contesta la omessa timbratura del cartellino per la pausa caffè, ma poi si sfrutta lil sistema per vent’anni pensando pure che sia un diritto! Mah…
Sergio Brenna
Ma al di là della denominazione, quale sarebbe la differenza tra erogare sussidi come CIG in deroga o come reddito di cittadinanza? L’importo? La durata? La copertura da parte dell’INPS o dello Stato ? Che devono cercarsi attivamente un altro lavoro? Perchè altrimenti mi pare una critica nominalistica !
Pietro Ichino
Al lavoratore in Cig, finché gode dell’integrazione, è vietato svolgere lavoro retribuito; e il beneficio non è condizionato alla disponibilita per una nuova occupazione: al contrario, è concepito proprio per evitare la dispersione dei dipendenti dell’azienda in crisi temporanea. Al contrario, se per “reddito di cittadinanza” si intende quello previsto nel disegno di legge del M5S, questo beneficio è condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore per la ricerca attiva della nuova occupazione, per le iniziative di formazione necessarie e per le proposte di lavoro congrue che gli vengano presentate dal Centro per l’Impiego, E ben vero che questa condizionalità finora i servizi per l’impiego italiani non sono mai stati in grado di farla valere; ma anche il Governo attuale sostiene di essere in grado di attivarla. E poi è pur sempre diversa la propensione a cercare una nuova occupazione della persona a cui viene detto che il suo rapporto di lavoro è ancora in vita, sia pure quiescente (Cig), e di quella ben consapevole che il rapporto di lavoro è cessato.
Michele
Eh sì, me lo vedo Draghi ai piani nobili della Grossmarkthalle Towers con con tutto il QE pronto, in nervosa attesa….”eh se non mi aboliscono la CIG in deroga come faccio ad iniziare?”
Marco Spampinato
Mi sembra ci sia qualcosa su cui essere completamente d’accordo con il suo articolo. Per intanto, finalmente le sue prime righe restituiscono dignità ad un’idea economica che trovava tra i suoi sostenitori persino Thomas Paine, e di cui si discute (o sperimenta) in più paesi. In Italia c’è una particolare preoccupazione per la voglia di lavorare del disoccupato, del sotto-occupato, del lavoratore irregolare (sfruttato) e del povero, che costituisce un interessante fenomeno culturale in sé. Viceversa, la preoccupazione per la moralità di strumenti di assistenza come la cassa integrazione -anche quando abusati dalle imprese, come risulta da alcune valutazioni – è nulla. C’è stato un lungo periodo di ideologizzazione “pro impresa” che ha seguito l’ideologizzazione “pro lavoratore”. Questa doppia ideologizzazione sembra straordinariamente capace di non curarsi né di che cosa faccia, e come, l’impresa, né di che cosa faccia (e come stia in salute e motivazione -oltre che in quantità di moneta) il lavoratore. Stessa sorte tocca al ‘povero’ o al giovane disoccupato. Sicuramente il reddito di base non è la soluzione unica ad una domanda di lavoro strutturalmente bassa, ma quali scenari apra non è affatto chiaro. Potrebbe essere un modo interessante per favorire il cambiamento della struttura produttiva, quando questa è piena di “imprese” che sopravvivono solo grazie a mille trucchi?[Fondi Strutturali 2007-13 hanno finanziato ammortizzatori in deroga, cfr Opencoesione]
luca05
E’ solo un allungare il brodo: tre anni di cassa integrazione in deroga, poi finita la cassa integrazione altri due anni di Naspi (sussidio ordinario di disoccupazione), finiita la Naspi altri anni di reddito di cittadinanza…..e siccome dopo anni di sussidi assistenzialistici dove si stà sul divano, la gente completamente impigrita e dequalificata, il lavoro non lo ritroverà più e arriverà, di sussidio in sussidio,dritti alla pensione sociale…..