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ARTICOLO 18 TRA TABÙ ED EFFICIENZA

Nel dibattito sull’articolo 18 è utile confrontare il valore sociale della tutela rispetto al costo che comporta. Nonostante sia una forma di garanzia poco efficiente e ancor meno equa, i sindacati e i lavoratori le attribuiscono un alto valore simbolico. D’altra parte, l’analisi della propensione delle imprese a crescere in prossimità della soglia dei 15 dipendenti suggerisce che il costo sia modesto. Questa evidenza mette in dubbio che una riforma del mercato del lavoro debba necessariamente iniziare proprio dalla revisione dell’’articolo 18.

Ancora una volta, l’articolo 18 si presenta come un ostacolo insuperabile a qualunque discussione di riforma del mercato del lavoro. Il dibattito si svolge per lo più sulla base di giudizi di valore, da una parte perché è molto difficile misurare i costi effettivi della norma, dall’altra perché su questo argomento non sembra esserci spazio per posizioni sfumate: o è un elemento di civiltà irrinunciabile (ad esempio per i sindacati) o la fonte di tutti i mali della nostra economia (ad esempio per l’ex ministro Sacconi).

I LIMITI DELL’ARTICOLO 18

Secondo l’ordinamento italiano, il licenziamento non deve essere discriminatorio e deve essere motivato da ragioni oggettive legate alle necessità produttive dell’impresa o soggettive dovute al comportamento del lavoratore. Nel caso non sussistano giustificazioni per il licenziamento, sono previsti due tipi di tutela a seconda della dimensione dell’impresa. La tutela reale (definita nell’’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) copre, in generale, i lavoratori delle imprese private con più di 15 addetti e prevede un risarcimento monetario e la possibilità che il lavoratore scelga tra reintegro sul posto di lavoro e un’ulteriore indennità. La tutela obbligatoria copre i lavoratori delle altre imprese private e prevede esclusivamente un risarcimento monetario che varia da 2,5 a 6 mensilità. Per le imprese private con più di 15 addetti, la normativa disciplina anche i licenziamenti collettivi, ovvero quelli che riguardano almeno 5 dipendenti e sono motivati da necessità legate all’attività produttiva. È prevista una specifica procedura che coinvolge le parti sociali e gli organi amministrativi locali.  È questa (più che l’articolo 18) la normativa che rileva nel caso di crisi aziendali, particolarmente frequenti in questa fase.
L’articolo 18 offre quindi una protezione contro il licenziamento senza giustificato motivo. Da un punto di vista strettamente economico, è un modo inefficiente per proteggere i lavoratori per vari motivi. Il suo campo limitato di applicazione ha anche forti caratteri di iniquità.
In primo luogo, l’indennizzo (o il reintegro) si applica solo nel caso che il giudice ritenga illegittimo il licenziamento. In caso contrario, l’impresa non ha nessun obbligo di corrispondere un’indennità al lavoratore che rimane disoccupato. Nella maggioranza dei paesi industrializzati, l’impresa corrisponde comunque un indennizzo al lavoratore licenziato, anche in caso di giusta causa. In Italia, il lavoratore licenziato per giusta causa non solo non ha accesso a un adeguato sistema automatico di assicurazione contro la disoccupazione, ma non riceve neanche un risarcimento monetario dall’impresa.
Il secondo problema è che l’articolo 18 chiama pesantemente in causa il sistema giudiziario. Anche se i tribunali del lavoro operano con più rapidità di quelli civili, il ricorso alla magistratura è sempre molto oneroso in termini di costi monetari, lunghezza delle procedure, incertezza dei risultati. A riprova di ciò, nel 1998 un’indagine sulle imprese manifatturiere con oltre 50 addetti rivolgeva agli imprenditori la domanda: “Nella vostra percezione, qual è il peso dei seguenti fattori nel determinare i costi potenziali connessi al licenziamento individuale per necessità economica dell’impresa (“giustificato motivo”): a) inadeguatezza dei meccanismi di conciliazione; b) deterioramento nelle relazioni aziendali; c) lunghezza delle procedure legali connesse all’eventuale ricorso del lavoratore; d) incertezza dell’esito delle procedure legali connesse all’eventuale ricorso del lavoratore?”. Solo il 35 per cento delle imprese attribuisce un “abbastanza o molto” alla domanda a) e il 21 per cento alla b). Le percentuali salgono quando entra in ballo il tribunale: 56 per cento alla c) e ben il 61 per cento alla d). Le imprese si lamentano della lunghezza delle procedure legali e, ancora di più, dell’incertezza dell’esito della causa.
La forma di tutela prevista dall’articolo 18 implica tempi lunghi ed esiti incerti, introducendo un costo implicito notevole, che sottrae risorse a eventuali compensazioni dirette fra le parti.
Riducendo la possibilità di riallocare il lavoro, l’articolo 18 abbassa la produttività del sistema economico. Minore produttività implica inevitabilmente salari più bassi, anche se non esistono stime quantitative dell’effetto.
Infine, l’aspetto più iniquo del nostro sistema di regolamentazione del mercato del lavoro è il dualismo, con forti differenze fra protetti e non. I costi di efficienza dell’articolo 18 sono sopportati in gran parte da chi non ne è tutelato (i lavoratori senza contratto a tempo indeterminato e quelli in aziende al di sotto dei 15 dipendenti), sui quali si scarica la domanda di flessibilità delle imprese.
Garantire il diritto a non essere licenziati senza giusta causa non è quindi gratis, tantomeno per i lavoratori.
D’altra parte, non si vive di sola efficienza: si può essere disposti a “pagare” per un diritto che si ritiene importante. La questione fondamentale è quindi capire i termini del trade-off, cioè quanta importanza si attribuisce alla tutela del diritto rispetto al costo che il sistema economici sopporta per garantirlo. Siamo qui nel campo dei valori e non ci sono strumenti di misurazione oggettiva. Ci possiamo solo affidare alle azioni di tutela messe in campo dai diretti interessati. E non ci sono dubbi: l’articolo 18 ha un forte valore simbolico. Per i sindacati ha sempre rappresentato uno dei pochi elementi non negoziabili e si sono sempre opposti senza esitazione persino a discutere dell’argomento. Il comportamento sindacale sembra riflettere un atteggiamento diffuso nei lavoratori, come testimonia ad esempio la manifestazione oceanica organizzata dalla Cgil nel 2002 per protestare contro ogni ipotesi di modifica. I lavoratori, quindi, sembrano disposti a sopportare i costi impliciti di questa forma di tutela.

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QUELLA FATIDICA SOGLIA

Valutare i costi di efficienza per l’impresa è molto difficile. In un lavoro con Roberto Torrini (2008)  abbiamo confrontato il comportamento delle imprese appena sopra e appena sotto la soglia dei 15 dipendenti. L’idea è che imprese con 15 o 16 dipendenti sono fra loro molto simili, a parte il fatto che quelle sopra la soglia sono soggette all’articolo 18. Eventuali diversità nei comportamenti possono essere usate per “misurare” l’importanza dell’articolo 18. Al solito, i risulti vanno presi cum grano salis. L’analisi si basa infatti su dati fermi  al 1998. Nel frattempo, ci sono stati cambiamenti importanti nel sistema economico (ma non nella normativa). Inoltre, è possibile l’effetto soglia catturi solo una parte degli effetti complessivi dell’articolo 18. Ciò detto, evidenze alternative non ci sono.

Come visto sopra, la legge prevede una netta discontinuità nei costi di un licenziamento giudicato illegittimo per le imprese con più di 15 dipendenti.  Questo fatto viene spesso indicato come una delle cause del nanismo delle imprese italiane. Se così fosse, ci dovremmo aspettare un addensamento di imprese appena sotto la soglia dei 15 dipendenti e una forte caduta sopra di essa. La figura sotto riporta il numero di imprese per dipendenti per le classi dimensionali da 5 a 25 (1). Il numero decresce regolarmente, con al più una piccola caduta a 16 dipendenti. Non c’è ammassamento sotto la soglia.

Abbiamo anche considerato la propensione a crescere delle imprese. Se passare la soglia dei 15 dipendenti è molto costoso in quanto si diventa soggetti all’articolo 18, ci dovremmo aspettare che le imprese siano molto restie a farlo. La figura sotto riporta la quota di imprese che accrescono l’occupazione da un anno all’altro. La quota cresce regolarmente con la dimensione, in quanto più grande è l’impresa e maggiore è la probabilità di accrescere l’occupazione (e, simmetricamente, di decrescerla). Si vede molto chiaramente un calo in prossimità della soglia: le imprese sono più restie a crescere quando ciò comporta il passaggio di soglia. Ma la caduta è modesta: la probabilità di crescere scende dal 35% che si verificherebbe senza l’effetto soglia al 33 per cento  (abbiamo riscontrato riduzioni di entità simile in corrispondenza delle soglie che fanno scattare l’obbligo di assunzione di categorie protette, una tutela che certo non riceve l’attenzione dell’articolo 18) (2). Utilizzando tecniche statistiche, abbiamo anche calcolato che la dimensione media delle imprese italiane crescerebbe dello 0,5 per cento rimuovendo l’effetto soglia. Siamo ben lontani dal raddoppio necessario per arrivare ai livelli degli altri paesi industrializzati.

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In conclusione, i costi aggiuntivi derivanti dal superamento della soglia dei 15 dipendenti non sono ritenuti così onerosi dalle imprese da far rinunciare massicciamente a opportunità di crescita. Il trade off è quindi costi sociali alti, dato l’alto valore simbolico attribuito all’articolo 18 da parte dei lavoratori e benefici di efficienza incerti, probabilmente modesti. Bisogna domandarsi se il gioco vale la candela, o se non si possa agire su altri aspetti meno controversi per rendere più efficiente il nostro mercato del lavoro. Gli ambiti di intervento non mancano. C’è spazio per migliorare la normativa sui licenziamenti collettivi, che, secondo gli indicatori Ocse, potrebbe essere semplificata per assicurare una gestione più efficiente degli stati di crisi. Si può anche agire sulla flessibilità “interna”, cioè di gestione della forza lavoro, su cui si sono fatti progressi sotto la spinta della vicenda Fiat (nella quale, tra l’altro, la questione licenziamenti non è mai stata sollevata) ma su cui si può ancora migliorare. E serve mettere ordine nel sistema di ammortizzatori sociali. A quel punto, chissà, potrebbe essere possibile discutere di articolo 18 senza dover salire sulle barricate.

(1) La figura è tratta da Schivardi e Torrini “Identifying the effects of firing restrictions through size-contingent differences in regulation”, Labour Economics 15 (2008) 482–511.
(2) Conclusioni simili sono raggiunte da Garibaldi, P., Pacelli, L., Borgarello, A., 2004, “Employment protection legislation and the size of firms”, Giornale degli economisti e annali di economia 63, 33–68 . Nel nostro lavoro, inoltre, abbiamo riscontrato riduzioni di entità simile in corrispondenza delle soglie che fanno scattare l’obbligo di assunzione di categorie protette.

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24 commenti

  1. roberta cantaluppi

    Sono sicuramente tra quei lavoratori su cui si spalma il costo della tutela e non tra quelli che della tutela si possono avvalere, ma sento anche mio quel forte valore simbolico di cui si parla nell’interessantissimo pezzo di Fabiano Schivardi. Complimenti per l’analisi lucida e per le prospettive alternative ipotizzate.

  2. fabrizio

    Le più alte carche giuridiche hanno definito lo statuto dei lavoratori un esempio di “grande valore di civiltà giuridica”. Allo stesso modo i principi costituzionali assegnano alla impresa un alto valore sociale degno di tutele. Qualcuno è in grado di spiegare perchè l’articolo 18 è un impedimento allo sviluppo dell’impresa?. Invertendo la domanda,perchè poter licenziare senza un motivo giustificativo di difficoltà aziendale crea più sviluppo? Quali possono essere i motivi di licenziamento senza giustificato motivo e che contemporaneamente sviluppano l’impresa?. Ma allora dopo lo sviluppo mi riassumi con la professionalità acquisita?.Non tutta la verità viene detta. Con la scarsa o nulla moralità in giro l’uso e getta è la normalità.

  3. Piero A. Bianco

    Il mancato effetto soglia può però essere spiegato con le strategie messe in atto dagli imprenditori per oscillare sulla soglia dei 15 dipendenti senza superarla formalmente, cioè attraverso il ricorso ai lavoratori temporanei, che sono conteggiati nelle statistiche come dipendenti, ma che permettono di rientrare facilmente sotto la soglia dei 15 in caso di necessità. Altra strategia, legata anche alla difficoltà a far crescere fisicamente lo stabilimento, è quella di aprire un nuovo stabilimento, se non addirittura una nuova ragione sociale, e ripartire così da zero nel conteggio dei dipendenti. Se l’autore avesse valutato queste strategie alternative, sarebbe stato più cauto nel dire nettamente che “non esiste un effetto soglia”. Gli imprenditori tengono conto anche della prossimità alla pensione di alcuni lavoratori, in modo di avere la sicurezza che in un determinato lasso di tempo si può rientrare al di sotto della soglia. Eliminare l’art.18 permetterebbe all’imprenditore di focalizzarsi sullo sviluppo aziendale, e non sul quello di ridurre al minimo i laccioli che lo vincolano.

  4. HK

    Il dibattito sull’articolo 18 è di gran rilevanza per il futuro dell’Italia ecco una serie di riflessioni e domande dal parziale punto di vista di un imprenditore. L’Art. 18 è sacrosanto nella parte che tutela contro abusi contro licenziamenti per limitare i diritti sindacali. Ma in Italia, a differenza ad esempio della incivile Austria e Germania,…) è stato esteso a qualunque ragione. Il limite a 15 forza gli imprenditori a limitare la crescita delle aziende a dimensioni poco efficaci. Infatti un’azienda con funzioni commerciali, produzione, sviluppo e amministrazione dovrebbe avere quattro dirigenti/ quadri con 8 o 9 collaboratori ciascuno. Ovvero circa 50 persone. I dipendenti sono liberi di lasciare l’azienda quando vogliono. Perché non vale la stessa cosa per l’impresa (altra inciviltà dell’Austria)? Perché l’azienda deve tenersi persone improduttive o infedeli o disfunzionali? Infine se gli imprenditori non sono incentivati chi allora creerà i posti di lavoro? Lo stato?

  5. Federico Grillo Pasquarelli

    L’art. 18 non è solo un simbolo, è molto di più: è l’unico, o almeno il più efficace, deterrente che assicura il rispetto dei diritti dei lavoratori nel corso del rapporto di lavoro, liberandoli dal ricatto del licenziamento come misura di ritorsione del datore di lavoro. Qual è il lavoratore che avrebbe la forza di reagire – beninteso, in sede sindacale o giudiziaria – contro, ad es., un trasferimento illegittimo, un demansionamento, una condotta di mobbing, se sapesse che il datore di lavoro può liberarsi di lui licenziandolo, anche illegittimamente, e pagando tutt’al più una modesta indennità (da 2,5 a 6 mensilità di retribuzione, secondo l’attuale regime per le aziende sotto i 15 dipendenti)? E’ ovvio che la maggioranza dei lavoratori, per conservare il posto di lavoro, preferirebbe tacere: così i datori di lavoro più spregiudicati (non tutti, per carità, ma certamente non pochi) potrebbero calpestare i diritti dei lavoratori sapendo di non avere nulla da perdere. E non si dica che con l’art. 18 le aziende sono costrette a tenersi dipendenti infedeli, scorretti, violenti: per quelli c’è il licenziamento disciplinare, legittimo alla sola condizione che le accuse siano fondate.

  6. Enrico Bertolotti

    Avendo lavorato in azienda quale manager e occupandomi di consulenza mi pare di poter cogliere alcuni aspetti che ritengo opportuno evidenziare:
    > Il vincolo esiste e le strategie per superarlo ci sono e sono messe in atto anche per evitare una presenza sindacale inutile e, spesso, non desiderata dagli stessi lavoratori;
    > tutelare il lavoratore “a prescindere”, come di fatto avviene, blocca l’impresa nei suoi progetti di sviluppo, che devono essere basati sull’efficienza dell’intero sistema. Un lavoratore inefficiente è inamovibile e produce effetti disastrosi in un contesto di piccole dimensioni;
    > investire sui lavoratori in formazione e accrescimento di competenze è necessario; sarebbe necessario poter avere la certezza del ritorno dell’investimento: il lavoratore può tranquillamente mettersi sul mercato e andarsene alla concorrenza o altrove (non è assolutamente efficace il vincolo del preavviso: non puoi obbligare alla collaborazione una persona che ha già deciso di andarsene);
    > si dovrebbero istituire forme contrattuali simili a quelle elaborate dal calcio: clausole rescissorie che obblighino a un risarcimento in caso di abbandono prima di un tempo predeterminato.

  7. SAVINO

    Si scrive abolizione dell’ articolo 18, ma si legge esigenza indifferibile di produttività e merito. Ci sarà più lavoro per i giovani se ci sarà più flessibilità in uscita in relazione a quei due parametri. Marchionne docet. Il gap di competitività si colmerà solo se si faranno accedere in tutti i contesti lavorativi le migliori professionalità a discapito delle peggiori e delle più viziate. Su questo punto, secondo me, non ci deve essere spazio al pietismo, ma bisogna saper cogliere fior da fiore.

  8. Domenico Stefanelli

    Il problema del superamento della soglia dei 15 dipendenti ha anche un altra ragione puramente economica: per una buona parte delle aziende, il superamento significa perdere la qualità di artigiano, il che significa essere tagliati fuori dai contributi e dalle agevolazioni previste dalla legge, come ad esempio la 949/52, la cosiddetta Legge Artigiancassa. Leggi come questa, prevedono sostanziosi contributi il cui accesso è precluso alle aziende non artigiane. Per l’impresa, a questo punto, il licenziamento di un dipendente diventa un problema secondario e un buon alibi. Diventa al limite un secondo obiettivo. Essere artigiani significa anche garantirsi la qualifica di creditore privilegiato, con i suoi vantaggi. Ecco che si inserisce una ulteriore chiave di lettura del problema relativo all’articolo 18 in un tessuto economico come quello italiano, dove la presenza di piccole imprese di produzione di beni e servizi è superiore a qualsiasi altro paese europeo.

  9. martino

    Il nanismo delle nostre imprese non dipende solo dalla soglia dell’articolo 18, ma da tutta una serie di normative ( ed interpretazioni delle stesse) che “proteggono” le piccole imprese, alleggerendole da obblighi vari così non incentivando la crescita. Per me l’articolo 18 è sbagliato nel concetto di giusta causa: giusta causa è solo un atto grave di indisciplina. Per di più questa gravità è subordinata al giudizio, spesso un po’ difficile da condividere, di un giudice. Giusta causa dovrebbe essere anche impreparazione, scarse capacità o poca voglia di fare. Io temo che l’articolo 18 tenda ad appiattire verso il basso le competenze, la dinamicità del lavoratore, ma anche il suo reddito. Banalmente, dovrebbe esserci un rapporto di consequenzialità: se oggi rendi 10, pretendi di essere pagato 10. Ma se domani rendi 6, anche l’imprenditore ti deve poter pagare 6. E se rendi 5, cioè il tuo rendimento è insufficiente, dovrebbe poterti licenziare! Se così fosse, il dipendente dovrebbe essere stimolato ad aggiornarsi e lavorare meglio, con lo scopo di guadagnare di conseguenza. L’impresa dovrebbe sentirsi più sicura nel corrispondere un giusto compenso!

  10. HK

    Spiace che un argomento così importante per i lavoratori e le imprese venga trattato in modo così impreciso anche nei commenti su un blog di qualità come la Voce. L’affermazione “c’è il licenziamento disciplinare” è palesemente infondata. Infiniti sono i casi di chi, anche sorpreso in fragranza di reato, viene mantenuto nel posto di lavoro, stipendio, tredicesima, malattia, infortunio,… almeno fino a giudizio penale definitivo, quindi per anni. Molti lavoratori colleghi, manager ed imprenditori vivono ogni giorno, per lunghe ore il dramma di dover vivere a fianco di una non irrilevante minoranza di fannulloni, disonesti, invidiosi colleghi o collaboratori che ricattano e distruggono gli sforzi, i sacrifici, il reddito e tolgono la gioia del lavoro. Francamente sembra manchi in Italia la capacità di un normale ed onesto dibattito. Questa differenza nel confronto con altri stati dove ci si trattiene solitamente dal fare affermazioni non vere in pubblico, spiega, forse, molto dell’arretramento dell’Italia.

  11. salvatore acocella

    E’ oramai solo un simbolo. Lo si vuole eliminare perché gli imprenditori- l’unica categoria che conta in questa economia neo-liberista -sono i “cosiddetti” imprenditori. Chi – non imprenditore, ma collaboratore dell’imprenditore-fa lavorare il cervello per fare ricerca, i cui risultati possono essere sfruttati dall’imprenditore e “brevettati” non contano: sono usa e getta!. L’unica ” pena” è che coloro che “prestano opera” non si uniscono mai per “non prestarla” tutti insieme – ad es. per un mese: allora l’articolo 18 non avrenbbe spazio, perché gli imprenditori dovrebbero “pregare” chi per essi lavora!.

  12. marco

    Complimenti per l’articolo, molto interessante aiuta veramente a capire le possibili sfaccettature del problema e l’inadeguatezza di tutto un sistema sindacale che con la difesa dei simboli ha mandato al macello un’indifesa generazione di precari

  13. giuseppe corbisiero

    L’analisi economica non fa una piega. ma è nell’impostazione dell’articolo che qualcosa non quadra. Ci si chiede se la perdita in termini di efficienza è tale da più che compensare il “valore etico” di una norma, la cui iniquità è pur ben spiegata e argomentata. ecco perché l’impostazione che suggerirei per un articolo sul tema sarebbe più o meno la seguente: – dato che l’art. 18 di certo non avvantaggia in termini di efficienza il sistema economico; – dato che presenta evidenti tratti di iniquità, tanto più gravi se si considera che l’attuale emergenza del mercato del lavoro non consiste nella scarsa tutela dei lavoratori a tempo indeterminato ma nella scarsa tutela e attenzione a tutte le altre categorie di lavoratori e potenziali tali; è giusto che una nuova normativa in materia debba conservare la norma semplicemente perché i maggiori sindacati nazionali ne hanno fatto una bandiera? (e la risposta, ovviamente, sarebbe no in qualsiasi contesto, tranne forse quello italiano)

  14. Anonimo

    Come sempre nei momenti di scarsa fiducia nei mercati finanziari (vedi bear-market, anche settoriale) si richiede una maggiore flessibilità del lavoro non tenendo conto che la migliore “impresa” è quella di mantenere intatti (o quasi) i posti di lavoro, soprattutto nei momenti di elevata produttività marginale del capitale (vedi tecniche capital-intensive), che sono di aiuto a parità di salario, per effetto delle dinamiche competitive, nella determinazione degli scambi nel mercato del lavoro in termini di maggiore liquidità (cash-flow).

  15. Carlo Lucchesi

    “Perché un imprenditore sente il bisogno di licenziare un lavoratore per assumerne un altro? O perché lo ritiene poco produttivo, o perché considera quel lavoratore “scomodo” per gli interessi dell’azienda. Nel primo caso licenzierebbe nell’area dei lavoratori più anziani a bassa professionalità lasciando che sia lo Stato ad occuparsene. Splendido! Seconda fattispecie: chi sono i lavoratori “scomodi”? Non i “lavativi” o gli indisciplinati cronici per i quali sono legittimi provvedimenti disciplinari fino al licenziamento. Sono quelli che “rompono le scatole”. Eliminare l’art. 18 ha un solo effetto: isolare ciascun lavoratore in un rapporto personale con l’impresa rendendolo del tutto subalterno, perché soltanto una coalizione di interessi con gli altri lavoratori può affrancarlo, almeno parzialmente, da una condizione di minorità. Le ideologie non c’entrano niente, a meno che non si chiami ideologia la possibilità per i lavoratori di esercitare il diritto a organizzarsi. Questo è il vero oggetto del contendere. Ai liberal va ricordato, senza retorica, che si tratta delle fondamenta di una società libera, e pure della nostra Costituzione.”

  16. giulioeffe

    E’ proprio sicuro che: 1) la causa della bassa produttività e dei bassi salari sia dovuta all’art. 18 e ai sindacati; 2) l’art. 18 è solo un valore simbolico? Sul punto 1): la stessa opinione esprimono Alesina e Giavazzi (Corsera, 2.1.12), salvo a contraddirsi clamorosamente subito dopo, richiamando una serio studio di Banca Italia e Università di Sassari che dimostra, al contrario, che la produttività è aumentata nelle aziende che hanno investito in innovazione e internazionalizzazione e diminuita solo in quelle che detto investimento non hanno fatto. Il che vuol dire che la produttività non dipende affatto dai lavoratori, sindacati, art. 18 e sciocchezze del genere. Sul punto 1): difendere l’art. 18 significa difendere diritti civili e sociali garantiti dalla Costituzione, i quali rappresentano le fondamenta della società e dello stato di diritto -non mere, vuote, formule simboliche- e in quanto tali, come ribadito dalla Corte Costituzionale, sono irrevocabili e non riducibili. Come ha detto qualcuno, bisogna che, con buona pace, si prenda atto che il diritto esiste e si deve rispettarlo!

  17. Giovanni

    Questo art.18, per quanto ne so, ha due effetti principali: che, in caso di ricorsi, sia un giudice del lavoro a stabilire se il licenziamento sia legittimo; in secondo luogo, serve a stabilire l’entità di eventuali indennità o il reintegro (che può anche essere giusto). Occorrerebbe che tutti (sindacati governo imprese) la smettessero di parlare di simboli e iniziassero con i contenuti Togliamo l’art 18? Bene, però in cambio l’imprenditore paga il sussidio di disoccupazione e la maternità (con formule che impediscano l’elusione, come un contributo obbligatorio per chiunque assuma dipendenti di qualsiasi sesso, che poi vadano in maternità o meno l’ammontare non cambia). Il giudice del lavoro non va bene? E allora ci dicano quale sarebbe una figura più “efficiente”. Bisogna allargare lo spettro delle possibilità per cui è giusto licenziare? E ci dicano dove mettere l’asticella. Ricordiamoci però che ogni fattispecie qui inserita sarebbe un licenziamento “a gratis”, quindi pensiamo bene a cosa far entrare nella categoria “rischio d’impresa”(da far pagare all’azionista/imprenditore). Certo, maggiore il il costo di un lavoratore minore l’incentivo, ma fino a che punto?

  18. PDC

    Licenziabilità dei dipendenti da parte dei loro dirigenti, licenziabilità dei dirigenti, previo voto a maggioranza qualificata dei dipendenti. Si creerebbe una ENORME efficienza che tutto il mondo potrebbe invidiarci.

  19. Domenico

    Colgo l’occasione della discussione sull’articolo 18 per portare l’attenzione sulle immediate ripercussioni che potrebbe avere una eventuale sua abrogazione. Da quanto letto, è evidente che intraprendere un percorso virtuoso di rigenerazione del sistema economico italiano non passa attraverso l’abolizione di diritti, che per quanto abbiano un costo, costituiscono il caposaldo su cui si fonda il rapporto sociale. Paradossalmente, anche i sistemi democratici hanno dei costi, ma a nessuno verrebbe in mente di abolire le regole democratiche perchè troppo onerose alla collettività. Detto ciò, ho il fondato sospetto che la priorità di un’eliminazione dell’articolo 18 sia una pressante esigenza di una certa classe politico-imprenditoriale del Paese, in quanto tradizionalmente fondata sul meccanismo clientelare. Tale meccanismo garantisce serbatoi elettorali che sono facilmente controllabili e gestibili in epoca elettorale e che fondano il presupposto sulla completa soggezione del lavoratore che non dispone di altra risorse se non il proprio lavoro (quindi ricattabile). Gli esiti elettorali saranno molto più controllabili e permarranno nelle varie istituzioni rappresentanti indegni.Il rapporto perverso ed insano tra politica ed imprenditoria, così, permarrà immutato e potrà continuare a svilupparsi con gli appalti che serviranno a compensare i servigi ricevuti in periodo elettorale e, quindi, a dispiegare le nefaste conseguenze sul Paese con opere interminabili, dispendiose, improduttive e molto spesso fonti di guadagno indebito, oltre che di ulteriore accrescimento del debito del Paese. Ancora oggi, una percentuale notevole tra gli italiani risulta ricattabile in periodo elettorale (centro-sud Italia) e il sistema, tuttora, non permette di scegliere i propri rappresentanti. Se da una parte, dunque, sono forti le pressioni (in particolare nel contesto europeo) per una riforma del sistema elettorale che renda la rappresentanza effettivamente democratica, dall’altra si sta tentando di immunizzare i possibili effetti dirompenti, che avrebbe una reale scelta democratica, privando le fascie più deboli della popolazione di quei diritti che tutelano anche l’indipendenza nella scelta elettorale. Percui saranno obbligati, pena la perdita del lavoro, ad eleggere i medesimi personaggi che ci stanno oggi rappresentando. Infine, nulla di nuovo all’orizzonte.

  20. Francesco

    Stando a quello che sento auspicare in privato dalle persone legate al mondo dell’imprenditoria, che non sono precisamente dei pezzi di pane, in genere,ebbene, se fossero loro a decidere tutto, e già decidono moltissime cose e il destino di un sacco di gente, oggi staremmo tutti recitando la versione italica di “La capanna dello zio Tom”, “Radici”, “Via col vento” e così via, tutti nel Sud degli Stati Uniti prima di Lincoln.

  21. michele

    si spieghi dalle colonne di questo sito la differenza fra licenziamento individuale e collettivo, il fatto che articolo 18 non significa inamovibilità o impossibilità di licenziare per motivi economici. per queste cose già esiste il licenziamento collettivo (almeno persone in 4 mesi). Ciò che non sta bene alle imprese è che fortemente procedimentalizzato, in modo che non possono scegliere le persone da licenziare. l’imprenditore vuole deiventare un padrone che è libero di decidere chi assumere, lasciare a casa, trasferire di sede, senza una controparte nel sindacato o nella magistratura del lavoro. una gestione autoreferenziale di una elite di imprenditori e dirigenti, antidemocratica, senza contrappesi di nessun tipo, in controtendenza al modello duale che vince all’estero, che è inconcepibile se le imprese vogliono internazionalizzarsi

  22. Giovanni

    Più flessibilità in uscita, in modo che le imprese possano liberarsi più facilmente dei lavoratori anziani, meno produttivi specie in mansioni operaie. Impossibilità di riscuotere la pensione prima dei 66/67 anni. Bella accoppiata, complimenti alla Fornero! Accidenti, ho usato l’articolo, mi spiace di dare un dispiacere al ministro cui questa cosa sta tanto a cuore.

  23. Giulio

    Premessa: L’obiettivo della riforma del lavoro, e soprattutto dell’articolo 18, è quella di rendere il mercato del lavoro più flessibile (in uscita..), quindi di permettere agli imprenditori di ridurre il costo del lavoro in momenti difficili. Tale possibilità renderebbe l’Italia più appetibile per gli investitori/imprenditori stranieri che non vogliano “incatenarsi” al mercato italiano. Proposta: se il costo del lavoro deve diminuire nei momenti di crisi e se bisogna tutelare il lavoro e le loro famiglie, le aziende dovrebbero poter diminuire i salari (con adeguati sistemi di controllo/garanzia). E’ meglio sacrificare una parte che tutto lo stipendio. Oltre una determinata perdita di bilancio (x% del capitale sociale) certificata da una società di revisione, l’imprenditore dovrebbe poter diminuire lo stipendio dei propri dipendenti (con meccanismi di garanzia che evitino discriminazioni) Questo sistema di stipendio variabile, permetterebbe poi di favorire/incentivare anche la flessibilità in uscita ma dal lato dell’offerta di lavoro, ovvero del dipendente stesso che vedendosi ridurre lo stipendio sarebbe incentivato a trovarsi un altro lavoro ai livelli di reddito precedent

  24. Cambria

    Mi ha colpito la sua affermazione “tutelare il lavoratore “a prescindere”, come di fatto avviene, blocca l’impresa nei suoi progetti di sviluppo, che devono essere basati sull’efficienza dell’intero sistema”. Come Lei ben sa l’efficienza dell’intero sistema dipende solo in minima parte dalla “tutela a prescindere”, perchè marginale, generalmente, è la casistica che riguarda tale tipo di “protezione” nell’ambito della popolazione lavorativa (almeno per qule che concerne il settore privato, non ho conoscenze dirette di quello pubblico). Sarebbe quindi auspicabile che le energie di tutti, imprenditori, sindacati, politici ed anche cittadini, fossero rivolte alle VERE cause dell’inefficienza del sistema produttivo: mancanza di infrastrutture degne di un paese civile, e fra queste metterei il sistema di trasporti, metropolitani e non, che penalizzano fortemente la mobilità giornaliera casa-lavoro, mancanza di strutture assistenziali famigliari, aggravi di costi dovuti a gestioni clientelari, insufficienza di crediti alle imprese e così via.. In questi fattori è il vero svantaggio competitivo delle nostre imprese, non nell’art.18!

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