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DISCRIMINAZIONE E CULTURA DEL MERITO

La Corte di Giustizia Europea definisce discriminatorio il comportamento di un’impresa belga che dichiara di non voler assumere extracomunitari. Sentenza ineccepibile sia sul piano del diritto sia su quello dell’efficienza economica. Talvolta, tuttavia, le politiche anti-discriminazione vanno in rotta di collisione con la cultura del merito. Il caso delle quote rosa.

L’11 luglio scorso la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha dichiarato discriminatorie le politiche di assunzione di una ditta belga. Un dirigente dell’impresa, che installa saracinesche, ha dichiarato che la sua ditta non assume extra-comunitari perchè i suoi clienti non vorrebbero dar loro accesso ad abitazioni e locali.
La sentenza è stata controversa perchè un tribunale belga aveva originariamente dato ragione all’impresa, e i governi inglese e irlandese avevano sostenuto la posizione del tribunale belga. L’argomento della difesa era che non vi è parte lesa perchè non c’era alcun extra-comunitario che avesse chiesto un lavoro alla ditta e non lo avesse ricevuto. Senza parte lesa, non c’è danno. Le dichiarazioni del direttore sarebbero dunque un legittimo esercizio della libertà di parola.
Superficialmente, l’argomento della difesa appare sensato. Ma, come correttamente osserva la Corte di Giustizia, la parte lesa c’è. Sono parti lese tutti i lavoratori extracomunitari che non hanno fatto domanda di lavoro alla ditta. Una volta individuata la parte lesa, le dichiarazioni del direttore della ditta provano un intento discriminatorio. A quel punto, secondo il principio legislativo, l’onere di provare che non ci fu discriminazione viene traslato sulla ditta.
Il principio generale sancito in questa sentenza è ammirevole: chi è in posizioni di autorità non deve rilasciare dichiarazioni che pregiudichino l’esercizio dell’autorità a favore di una classe di individui. Tali dichiarazioni scoraggiano chi, per quanto meritevole, appartiene alla classe “sbagliata” di individui. Questo è iniquo. Inoltre, è potenzialmente inefficiente, poichè una cultura in cui queste attitudini sono diffuse può ridurre gli incentivi di tale classe a investire in capitale umano (1). In terzo luogo, dichiarazioni di questo tipo contribuiscono a erodere la fede nel principio meritocratico in tutti gli ambiti, non solo nel settore delle saracinesche.

NESSUNO È PERFETTO

Questa sentenza suggerisce delle riflessioni di più ampio respiro, ricordando una dichiarazione un po’ diversa. Quando John Roberts, l’attuale presidente della Suprema Corte degli Stati Uniti, fu nominato dal Presidente Bush, la sua futura collega giudice Sandra Day O’Connor commentò "He’s good in every way, except he’s not a woman." (“È ottimo sotto tutti gli aspetti eccetto che non è una donna”). Questa dichiarazione non è esattamente uguale a quella del dirigente belga, in particolare perchè esprime un rimpianto invece che un piano per il futuro. Nondimeno, essa ha un effetto simile. L’intenzione, lodevole, è di incoraggiare gruppi che appaiono insufficientemente rappresentati in qualche ambito. Il risultato, però, è quello di suggerire (nemmeno tanto velatamente) che il dichiarante userà il suo potere a vantaggio del particolare gruppo in questione, e quindi che l’appartenenza a un gruppo conta.

QUOTE ROSA SÌ O NO?

Purtroppo dichiarazioni di questo tipo non sono inusuali nella società americana, che infatti è percorsa da faglie che separano gruppi di influenza e di pressione. Queste faglie sono rinforzate da dichiarazioni come quella del giudice O’Connor. Cosa dire della situazione italiana?
In Italia questa retorica soft-militante è meno diffusa, per fortuna. Un buon esempio è fornito dal dibattito sulle “quote rosa.” Trovo lodevole la posizione di Emma Bonino, che in merito alle quote rosa dichiarò: “Guardi, sono accettabili in Afghanistan, in Marocco. Non in Italia […] A me sembra che noi donne dovremmo ritenere e cercare di valere ben oltre la semplice appartenenza a un genere.”(2). L’attuale ministro delle pari opportunità, Mara Carfagna, è sulla stessa linea (3). Brave Bonino e Carfagna, per avere difeso il criterio del merito contro quello dell’appartenenza a un gruppo. Essendo già un paese generalmente meno meritocratico degli Stati Uniti, e patria della lottizzazione, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di ulteriori quote. Fa piacere che, almeno in questo ambito verbale, la nostra società e il nostro sistema politico si dimostrino più sensibili al merito rispetto ad altri paesi.

(1) Si veda l’articolo di Steven Coate e Glenn Loury, “Will affirmative action policies eliminate negative stereotypes?” American Economic Review 1993,  83 pp. 1220–1240.
(2) Antonella Rampino, “BONINO: QUOTE ROSA? RIDICOLE” La Stampa, 15 Ottobre 2005.
(3) Fabrizio Roncone, “Quote rosa, lite Carfagna-Prestigiacomo.” Corriere della Sera, 31 Maggio 2006.

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15 commenti

  1. Ilya Kulyatin

    Mi potrebbe spiegare cosa avrebbero in comune la discriminazione del caso belga e le quote rosa? Hanno per caso fissato una quota per gli extracomunitari da assumere? Direi di no. Quindi non sono obbligati ad assumerli per forza, anche se non sono bravi. E se lo sono, si tratta di discriminazione. Su questo sarebbe d’accordo qualsiasi persona con un po’ di buon senso. Non lo dico perche’ sono un extracomunitario ma perche’ penso davvero che il Suo confronto non sia giusto.

  2. franco bortolotti

    L’autore non indica, in alternativa alle quote rosa, o a qualsiasi altra misura anti-discriminazione di quel tipo, come affrontare il problema della "discriminazione statistica". L’imprenditore che ha avuto esperienze negative assumendo in passato donne, o magrebini, o handicappati, o meridionali o chi altro (o anche avendone sentito parlare da terzi di cui si fida magari erroneamente), non disponendo di risorse atte a selezionare le singole persone che pure in quei gruppi esistono (lui stesso potrebbe esserne convinto), troverà conveniente "fare di tutta l’erba un fascio" e selezionare le persone da assumere solo all’interno di altri gruppi di popolazione. E’ un comportamento razionale che finisce per confermare l’assunto, magari errato: gli appartenenti ai gruppi discriminati non svilupperanno competenze ed esperienza. Le "quote rosa" -o simili- altro non fanno che ristabilire la verità del mercato, a meno che si pensi che le categorie discriminate siano veramente irrimediabilmente inferiori sul lavoro.

  3. Elio PENNISI

    Mi sembra strano che la Corte di giustizia Europea abbia sentenziato con tale motivazione; con quale numero di sentenza? I fatti così come espressi nell’articolo infliggerebbero un ulteriore colpo alla credibilità della U.E. come Istituto. Purtroppo è diffusa la confusione che regna in Europa tra "cittadino dell’U.E." ed "Extracomunitario", e ancora "globalizzazione" mescolando indiscriminatamente E.U. ed extra E.U. E` assolutamente legittimo per uno Stato (e qui assimilo E.U. ad uno Stato), parlando di assunzioni, preferire prioritariamente i propri cittadini e, se la competenza non si riesce a trovare – solo allora – si ricorra a manodopera extracomunitaria. Tale concetto è assimilato in – penso – tutte le economie evolute!

  4. mirco

    Vorrei chiedere all’autore se un dirigente pubblico, ad esempio, apertamente gay, ad esempio, in italia avrebbe possibilità di essere scelto da un sindaco, ad esempio, come la Binetti, Casini, Borghezio, Gentilini, ecc. o anche Vendola magari per le ragioni opposte. Mi sa che la corte ha ragione da vendere.

  5. Chiara Bedetti

    Nel 1991 l’Italia introduce le azioni positive. Considerando le donne come gruppo sociale che negli anni ha accumulato una condizione di svantaggio nel mercato del lavoro, si legittimano interventi volti a riportare una situazione di equilibrio, cercando di garantire loro condizioni di pari opportunità con gli uomini. Non si tratta di preferire arbitrariamente gli appartenenti ad un certo gruppo sociale – le donne, ma potrebbero essere gli extracomunitari o altro – bensì di impedire che gli stessi vengano arbitrariamente esclusi sulla base di un (pre)giudizio che ha ben poco di meritocratico! Le cd “quote rosa” rientrano nel novero delle azioni positive e come tali si fondano sul presupposto di cui sopra. Siccome il principio meritocratico non viene applicato comunque, perché l’agire di pregiudizi e stereotipi porta a scelte che penalizzano sistematicamente gli appartenenti a un certo gruppo, la legge attua una sorta di compensazione. Le azioni positive, e le "quote rosa" in Italia non trovano ampio consenso. Sarà per difendere la cultura del merito? Ne dubito. In compenso l’occupazione femminile registra pessime performance, così come la presenza di donne in Parlamento.

  6. Davide Fugazza

    Egregio professore, forse è solo una mia impressione, ma mi sembra che nel dibattito contemporaneo la questione delle "quote rosa" o di altro colore non si esaurisca nell’antinomia "merito" "tutela del panda". Salvo ritenere che il problema non esiste e che è destinato a risolversi autonomamente con un processo, per cosi’ dire, di "selezione naturale", per cui i migliori tenderanno "naturalmente" a emergere (ed è quello a cui tutti abbiamo pensato leggendo il suo articolo: la Bonino è brava), la differenza di accesso al "potere" in senso lato è una realtà, come lei scrive. Quello che vorrei chiederle è: esistono studi che documentino l’efficacia (o l’inefficacia) delle misure "protezioniste" e l’impatto economico/sociale? Questi famigerati paesi scandinavi si saranno ben posti la domanda, o insistono nelle quote rosa giusto per il piacere? A mio modesto avviso sarebbe un buon punto di partenza per una riflessione che voglia andare un po’ più lontano della denuncia di un paradosso.

  7. Luciano Scagliotti

    La sottorappresentazione di particolari gruppi esiste e non può essere ignorata né nascosta con l’espediente della contrapposizione merito/appartenenza. Non si tratta di assicurare l’accesso a determinate posizioni "in grazia" dell’appartenenza, ma di consentirlo "nonostante" l’appartenenza ad un gruppo chiaramente svantaggiato: le donne, le minoranze (etniche, religiose, linguistiche), insomma i/le "diversi/e". Certo, il merito innanzitutto; e, certo, le quote – di qualsiasi colore – non sono probabilmente il metodo migliore. Cerchiamo altre misure, migliori e meno meccaniche; ma non neghiamo la necessità di controbilanciare la disuguaglianza di opportunità sofferta dai gruppi, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra, svantaggiati.

  8. Bruna Cibrario

    Sicuramente, se in Italia vigesse una reale cultura (e pratica) del merito in assenza di barriere e pregiudiziali "di genere", le quote (rosa, azzurre o a pois) sarebbero sbagliate. Peccato che cosi’ non sia. Basti osservare che le donne risultano vincitrici in maggioranza nei concorsi che si svolgono tramite prove d’esame anonime, mentre faticano ad accedere alle cattedre universitarie (i cui concorsi sono "ritagliati" addosso al candidato "predestinato"), per non parlare dei ruoli dirigenti nelle aziende di grandi dimensioni, o nel mondo della finanza o in politica.

  9. Simon

    Stando a quanto riportato nell’articolo, la bassissima percentuale nel nostro paese di donne in posizioni di comando è la equa conseguenza dell’applicazione di criteri strettamente meritocratici, e dunque non necessita di alcun correttivo. Quindi: nonostante i risultati scolastici e universitari mediamente migliori di quelli maschili, le donne giunte ad una certa età (in media verso i 35 anni) soffrono di una strana sindrome degenerativa che allontana le prospettive di raggiungere livelli dirigenziali. Beh, bastava saperlo.

  10. Arnaldo MAURI

    Sono d’accordo. Ritengo inoltre che le "quote rosa" siano incostituzionali. Infatti dovrebbero essere almeno a garanzia dei due generi e quindi anche del sesso maschile. Non si può escludere che in un organo di governance le donne rappresentino la totalità dei membri, in questo caso il sesso maschile dovrebbe essere presente sulla base del medesimo principio. Ma, ritornando all’inizio, mantengo la mia contrarietà alle "quote". Domani potrebbero essere applicate alle religioni, alle etnie di appartenenza e, per esempio, ai mancini, agli albini,ecc.

  11. franco

    A mio modesto avviso il futuro sarà solo per quelle società (stati, nazioni etc) che ha fronte di regole chiare e definite garantiscono le opportunità alla persona. Sia uomo, donna nero, bianco. Nei passaggi epocali come questo che stiamo vivendo e con l’avvento di tecnologie che sempre più permettono alle persone di confrontarsi e di acquisire sapere è normale che il "vecchio potere" tenda ad opporsi. Ma attenzione: la Chiesa Romana società arcaica e conservatrice nel corso della storia si è scissa 2-3 volte di fronte a cambiamenti epocali della storia e della tecnologia e le scissioni hanno sempre portato la costituzione di Chiese più aperte e più moderne (protestanti, calvinisti etc). Parlare oggi di quote rosa o extracomunitari è sintomo di una classe dirigente vecchia e arcaica, se poi, come qualcuno, mi fa i nomi di Borghezio o Gentilini io dico che stiamo parlando di mediocrità assoluta, che rispecchia perfettamente la fase che sta vivendo almeno questo Paese.

  12. Michele Buontempo

    Non mi è molto chiaro il comportamento della Corte. Il principio antidiscriminatorio (e anche oltre, fino a considerare tutte le misure indistintamente applicabili come ostacolo al mercato) ha trovato una sua applicazione nei confronti dei cittadini comunitari privi di cittadinanza o residenza dello stato ospite, almeno per quanto riguarda la circolazione dei lavoratori. E le ragioni di un’estensione ai cittadini non comunitari mi sono oscure.

  13. Luciano Scagliotti

    La sentenza è quella relativa alla causa C-54/07 (Centrum voor Gelijkheid van Kansen en voor Racismebestrijding/ Firma Feryn N. V). Persico l’ha correttamente, seppur sinteticamente, riportata. La Corte non ha fatto alcuna connfusione: la confusione è semmai la sua, tra “prefrenza counitaria” (legittima) e “discriminazione etnica (illegittima). Il punto, come è stato già notato, è semmai che a) qui non si tratta di quote e b) non c’è contrapposizione tra meritocrazia e contrasto delle discriminazioni. Al contrario, la discriminazione – su qualsiasi base – riduce la platea dei candidati, rendendo di fatto vuota qualsiasi pretesa di premiare il merito. A meno che si presuma che “meritevoli” possano essere solo gli uomini (o i bianchi, o gli eterosessuali, o i cittadini nazionali).

  14. Claudio Resentini

    A me invece la vicenda dell’azienda belga fa venire in mente un ragionamento diverso e per certi versi opposto a quello che contrappone meritocrazia e pratiche discriminatorie. Quando si parla di merito, perlomeno qui in Italia, lo si collega in genere alla produttività. E qui sta il problema. I lavoratori extracomununitari ad esempio erano discriminati dall’azienda belga in quanto potenzialmente meno produttivi perchè avrebbero avuto maggiori difficolta a farsi aprire le porte dai clienti. Siamo proprio sicuri che la meritocrazia così declinata non agevoli, invece che ostacolarle, le pratiche discriminatorie? In questo senso certe leggi italiane non aiutano: l’art.10 del d.lgs 276/03 impedisce alle agenzie la preselezione (e perfino il trattamento dei dati) dei lavoratori in base alle caratteristiche personali (età, sesso, razza, origine etnica e nazionale, religione, ecc.) "a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa"…

  15. simon

    Non mi sembra un caso che entrambe le donne citate nell’articolo provengano entrambe da contesti politici connotati da una forte individualizzazione: in entrambi i partiti di provenienza mi sembra di riscontrare leadership individuali molto marcate. È quindi banalmente ovvio che in contesti di tale tipo gli avanzamenti individuali siano fortemente subordinati alla volontà del vertice (il che non esclude in astratto la meritevolezza di colui o colei che avanza, come dimostrato dalla Bonino, ma che contemporaneamente non assicura che i criteri di scelta del vertice coincidano con quelli che assicurerebbero la migliore scelta possibile). È quindi ancora più banalmente ovvio che tale metodo selettivo non è applicabile in via generale, a meno che non auspichi una trasformazione della società in senso autoritario.

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