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INTEGRAZIONE A PUNTI

I ministri dell’Interno e del Welfare annunciano il permesso di soggiorno a punti. Una idea condivisibile perché responsabilizza gli immigrati nella costruzione del percorso di integrazione. Ma non mancano i problemi nella attuale formulazione della proposta. Ad esempio, non è chiaro cosa accade allo straniero che non raggiunga i punteggi richiesti. Perché ancora una volta, le politiche parlano di immigrazione, ma in realtà ricercano il consenso degli elettori italiani, senza troppo curarsi né della fattibilità, né delle conseguenze delle misure annunciate.

È esploso nei giorni scorsi il caso di via Padova a Milano: scontri interetnici in un quartiere ad alta densità di immigrati. Proprio il quartiere che per primo aveva sperimentato la presenza delle pattuglie militari per le strade. (1)
A seguito di questi fatti, il ministro Maroni ha promesso il varo di “progetti di integrazione” entro due settimane. È come se avesse ammesso che finora non erano stati previsti. Va ricordato che in precedenza il fondo ministeriale per i progetti di integrazione, istituito dal governo Prodi, era stato trasferito quasi per intero alle politiche di controllo ed espulsione. Tutto il discorso governativo aveva puntato sulla repressione dell’immigrazione irregolare e sullo stretto controllo di quella regolare. Nelle interviste ai Tg, va aggiunto, perché tentare sul serio di realizzarlo è un’altra storia. Infatti a settembre è arrivata la sanatoria, a sancire la distanza tra le retoriche, le capacità organizzative della macchina dello Stato, la realtà di un mercato del lavoro in cui gli immigrati sono necessari. Ora si scopre che per governare i processi migratori occorrono risorse e politiche di integrazione.

UNA BUONA IDEA…

Pochi giorni prima il ministro degli Interni, d’intesa con il collega del Welfare, Maurizio Sacconi, aveva annunciato il varo di un nuovo strumento di regolazione dell’immigrazione: quello che è stato definito “permesso di soggiorno a punti”. Il dispositivo si applicherà ai nuovi entrati in Italia, che dovranno firmare un “contratto di integrazione” in cui si impegneranno a raggiungere nell’arco di due anni una serie di obiettivi: lavoro, iscrizione al sistema sanitario nazionale, situazione abitativa regolare, padronanza della lingua italiana, attestata da un esame, conoscenza della Carta costituzionale. Se non soddisferanno le condizioni, avranno un altro anno di tempo per arrivare ai traguardi assegnati. Allo scadere del terzo anno, se non ce la faranno scatterà l’espulsione. Eventuali reati comporteranno la perdita di punti e quindi maggiori difficoltà o l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno.
Vorrei proporre qualche prima riflessione sull’iniziativa, avvertendo che, come sempre accade in questi casi, siamo in una fase preliminare di una proposta dai dettagli ancora ignoti, e che dovrà in ogni caso passare al vaglio del Parlamento per essere convertita in legge.
Mi sembra apprezzabile anzitutto l’impegno preso dal ministro per un’offerta istituzionale di corsi di lingua italiana su tutto il territorio nazionale, senza costi per gli immigrati. La conoscenza della lingua è il primo strumento di integrazione ed è necessario che le istituzioni se ne facciano pubblicamente carico. Bisognerà poi vedere come i corsi si combineranno con gli orari di lavoro degli immigrati (penso per esempio alle donne occupate nell’assistenza di anziani a domicilio), ma se c’è una seria volontà politica, le difficoltà si potranno superare.
Sono anche favorevole, in linea di principio, all’idea di responsabilizzare gli immigrati nella costruzione del loro percorso di integrazione. Credo che vadano trattati da persone adulte, in grado di assumere diritti e doveri. Si tratta del resto di una linea che si sta affermando anche in altri paesi europei (Francia, Olanda), sebbene i test di integrazione più esigenti siano legati piuttosto all’acquisizione della cittadinanza (Gran Bretagna, Germania).

…CON TRE LATI OSCURI

I problemi invece mi sembrano tre.
Primo: il mancato raggiungimento di determinati obiettivi può non essere dovuto alla cattiva volontà delle persone. Gli immigrati vanno responsabilizzati, non incolpati per le difficoltà di integrazione che possono incontrare. Per esempio, ottenere un regolare contratto d’affitto può risultare assai arduo (lo è anche per molti italiani) per degli immigrati stranieri che già incontrano seri ostacoli nel trovare sistemazioni abitative di qualunque genere. Il rischio, come in altri casi, è quello di far prosperare un mercato di finti contratti d’affitto. Oppure di far precipitare nell’illegalità persone che lavorano e pagano le tasse. Con la conseguenza, fra l’altro, di trascinare nella marginalità anche eventuali coniugi e figli incolpevoli.
Secondo: il provvedimento non prevede meccanismi di incentivazione. Non premia gli immigrati che fanno più di quanto è loro richiesto dalle disposizioni normative: per esempio, frequentare un corso di formazione professionale, donare sangue, partecipare all’attività di associazioni di volontariato, magari nella protezione civile. Sarebbero queste in realtà le attività più idonee a promuovere l’integrazione effettiva delle persone nella società in cui hanno scelto di vivere. Si dovrebbero premiare quanti si impegnano volontariamente a beneficio della società italiana, e questo principio di buon senso dovrebbe valere anche per accorciare i tempi di concessione della cittadinanza.
Terzo: che cosa succederà a chi non raggiunge il punteggio richiesto? Il ministro ha parlato di espulsione. In realtà, la nostra capacità di espellere gli immigrati non autorizzati, una volta entrati sul territorio nazionale, è scarsissima (meno del 3 per cento del volume stimato dell’immigrazione irregolare), e fra l’altro è in calo anche la percentuale di espulsi fra gli immigrati internati nei centri di identificazione ed espulsione: da un già modesto 46,2 per cento dei tre anni precedenti al 41 per cento del 2008. Centri che, va sempre tenuto presente, dispongono in tutto di 2.220 posti. Se può consolare, nessun paese democratico brilla su questo scomodo terreno: le espulsioni sono complicate, costose, esposte a molte critiche, spesso inefficaci. Il risultato pratico sarà molto probabilmente quello di una crescita della popolazione invisibile, formalmente espulsa, ma in realtà ancora circolante sul territorio. La maggior parte continuerà a lavorare in nero, senza diritti e senza tutele, ma senza neppure pagare tasse e contributi. Fabbricheremo altre Rosarno e altre via Padova, anziché svuotarle. Se poi gli immigrati divenuti irregolari si ammaleranno o si feriranno, saranno curati in ospedale a carico dei contribuenti italiani. Qualcuno, spinto ai margini della società, ingrosserà le fila della criminalità. Insomma, si rischia di ottenere esiti opposti a quelli voluti, o quanto meno dichiarati.
Ancora una volta, le politiche parlano di immigrazione, ma in realtà ricercano il consenso degli elettori italiani, senza troppo curarsi né della fattibilità, né delle conseguenze delle misure annunciate.

(1) Segnaliamo l’articolo "Quando l’immigrato è un imprenditore" che dà conto di una ricerca in parte effettuata proprio nella zona di via Padova a Milano.

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CINQUE DOMANDE PER IL DOPO-CRISI

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DALLE PERSONE ALLE COSE (CHE INQUINANO)

  1. Sergio Briguglio

    E’ una bozza di regolamento della L. 94/2009, che ha modificato il testo unico sull’immigrazione, prevedendo che il rilascio del permesso di soggiorno sia condizionato alla stipula, tra lo Stato e lo straniero, di "un Accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno a sottoscrivere specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validita’ del permesso di soggiorno". La perdita integrale dei crediti determina l’espulsione coattiva dello straniero dal territorio dello Stato, ad eccezione dello straniero titolare di permesso di soggiorno per asilo, per richiesta di asilo, per protezione sussidiaria, per motivi umanitari, per motivi familiari, di carta di soggiorno o di straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare. Premiare lo straniero che apprenda rapidamente l’italiano (ad es., accorciando il periodo necessario per ottenere la carta di soggiorno o la cittadinanza) sarebbe una scelta intelligente; espellere la badante del vecchio padano perche’ ha imparato ad esprimersi solo in veneto non lo e’ affatto…

  2. Stefano Kluzer

    Imparare la lingua è certamente fondamentale per l’integrazione. La richiesta di conoscenza della lingua non deve diventare però un dogma, né un fattore (ulteriore) di esclusione. L’integrazione avviene anche con una conoscenza linguistica parziale. Soprattutto per i nuovi arrivati, la lingua importante non è quella per esprimersi in modo formalmente corretto, bensì quella che serve per cercare casa e lavoro, capire dove andare per questo e quello, parlare con il medico o con gli insegnanti dei bimbi ecc. Didattica ed esami dovrebbero tenerne conto. Inoltre, come dice giustamente Ambrosini sulla casa, anche per la lingua, come per altri temi, l’integrazione (se la si vuole davvero) richiede uno sforzo dell’immigrato, ma anche della società dove vive. Con poche vere occasioni di praticare quanto si ha imparato, i corsi servono a poco. Computer, internet e simili sono preziosi alleati in questa sfida (di questo mi sono occupato recentemente), ma non possono sostituire l’interazione umana, in classe e fuori. Per chi fosse interessato a questo tema, qui trovate esempi, ricerche, idee (purtroppo solo in inglese).

  3. Angel de Abreu

    Pur ravvisandovi un certo cinismo nel tentativo di regolamentare la condizione del migrante attraverso un sistema a punteggio – come già avvenuto per la patente, riaffermando un pessimo principio secondo cui il popolo é meglio governabile se lo si covince di far parte di un gioco, appunto, a punti – credo che la logica apparentemente meritocratica che anima lo spirito della bozza in questione possa sortire buoni effetti ma solo se coniugata al senso della realtà. Gli aspetti sollevati dal dr. Ambrosini sono irrefutabili e concreti, anche se a molti cittadini risultano impercettibili perché drogati dalla TV. Le difficoltà materiali di accesso ai corsi "d’integrazione" che molti stranieri andrebbero a opporre al nuovo sistema rischiano di rendere l’obiettivo di Sacconi il solito pannicello caldo offerto alla platea dei desiderosi di capri espiatori, senza alcun effetto socialmente costruttivo e soprattutto integrativo. L’assenza di riferimenti ad un chiaro e serio sistema premiale è la spia che al momento autorizza un giudizio d’insufficienza della proposta e che rischia di infuocare gli animi di quanti già soggiacciono alle mille corvées imposte dalla legge.

  4. AM

    A ben vedere, il percorso di integrazione termina con la concessione della cittadinanza. Sarei quindi esigente nel valutare i requisiti per l’ottenimento della cittadinanza. Per il semplice permesso di soggiorno non è certo indispensabile padroneggiare la lingua italiana, mentre invece è essenziale un comportamento improntato all’onestà e alla laboriosità.

  5. Stefano D'Andrea

    Penso che, oltre al percorso d’integrazione a punti per gli stranieri, si possa pensare a un percorso in senso opposto, di "disintegrazione a punti", per chi, italiano o straniero, la cittadinanza già ce l’ha. In fondo, essere cittadino italiano significa essere riconosciuto membro della collettività nazionale. Come uno straniero che se ne mostri degno può acquisire la cittadinanza italiana, perchè un cittadino italiano che se ne mostri indegno non può perderla? Q, quanto meno, perdere i diritti che da essa derivano? Penso, soprattutto, ai casi in cui si commettano reati che siano a danno della collettività e per i quali le condanne penali non portino a conseguenze effettive: ad esempio la corruzione, l’evasione fiscale, l’inquinamento, la guida in stato d’incoscienza. In caso di reato, il cittadino perderebbe punti di cittadinanza, che dovrebbe recuperare con corsi di rieducazione o attività sociali, e parte dei diritti che derivano dall’essere cittadino italiano. Senza, ovviamente, giungere mai alla perdita totale della cittadinanza e all’espulsione. Forse una misura del genere aiuterebbe a meditare maggiormente su cosa significhi appartenere ad una comunità.

  6. enrico

    Penso che vadano sottolineati altri due lati oscuri, molto significativi: – in un contratto entrambe le parti assumono degli impegni. in questo caso, e solo in Italia è così, lo straniero assume degli impegni verso lo Stato, ma non viceversa. Secondo la legge infatti l’accordo deve essere applicato senza oneri aggiuntivi per lo Stato: pertanto non saranno finanziati, come accade all’estero, percorsi sistematici di educazione linguistica e civica. – la "bocciatura" del livello di integrazione può avere per lo straniero conseguenze irrimediabili : ma sono ancora molte incerte procedure, modalità di accertamento e le dovute garanzie.

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