Il disegno di legge Delrio propone una definizione di città metropolitana che difficilmente può garantire gli obiettivi che la riforma si prefigge. Un criterio alternativo invece ridisegna i comuni, riducendone drasticamente il numero. La frammentazione amministrativa e la competitività del paese.
PERCHÉ RIVEDERE GLI ASSETTI ISTITUZIONALI
L’iter di approvazione della legge Delrio “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni” ha riaperto il dibattito sulla questione ormai più che ventennale dell’individuazione e delimitazione delle città metropolitane in Italia. Per valutare se e quanto la proposta sia adeguata, occorre ripartire da quelli che in generale devono essere gli obiettivi della revisione degli assetti istituzionali.
L’architettura istituzionale, vale a dire l’insieme dei diversi enti, ciascuno con i propri confini e con le proprie funzioni è finalizzata a creare un contesto, fatto di regole certe, ma anche di servizi di supporto e di strategie di investimento, in cui le imprese possano accrescere la loro efficienza e le famiglie il loro benessere. Come insegna l’economia istituzionale, le istituzioni non sono necessariamente efficienti, possono ridurre o accrescere i costi di transazione, così condizionando la performance complessiva dell’economia e il benessere della collettività. (1)
Ogni ipotesi di revisione degli assetti istituzionali deve quindi porsi come fine quello di ridurre i costi di transazione, in modo da I) ritrovare la coerenza tra confini reali delle comunità da governare e quelli formali delle istituzioni deputate a prendere le decisioni collettive, II) ridurre i tempi della decisione pubblica, anche limitando il numero dei decisori coinvolti, III) sfruttare economie di scala e di scopo, IV) selezionare e concentrare gli investimenti.
CHE COSA PREVEDE IL DDL DELRIO
Il disegno di legge Delrio permette di raggiungere questi obiettivi? La versione all’esame del Senato (A.S.1212) appare decisamente insoddisfacente per almeno tre motivi:
Primo, perché prevede l’automatica trasformazione degli interi territori provinciali al cui interno è stato individuato ex lege un polo di rango metropolitano, in città metropolitana, senza alcuna considerazione per criteri più oggettivi, quali i livelli di popolamento e urbanizzazione, attrazione di flussi di pendolarismo e di mobilità in generale, presenza di funzioni produttive di pregio.
Secondo, perché introduce la possibilità di accrescere a dismisura il numero delle città metropolitane, indebolendo così il concetto stesso di poli metropolitani come aree strategiche per il rilancio della competitività, sulle quali concentrare le risorse attivabili con il nuovo ciclo di programmazione dei fondi strutturali europei.
Terzo, perché attribuisce di fatto al nuovo ente le stesse funzioni delle province, con poche competenze aggiuntive e prevede un meccanismo di governo “debole”, affidato a un consiglio metropolitano, formato da un sottogruppo di sindaci e consiglieri di tutti gli enti coinvolti.
Il disegno di legge propone sostanzialmente una città metropolitana che è “luogo di concertazione” di comuni, ognuno dei quali resta titolare delle proprie funzioni sul proprio territorio. Per una riforma, il cui inizio può essere fatto risalire al 1990 (legge 142) e il cui obiettivo è di rilanciare la competitività del paese attraverso il miglioramento dell’efficienza istituzionale, è decisamente un risultato modesto.
UN CRITERIO ALTERNATIVO
La proposta che segue riprende sostanzialmente l’approccio sviluppato in un precedente articolo, secondo il quale la revisione dell’architettura del governo locale deve partire dal livello più basso, riadeguando cioè le unità territoriali elementari, i comuni, alle comunità contemporanee reali, approssimabili con i bacini del pendolarismo quotidiano (i Sistemi locali del lavoro di fonte Istat). La trasformazione comporterebbe il passaggio dagli attuali 8mila a 686 comuni: con una sola operazione si otterrebbe così l’adattamento del territorio reale con quello istituzionale, il raggiungimento di dimensioni operative adeguate, il superamento della necessità di un livello di governo intermedio come quello provinciale, la riduzione della frammentazione del processo decisionale e dei tempi connessi.
Partendo dalle stesse unità territoriali elementari e selezionando una serie di caratteristiche tipicamente urbane e metropolitane (dimensione demografica ed economica, qualità e varietà delle funzioni svolte, densità e contiguità dell’urbanizzato), si potrebbe quindi individuare con criteri più prettamente “scientifici” la gerarchia dei diversi poli urbani. (2)
La tabella 1 riporta la parte alta della gerarchia urbana italiana costruita con quei criteri. Le aree metropolitane vengono distinte in due gruppi, diversi per dimensione demografica (grandi e medi) e per ciascuna vengono illustrate alcune caratteristiche, riassunte poi in un indicatore sintetico di rango urbano, che “premia” solo poche polarità urbane situate nel Centro-Nord del paese. Di fatto, possono essere considerate realtà metropolitane solo quelle con valori elevati dell’indice sintetico di rango urbano (ad esempio, maggiore di 2).
Tabella 1 – La gerarchia urbana in Italia
Fonte: elaborazioni Irpet su dati Istat
Le città metropolitane ammesse dal disegno di legge Delrio sono invece quelle riportate nella tabella 2.
Tabella 2 – Le città metropolitane del ddl Delrio
Fonte: Servizio Studi Senato 2014
L’individuazione delle città metropolitane della proposta Delrio risulta eccessivamente inclusiva, perché ammette al rango metropolitano anche polarità che alla scarsa dimensione demografica uniscono la debolezza della struttura urbana: il caso più eclatante è quello di Reggio Calabria, tuttavia anche il rango urbano di Padova è maggiore di quello di Venezia e i confini territoriali dei Sll usati nel nostro esercizio non coincidono con quelli provinciali presi a riferimento dal disegno di legge. L’individuazione delle aree risulta dunque un ulteriore punto debole della proposta Delrio, che va a sommarsi a quelli ricordati in precedenza.
Se l’obiettivo generale è quello di rendere più competitivo il paese attraverso la riforma delle sue istituzioni, è evidente che la frammentazione amministrativa va ridotta per tutto il territorio complessivamente, agendo dunque sulla revisione dei confini comunali. Se poi permane il bisogno di assegnare lo status di città metropolitana per conferire funzioni aggiuntive a polarità urbane di particolare rilievo strategico (una sorta di comuni “speciali”), il riconoscimento deve essere ovviamente attribuito a un gruppo molto ristretto di città, con caratteristiche adeguate. Diversamente, se si parla di politiche per lo sviluppo delle aree urbane, meritano di essere articolate e graduate sulla base dell’importanza e delle specificità di ciascun polo, ampliando perciò la platea dei beneficiari per includere anche alcune polarità di medie dimensioni, che ospitano funzioni urbane di pregio e che caratterizzano il tradizionale assetto policentrico del paese.
(1) North D. C. (1994), Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Il Mulino, Bologna
(2) Iommi S., Marinari D. (2013), “Un approccio multicriterio per l’individuazione della gerarchia urbana in Italia e l’elaborazione di territory-specific policies”, XXXIV Conferenza italiana di scienze regionali, Palermo 2-3 settembre; e IV EuGeo Congress, Roma 5-7 settembre.
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Luigi Oliveri
Non so quanti altri argomenti occorrano per far comprendere che il ddl Delrio, al di là del merito della questione (province sì, province no, riforma degli enti locali sì o no) è troppo, troppo carente.
serlio
ancora meglio sarebbe passare dagli 8800 comuni alle 120 province
Impossibile da fare per mancanza di consenso politico e popolare, ma certamente più radicale e efficace.
MMazzo
Condivido, ma riducendo le regioni a non più di 10
Luca
Ma qualcuno si è chiesto perché la città metropolitana di Torino debba includere tutti i comuni dell’attuale Provincia? Cosa abbiano da spartire Claviere (situata sul confine con la Francia) e Torino (che dista 90 km) lo sa solo Iddio. A leggere certe leggi cascano davvero le braccia. La città metropolitana dovrebbe limitarsi all’insieme (omogeneo) di realtà che gravitano sul capoluogo. Nel caso specifico potrebbe estendersi a Carmagnola (S), Rivoli (O), Chivasso (N) e Chieri (E). Tutto il resto, per dirla con una battuta, è cabaret.
Massimo Matteoli
Finalmente un articolo che si pone il problema del governo delle aree sovracomunali, che è il vero punto debole della legge Del Rio. L’accorpamento dei comuni e la loro sostanziale riduzione è la strada da percorrere. Sarà lunga, non facciamoci illusioni, ma è l’unica che garantisce efficienza e democrazia. Il pericolo da evitare è il proliferare delle gestioni regionali o, peggio ancora, neo-statali. Il nuovo Comune (o l’Unione dei Comuni nella necessaria fase intermedia) deve essere l’ente di gestione ordinario dei servizi e delle politiche locali.