Il modello per determinare Pil potenziale utilizzato in Europa sottostima la capacità produttiva dell’economia. Ne conseguono raccomandazioni di politica di bilancio troppo restrittive, un rischio che l’Eurozona oggi non può correre.
“Quanto manca alla vetta?”
“Tu sali e non pensarci!”
(F. W. Nietzsche)
LA CADUTA DEL PIL EFFETTIVO E POTENZIALE DOPO LA CRISI
Per calcolare il saldo strutturale, ovvero il saldo di bilancio corretto per il ciclo e al netto delle misure una tantum – indicatore che riveste un ruolo cruciale nella definizione delle politiche di consolidamento fiscale nell’Unione Europea –, è necessaria una stima del prodotto potenziale cioè del livello massimo di beni e servizi che un paese può produrre senza generare inflazione nell’assetto istituzionale esistente. Ma il potenziale è una variabile non osservabile, di difficile quantificazione e che presenta elevati margini di incertezza. Potremmo definirlo un fantasma, necessario ma difficile da afferrare. La nostra tesi è che, nelle attuali circostanze, il modello concordato a livello UE sottostima il prodotto potenziale, forzando all’adozione di politiche economiche troppo restrittive e pro-cicliche, proprio quello che si è inteso evitare introducendo norme fiscali che tenessero conto del ciclo economico. Qui, discutiamo prevalentemente il caso italiano, ma la tesi ha carattere generale. Nei quindici anni precedenti la crisi attuale, l’Italia è cresciuta in media dell’1,5 per cento all’anno. Il modello UE stima per lo stesso periodo una crescita media del prodotto potenziale pari all’1,4 per cento. Con la crisi, il Pil italiano è crollato di oltre nove punti percentuali. Che impatto ha avuto questo shock sul tasso di crescita del prodotto potenziale? Secondo il modello UE, la crescita potenziale sarebbe diventata negativa dopo il 2008, riducendosi in media dello 0,2 per cento all’anno. Da una crescita potenziale dell’1,4 a una “recessione potenziale”. In altri termini, se mai riusciremo ad annullare la carenza della domanda aggregata non potremmo che decrescere (a politiche strutturali invariate). Qualcosa di analogo sarebbe successo per l’intera area dell’euro, dove circa il 70 per cento della caduta del Pil (calcolato rispetto a una stima prudenziale del trend pre-crisi) sarebbe strutturale, ovvero connessa alla perdita di potenziale, e solo il 30 ciclica. È plausibile tutto ciò? È naturalmente probabile che l’eccezionale shock del 2008 abbia provocato una caduta della crescita potenziale. Ma di quali dimensioni? Per capirlo consideriamo i fattori che potrebbero aver influito. Concettualmente, una riduzione del potenziale potrebbe discendere da un peggioramento delle politiche strutturali – le condizioni (permanenti) nelle quali l’economia opera, da una sovrastima negli anni precedenti alla crisi finanziaria o dalle conseguenze della stessa. Appare poco plausibile ricondurre la riduzione della crescita potenziale a un deterioramento dell’assetto istituzionale visto che il grado di regolamentazione dei mercati dei beni e del lavoro si è ridotto in linea con quello degli altri paesi europei (figura 1). Lo stesso dicasi per un’eventuale sovrastima negli anni precedenti, data l’assenza nel periodo di bolle nei mercati delle attività. La terza spiegazione è più realistica: forti shock ciclici al Pil, come quelli avvenuti dal 2008 in poi, possono produrre danni persistenti al sistema economico – cosiddetti “effetti isteresi”. A fronte di uno shock avverso e persistente, le imprese tendono a ridurre gli investimenti e i disoccupati a perdere competenze. Tali fenomeni possono intaccare le capacità produttive di un’economia colpita da una crisi duratura. La letteratura economica concorda sulla presenza di importanti fenomeni di isteresi, ma fornisce stime eterogenee del suo impatto sui tassi di crescita del Pil; il punto è che, per costruzione, il modello UE assume effetti isteresi molto pronunciati per questi anni. La bassa crescita/recessione del Pil effettivo impatta sulla stima del Pil potenziale mediante procedure statistiche che finiscono per accentuare l’intensità di tale relazione al prolungarsi della crisi: la metodologia tende in sostanza a sottostimare l’ampiezza del ciclo economico, e a interpretare come strutturali gli sviluppi economici recenti. Il problema è meno rilevante per cicli economici di durata normale, ma diventa serio in presenza di una prolungata debolezza della domanda.
IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE
Passiamo ora a una delle componenti più rilevanti del modello: il tasso di disoccupazione strutturale. Il calo del potenziale è infatti principalmente riconducibile a un incremento di questa variabile, che il modello stima sia aumentato in Italia da circa il 7 per cento nel 2007 a quasi l’11 per cento nel 2014; il 60 per cento dell’incremento della disoccupazione sarebbe di natura strutturale. Un incremento così rapido della disoccupazione strutturale sembra inoltre confliggere con le riforme introdotte negli ultimi anni sul mercato del lavoro. La stima della disoccupazione strutturale utilizzata dalla UE segue empiricamente gli andamenti del tasso di disoccupazione; emerge insomma un’elevata (tanto da essere sospetta) correlazione tra disoccupazione effettiva e strutturale. Nei paesi che hanno sperimentato un calo cumulato del Pil particolarmente marcato si evidenziano in tal senso risultati poco plausibili: ad esempio, in Spagna la disoccupazione strutturale risulterebbe prossima al 21 per cento. Più in generale, l’andamento dell’inflazione – da tempo significativamente sotto l’obiettivo della Bce – suggerirebbe di attribuire ben altro peso alla caduta della domanda. Intuitivamente, la bassa inflazione (o addirittura la diminuzione dei prezzi) è legata alla difficoltà delle imprese a vendere, non a produrre. Questo significa che c’è poca domanda rispetto a quello che l’economia è in grado di produrre. Recenti stime della relazione tra inflazione e disoccupazione (la cosiddetta curva di Phillips) per l’Italia suggeriscono che la disoccupazione dovuta a carenza di domanda è pari a circa quattro punti percentuali, contro i soli due punti stimati con l’approccio UE. In conclusione, il calo del Pil potenziale stimato dal modello UE è particolarmente marcato per l’Italia (e altri paesi), assumendo implicitamente un’isteresi molto più pronunciata di quanto sembra plausibile e suggerito dal comportamento dei prezzi.
IL PARADOSSO DELLE RACCOMANDAZIONI EUROPEE
Le implicazioni per la politica fiscale sono serie. Una sottostima del Pil potenziale produce un output gap – la distanza tra Pil potenziale ed effettivo – troppo contenuto, che a sua volta implica disavanzi strutturali troppo elevati, richiedendo così un aggiustamento di bilancio eccessivo. Tra l’altro, la dimensione dell’output gap è rilevante per valutare se possono essere attivati alcuni margini di flessibilità nell’ambito del Patto di stabilità e crescita. Nel caso italiano, con l’approccio attuale il tasso di crescita potenziale risulterebbe negativo. Questo significa che qualsiasi tasso di crescita positivo ridurrebbe l’output gap e, di conseguenza, richiederebbe una riduzione del disavanzo nominale anche solo per mantenere inalterato il saldo strutturale. È come nuotare contro corrente: si nuota solo per restare fermi. Ipotizziamo, invece, uno scenario che dia maggior rilievo alla carenza della domanda aggregata. Assumiamo effetti isteresi comunque significativi scontando a partire del 2008 un calo della crescita potenziale dall’1,4 allo 0,4 per cento, invece che -0,2. In tale caso, il deficit strutturale avrebbe sostanzialmente raggiunto il pareggio già a partire dal 2012 (figura 2). Perfino con un tasso di crescita potenziale pari a zero, l’Italia avrebbe ormai raggiunto un bilancio in pareggio in termini strutturali, il nostro obiettivo di medio termine secondo le regole UE.
In conclusione, è opportuno che nell’applicazione delle norme europee venga prestata dovuta attenzione alla possibilità che la crescita potenziale sia sottostimata. A maggior ragione nell’eccezionale situazione macroeconomica, che rende le conseguenze di una sottostima del Pil potenziale – e dunque di un’eccessiva austerity – potenzialmente ben più gravi di quelle connesse a una sovrastima, alla luce dei rischi di stagnazione e deflazione. Se in tempi normali il potenziale è un fantasma necessario per valutare l’atteggiamento della politica di bilancio, in questi anni di bassa domanda il fantasma è diventato dispettoso e imbroglione; così imbroglione da rendere – se si è davvero molto incerti della stima del potenziale – addirittura preferibile il semplice utilizzo del deficit nominale. Da ultimo va notato un paradosso, anzi un’incoerenza, tra l’interpretazione dell’economia che le istituzioni europee implicitamente assumono con questo modello e le loro raccomandazioni di policy. Qualora l’impatto della recessione sulla crescita potenziale avesse effettivamente l’intensità del modello, politiche macroeconomiche restrittive andrebbero evitate come la peste per non danneggiare le prospettive, anche fiscali, di lungo termine. Paradossalmente, il modello concordato in sede europea fornisce argomenti robusti a chi propugna un consolidamento di bilancio ben più graduale rispetto a quello raccomandato dalla Commissione europea e dal Consiglio Ecofin.
* Le opinioni qui espresse sono soltanto quelle degli autori e, in particolare, non riflettono necessariamente quelle delle istituzioni di appartenenza.
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Giorgio D.M.
Questo articolo, firmato da quelli che dovrebbero essere seri tecnici, mi sembra allucinante: non per il contenuto ma per il fatto che quello che ci stano dicendo, prima di tutto e soprattutto, è che scoprono, ORA, cosa c’è scritto nei documenti europei che il governo prima e il Parlamento poi si sono impegnati a rispettare, addirittura con una modifica della Costituzione e una successiva legge di attuazione.
Vladimiro Giacche'
Il Centro Europa Ricerche ha messo in luce il problema, e le sue gravissime implicazioni sulle nostre politiche – nel silenzio generale – dal marzo scorso: http://www.centroeuroparicerche.it/userfiles/RapportoCER-Aggiornamenti_PactaServataSunt_25-03-14.pdf . Ora finalmente qualcosa si muove. Meglio tardi che mai…
Luca de Vecchi
I dati della Figura 1 sulla regolamentazione del lavoro riferiti all’Italia mi sembrano molto poco attendibili. Possibile mai che le riforme treu, biagi etc etc non abbiano inciso minimamente lasciando assolutamente invariato il valore?