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La spending review che piace a Bruxelles

Il Governo vuole ottenere dall’Europa la clausola di flessibilità sugli investimenti pubblici, indipendentemente dalla qualità dei progetti e dei loro effetti per il paese. È un errore, tanto più in tempi di spending review. Le norme mai applicate sulla valutazione economica degli interventi.

UNA CLAUSOLA PER GLI INVESTIMENTI

Il Governo italiano sta cercando di convincere la Commissione europea a concedergli la possibilità di escludere una quota di investimenti pubblici dal calcolo del deficit a partire dal 2014.
La Commissione sostiene che per ottenere l’approvazione della clausola di flessibilità sugli investimenti l’Italia deve ancora procedere a un aggiustamento strutturale dello 0,4 per cento del Pil, mentre il Governo ritiene di poter raggiungere gli obiettivi indicati nel Patto di stabilità (per il 2014) tramite l’avvio in corso d’anno di un processo di privatizzazioni e l’accelerazione della spending review.
Approfondire le argomentazioni dei due contendenti per stabilire chi dei due ha ragione e se l’Italia ha o meno diritto a realizzare progetti di investimento aggiuntivi fino a 4,8 miliardi nel 2014 non è particolarmente appassionante. (1) Più interessante sembra una discussione sulla logica sottostante alla “clausola sugli investimenti”.
La Commissione europea ha deciso di consentire, caso per caso, deviazioni temporanee dagli obiettivi di medio termine (pareggio strutturale di bilancio) a quei paesi il cui indebitamento in rapporto al Pil è inferiore al 3 per cento. In questo modo, vi sarebbero margini di flessibilità per realizzare investimenti pubblici produttivi cofinanziati dalla UE da non computare ai fini dell’indebitamento netto. La spesa aggiuntiva sarà possibile per gli investimenti giudicati “positivi” dalla Commissione. Nel caso dell’Italia, in sostanza, più che margini di flessibilità per spendere di più, si tratta di creare le condizioni per spendere meglio e più efficacemente i fondi europei (e quindi il loro cofinanziamento nazionale).
Allo stato attuale, però, la Commissione non dispone di alcun parametro per dare sostanza alla qualificazione di investimenti “positivi”. Può solo basarsi sul fatto che alcune tipologie di investimento (fondi strutturali e finanziamento delle reti transeuropee) sono soggette a determinate regole e a un vaglio cui la Commissione partecipa direttamente. (2) Detto ciò, non viene assicurata alcuna forma di selezione né alcun processo di valutazione. Dal punto di vista della Commissione, circoscrivere il “campo” degli investimenti ammessi può essere comunque sufficiente per attenuare il rischio che si rivelino poco efficaci ed efficienti. Ma nell’ottica italiana, e in una prospettiva di revisione della spesa, questo basta? Oppure si dovrebbero prevedere criteri più selettivi e un vero e proprio processo di valutazione?

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ITALIA SENZA VALUTAZIONE

Il Governo italiano sembra deciso a ottenere la quota di spese di investimento aggiuntive indipendentemente dalla loro qualità e dai loro effetti. E sembra un formidabile errore, soprattutto ai tempi della spending review. Sebbene in letteratura non sia chiaro il rapporto tra investimenti pubblici e crescita economica, si può ragionevolmente sostenere che i progetti di investimento contribuiscano positivamente alla crescita quando incrementano lo stock di capitale fisso e quando il loro tasso di rendimento economico è positivo e sufficientemente elevato.
Per ottenere questo risultato occorre una valutazione costi-benefici dei singoli progetti di investimento che permetta di selezionare solo quelli che superano il test di redditività e che appaiono come i migliori.
D’altra parte, si fornirebbe così una risposta a quanti ritengono che l’esclusione degli investimenti dal computo del deficit (nota come golden rule) rischia di minare la sostenibilità di lungo termine del debito pubblico.
Purtroppo, non è stata prevista alcuna forma di valutazione degli investimenti da realizzare con la clausola di flessibilità. Il rischio consiste nel fatto di escludere dai parametri europei una spesa in conto capitale non meritevole di alcuna particolare considerazione (tassi di rendimento vicini allo zero o negativi, scarso contributo alla formazione di capitale, scarsa utilità degli interventi, eccetera) e tutto sommato assimilabile alla spesa corrente per la quale si opera appunto una revisione. (3)
La golden rule “all’italiana” riguarda una serie di interventi programmati “di rilievo comunitario” stabiliti senza alcun criterio di razionalità economica e contenuti nell’Allegato infrastrutture al Def (Documento di economia e finanza) e nei programmi comunitari relativi ai fondi strutturali. (4)
Eppure questo stato di cose risulta paradossale per due motivi. In primo luogo, uno dei “prodotti” del ciclo di spending review  del 2006-07 è stato l’obbligatorietà della valutazione economica dei progetti di investimento da parte delle amministrazioni centrali. (5) L’obbligo, tradotto normativamente nel decreto legislativo 228/2011, comporta l’utilizzo dell’analisi costi-benefici, come previsto da un primo Dpcm (3 agosto 2012) approvato anche se con ampio ritardo rispetto al previsto. (6) Né il Governo Monti né il Governo Letta hanno però provveduto a dare effettiva attuazione alla normativa.
In secondo luogo, l’attuale enfasi sulla revisione della spesa nell’ambito dei lavori coordinati da Carlo Cottarelli dovrebbe indurre a riprendere la tematica e a rilanciarla anche al fine di una “trattativa” con la Commissione europea con ben più solidi argomenti rispetto a quanto fatto finora.
In presenza di una spesa in conto capitale profondamente dequalificata – come quella italiana – appare perciò opportuno attivare controlli severi e soprattutto avviare il processo di valutazione economica (già previsto) considerandolo parte integrante della attuale revisione della spesa. (7) Solo con questi presupposti risulterà utile la richiesta di poter fruire della clausola di flessibilità.

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(1) Potrebbero essere scomputati dal saldo di bilancio ai fini del patto di stabilità e crescita cofinanziamenti nazionali (relativi a fondi strutturali e reti transeuropee) per un valore pari allo 0,3 per cento del Pil.
(2) È un atteggiamento comprensibile dato che l’obiettivo della clausola degli investimenti, nell’ottica della Commissione, è quello di attenuare la penalizzazione subita da questo tipo di spese in seguito ai piani di consolidamento di bilancio attuati dai paesi europei nel recente passato.
(3) Si tratterebbe di un evidente caso di “non conoscere per non deliberare” parafrasando così non solo Luigi Einaudi ma anche il titolo del paper di Nicola Rossi “Conoscere per non deliberare” sulla spending review nel caso italiano.
(4) Di cui finora si è fatto un pessimo uso senza che vi siano stati effetti positivi sullo sviluppo economico.
(5) Ci si riferisce ai lavori della Commissione per la finanza pubblica guidata da Gilberto Muraro.
(6) Si veda anche l’articolo “La valutazione ai tempi del governo tecnico” su lavoce.info del 14/6/2012.
(7) Come dimostrato anche dai recenti lavori di Banca d’Italia sulle spese per infrastrutture. Sulla qualità degli investimenti pubblici si veda in ultimo Gupta S., Kangur A., Papageorgiou C.,Wane A. (2011), Efficiency-Adjusted Public Capital and Growth, Imf Working Paper, WP/11/217, September.

 

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  1. Enrico

    La chiave di tutto è quindi la valutazione economica degli investimenti da parte delle amministrazioni centrali, da effettuare mediante l’analisi costi/benefici. Non sono un tecnico e quindi mi scuso in anticipo per la possibile banalità della domanda: nell’analisi costi/benefici esistono criteri o guidlines che permettano di ottenere valutazioni il più possibile oggettive?

  2. Pierfranco

    Gli investimenti quali messa in sicurezza del suolo e delle scuole, per me prioritari, sono tra quelli per i quali è possibile valutare un rapporto costi-benefici?

  3. Piero

    Golden rule fuori dal 3%, è stato chiesto da tutti i governi all’Europa che ha risposto sempre negativamente. Sarebbe giusto e sicuramente positivo per il Pil poter fare degli investimenti pubblici, anche con l’indebitamento, è l’unico modo per sollevare il Pil italiano: le imprese private a causa del credit crunch stanno morendo, quindi non fanno investimenti. Non penso che l’Europa aderisca a tale richiesta, anche Napolitano ha detto che l’euro non si tocca ma basta al rigore, però non ha detto ai suoi amici, Merkel & Co. qual è il comportamento che l’Italia assumerà se si continua con questa politica monetaria suicida: dovrebbe essere l’uscita dall’euro, ossia riappropriarsi della politica monetaria. Anche quindi il grido di Napolitano non servirà a nulla.

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