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Riforma del Patto di stabilità e crescita: un’occasione persa*

La riforma del Patto di Stabilità e Crescita era stata invocata per semplificare il quadro delle regole fiscali europee e rimuovere i difetti di “prociclicità” del vecchio impianto. L’accordo trovato a dicembre rischia di fallire entrambi gli obiettivi.

Un’Europa che non cresce

Dall’anno dell’adozione della moneta unica, la zona euro è cresciuta a un ritmo più lento sia degli Stati Uniti che dei paesi europei fuori dall’euro (figura 1). La crisi del debito sovrano, nel 2010-2011, ha esposto drammaticamente le fragilità di una unione monetaria priva di un bilancio comune. D’altro canto, la pandemia da Covid-19 ha offerto l’opportunità di una risposta coordinata, efficace e solidale sul piano continentale. Tutto ciò sembrava suggerire la concreta possibilità di una rimessa in discussione del dogma del rigore di bilancio che ha caratterizzato la zona euro fin dalla sua nascita. Il risultato dell’accordo del 20 dicembre 2023 ha invece deluso chi sperava in un radicale cambiamento di rotta.

Figura 1 – La crescita del Pil reale: Eurozona e Stati Uniti a confronto

Nota: 1999=100, prezzi costanti al 2015. L’aggregato Eurozona include gli 11 paesi che per primi adottarono la moneta unica (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna) e la Grecia, che rientrò nei parametri richiesti nel 2000 e fu ammessa nel 2001. Fonte: elaborazioni proprie su dati Banca Mondiale.

Nuove regole, vecchi parametri

Con l’accordo di dicembre rimangono innanzitutto invariati i due principali indicatori-soglia su cui è costruita l’intera impalcatura delle regole fiscali europee: il 3 per cento del rapporto deficit-Pil e il 60 per cento del rapporto debito-Pil.

Si tratta di numeri che risalgono allo storico Trattato di Maastricht del 1992. A quel tempo, il livello medio del rapporto debito-Pil dei paesi candidati a entrare nella zona euro era proprio del 60 per cento. Il 3 per cento può essere ricavato dalla formula che indica quale livello del rapporto deficit-Pil permetta di stabilizzare al 60 per cento il debito pubblico se la crescita nominale del Pil risulta pari a poco più del 5 per cento: d=g*b dove g è il tasso di crescita nominale del Pil, b è il rapporto debito-Pil e d è il rapporto deficit-Pil. Facendo le opportune sostituzioni, si ottiene proprio il valore del 3 per cento.

Oggi il debito dell’Eurozona è, in media, pari a circa il 90 per cento del Pil. La crescita nominale media dei 20 paesi appartenenti all’unione monetaria è stata di poco inferiore al 3 per cento dal 2002. In Italia il debito è al 140 per cento del Pil, mentre la crescita nominale media è stata vicina al 2 per cento. In entrambi i casi, la “regola del deficit” ci restituisce valori di poco inferiori al 3 per cento (nel caso in cui si volesse stabilizzare il debito al valore attuale). E fin qui sembrerebbe che la riproposizione di questi parametri non confligga più di tanto con il nuovo quadro macroeconomico in cui vengono calati. Vediamo perché non è così.

Uno, nessuno e centomila indicatori

Gli stati che superano i valori soglia devono concordare con la Commissione europea un piano pluriennale di aggiustamento di 4 o 5 anni (estendibile di 3 anni in presenza di riforme strutturali) incentrati su un “nuovo” indicatore: la net expenditure (o spesa netta), che è definita come “la spesa al netto degli interessi, delle misure discrezionali sulle entrate, della spesa per la disoccupazione ciclica”.

La Commissione dovrebbe usare solo l’evoluzione di questo indicatore per verificare l’effettiva attuazione del piano. Ma il proposito, più che giustificato da un punto di vista teorico, porta con sé due problemi fondamentali. Innanzitutto, il calcolo della spesa netta sembra poggiare, sebbene non sia dichiarato esplicitamente, sul problematico concetto di output gap (la stima della componente strutturale e ciclica presuppone sempre la necessità di una misura che riassuma l’ampiezza delle fluttuazioni cicliche). Inoltre, non sembra esistere una sostanziale differenza tra il nuovo indicatore e il vecchio concetto di saldo strutturale (per la dimostrazione formale dell’uguaglianza vedi qui). Data la sovrapposizione tra i due concetti e la necessità di ricorrere nuovamente a una stima dell’output gap, è evidente allora il rischio che si ripropongano le tendenze a politiche fiscali “pro-cicliche” che caratterizzavano la metodologia incorporata nelle vecchie regole. L’esclusione della spesa per interessi dal calcolo del nuovo indicatore non ha poi implicazioni di rilievo: poiché gli interessi alimentano per definizione la crescita del rapporto debito-Pil, la net expenditure – il cui obiettivo primario è incidere sull’evoluzione di quest’ultimo – deve necessariamente tenerli in considerazione. La tendenza all’incremento del debito determinata dalla spesa per interessi deve allora essere più che compensata da un’evoluzione virtuosa del nuovo indicatore. Escludere o includere formalmente la spesa per interessi dal computo della spesa netta appare irrilevante. Non si tratta certo di una “vittoria politica” per paesi che pagano elevati interessi come l’Italia.

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L’Italia e le nuove regole

Il caso dell’Italia è da questo punto di vista illuminante. Fino allo scoppio della crisi sanitaria, contrariamente a quanto generalmente ritenuto, siamo stati uno dei paesi europei più virtuosi in tema di gestione delle finanze pubbliche. Al netto degli ultimi anni, l’Italia ha fatto quasi sempre registrare un avanzo primario (figura 2a – Italia). Il resto dell’Eurozona è stato caratterizzato da saldi primari di finanza pubblica decisamente peggiori; la sostanziale equivalenza tra disavanzo complessivo italiano e quello medio europeo è da attribuirsi fondamentalmente all’elevata spesa per interessi che l’Italia ha dovuto (e deve) sostenere per l’enorme ammontare in valore assoluto del debito (2.844 miliardi di euro nel terzo trimestre del 2023, secondo i dati di Banca d’Italia).

Figura 2 – I conti pubblici e l’andamento del rapporto debito/Pil: Italia ed Eurozona a confronto

(a) Saldo di bilancio

(b) Variazione del rapport debito/Pil

Nota: l’aggregato Eurozona include gli 11 paesi che per primi adottarono la moneta unica (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo e Spagna) e la Grecia, che rientrò nei parametri richiesti nel 2000 e fu ammessa nel 2001. Fonte: elaborazioni proprie su dati Eurostat

Ma perché l’Italia ha dovuto perseguire politiche di bilancio così restrittive? Per conformarsi al complesso meccanismo delle regole fiscali europee con l’obiettivo – in teoria – di ridurre ogni anno il rapporto debito-Pil. Eppure, queste politiche hanno sempre contribuito all’aumento del rapporto, in Italia così come anche nell’Eurozona (figura 2b). La figura 2b scompone, da un punto di vista quantitativo, la variazione del rapporto debito-Pil intercorsa ogni anno (istogramma blu) tra il contributo del numeratore (politiche di bilancio) e il contributo del denominatore (crescita nominale). Data questa evidenza empirica, varrebbe la pena domandarsi se, in generale, una politica di riduzione del debito debba affidarsi esclusivamente a interventi di carattere “ragionieristico” sulle finanze pubbliche o non debba basarsi, al contrario, su politiche (anche fiscali) che sostengano la crescita economica. Il punto è direttamente connesso al delicato tema dei moltiplicatori fiscali, che catturano l’impatto futuro di una manovra fiscale sul Pil. Ad esempio, i programmi di consolidamento fiscale imposti in passato al governo greco si basavano sulla stima di un moltiplicatore intorno allo 0,5 e, quindi, sull’idea che le manovre di austerity non avrebbero danneggiato in modo sostanziale l’economia greca. Il crollo verticale del Pil poi verificatosi non fu dovuto ad altro che alla sottostima del moltiplicatore, in realtà ben superiore all’unità.

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A un approccio di tipo “ragionieristico” sembrano ispirarsi le clausole del nuovo quadro normativo che si affiancano al cosiddetto indicatore “unico”.

1) la procedura per debito eccessivo scatta quando sussistono tre condizioni: a) il rapporto debito Pil supera la soglia 60 per cento; b) il bilancio statale non è in pareggio o in avanzo; c) si verifica una deviazione dalla traiettoria della net expenditure concordata con la Commissione di 0,3 per cento del Pil su base annuale, o dello 0,6 per cento su più anni;

2) la traiettoria della net expenditure deve garantire la diminuzione media del rapporto del debito Pil dell’1 per cento all’anno per paesi con debito oltre il 90 per cento (0,5 per cento per paesi con debito fra il 60 e il 90 per cento);

3) i paesi con un deficit oltre il 3 per cento devono impegnarsi a ridurre il deficit strutturale dello 0,5 per cento annuo;

4) il piano pluriennale deve puntare a un rapporto deficit-Pil in termini strutturali dell’1,5 per cento. Gli aggiustamenti annuali richiesti per avvicinarsi all’obiettivo (una volta fuori dalla procedura per deficit eccessivo) devono prevedere una diminuzione dello 0,4 per cento del deficit strutturale primario per piani di aggiustamento “standard” (su 4 o 5 anni), dello 0,25 per cento nel caso di estensione su 7 anni.

Il punto 2 (debt sustainability safeguard) e il punto 4 (deficit resilience safeguard) sono stati di fatto imposti dal ministro delle Finanze tedesco. Un governo italiano autorevole e credibile avrebbe almeno potuto denunciare l’incoerenza dei dispositivi rispetto allo schema dell’“indicatore unico”. La politica economica attuata finora dal governo Meloni (contrasto alle regole europee pro-concorrenza, abbassamento della guardia sull’evasione fiscale, mance fiscali a specifici segmenti del proprio elettorato, leggi di bilancio fondate su “rinnovi annuali” di partite da decine di miliardi) non ha probabilmente contribuito a rafforzarne autorevolezza e credibilità agli occhi dei partner europei. Ci si è così accontentati di qualche “sconto” sull’applicazione delle nuove regole per gli anni 2025, 2026, 2027.

* Questo articolo è pubblicato anche su Menabò di Etica ed Economia.

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  1. Enrico

    Dei velisti non governerebbero mai una barca lungo la rotta desiderata usando solo il timone, rinunciando a manovrare le vele. Invece gli strapagati burocrati europei vorrebbero regolare contemporaneamente debito e deficit (e forse anche crescita e inflazione) fissando solo la dinamica della spesa netta. Vanno contro la fisica, prima che contro la logica e la regola di Tinbergen. Stupisce solo che una corte di economisti approvi una simile follia e che 27 governi la appoggino.

  2. Roberto

    E’ incredibile come si continui a rimarcare l’avanzo primario come dogma di austerità. Il saldo primario è una misura inconsistente che non ha alcun valore, a meno che un Paese non abbia più intenzione di pagare gli interessi sul proprio debito, praticamente dichiarare default. Se uno Stato ha accumulato negli anni un enorme debito non può giustificare una pseudo austerità solo perchè fa avanzi primari, l’unica vera austerità la si ha quando si fanno avanzi di bilancio complessivi (non primari). Questa austerità è stata applicata da alcuni paesi europei negli anni pre covid, l’Italia invece non ha mai raggiunto un avanzo complessivo di bilancio quindi non ha mai praticato austerità. Se si vuole ridurre il rapporto debito/pil italiano bisogna smettere di fare deficit ogni anno, altro che sperare in una ipotetica crescita basata su moltiplicatori irrealizzabili in un paese con una produttività ferma da 20 anni.

    • Paolo

      Non è incredibile se si ha idea di come funziona la contabilità nazionale. l’Italia ha cumulato investimenti negativi per quasi 1800 miliardi di euro negli ultimi 20 anni, tagliando investimenti e spesa corrente fondamentale. Il risultato è quello che vediamo.

      Il bilancio primario è l’unico su cui lo stato può intervenire, visto che nell’eurozona non può contare su politiche monetarie sincrone, e quindi se nonostante 25 anni di avanzi primari i tassi di interesse sul debito italiano sono più alti che altrove vuol dire che le regole non hanno senso. Vuol dire che l’Italia non può pensare di ridurre il deficit di più, perché se lo fa distrugge capitale (come ha in effetti fatto) e i mercati voglio interessi più alti, vanificando il surplus primario. E questo è quello che è successo: abbiamo tagliato investimenti pubblici come nessuno al mondo ha mai fatto, perché questo ci avrebbe attirato la simpatia dei mercati, avrebbe premiato il nostro debito e i tassi più bassi avrebbero liberato risorse, ma non è successo. E anzi successo il contrario: la crescita del PIL è crollata, la produttività è diminuita, la PA e le infrastrutture versano in condizioni pietose, e per questo il rapporto debito PIL è aumentato.

      Se un lavoratore pensa di migliorare la propria situazione finanziaria smettendo di mangiare (così “libera risorse” dedicate al nutrimento per altro) difficilmente manterrà la produttività. E se perde il lavoro, la banca che gli ha fatto il mutuo non è certo più felice.

      Bisogna cambiare rotta, come gli autori dell’articolo hanno giustamente sottolineato.

  3. Firmin

    Come si fa a concepite delle regole che valgono per 27 paesi senza tener conto delle reciproche interazioni? Sarebbe come progettare le singole parti di una macchina senza preoccuparsi se sono compatibili tra loro (…come si tempi dell’Alfa Sud). Regole che vincolano solo le singole economie portano necessariamente ad una dinamica esplosiva. Per esempio, una stretta fiscale in un paese riduce le importazioni dagli altri e quindi il loro PIL e le loro entrate fiscali; ma questo impone una stretta anche negli altri paesi per rispettare gli impegni sulla riduzione di debito e deficit; così l’intera area finisce in recessione senza motivo. Sarebbe più logico stabilire prima una politica fiscale adatta all’intera area e poi determinare le manovre nazionali necessarie ad ogni paese per raggiungere gli obiettivi comuni. Così i paesi più virtuosi tirerebbero la domanda globale e solo agli altri sarebbe richiesta una politica più restrittiva della media (ma non necessariamente recessiva).

  4. Savino

    Il bilancio sociale di ciascuno dei 27 Stati membri non corrisponde al bilancio contabile.
    Ci sono esigenze collettive non coperte e, l’evoluzione della società ed i vari cambiamenti nell’economia, non fanno che mutare e moltiplicare queste esigenze. Una popolazione che invecchia e che fa meno figli, la necessità di conciliare tempi di vita e di lavoro, l’ingresso della tecnologia nel mondo del lavoro, la necessità di nuove forme di welfare, oltre alle crisi geopolitiche (e ai problemi di logistica militare conseguenti), a quelle energetiche e sanitarie post pandemia rendono indispensabili nuove poste di bilancio. La stessa Ue a 27 non corrisponde più al mercato comune dei fondatori e dei primi 12-13 Paesi associati. E’ troppo importante, in questa situazione, sapere se uno Stato si può indebitare e in che termini possa farlo. Ecco perchè il nuovo patto è un pasticcio, che salva solo i governi e le legislature correnti in Italia, Francia e Germania rimandando ogni decisione concreta.

  5. Paolo

    Ci riprovo, perché penso che il mio commento offra uno spunto interessante per ampliare il dibattito. Ho riformulato e tolto qualche maiuscolo.

    Quello che scrivono gli autori è condivisibile, corretto, documentato. Ed è importante che finalmente questi dati, noti da decenni, abbiano finalmente un po’ di visibilità anche in spazi come questo, che per anni hanno evitato di darglielo.

    Dopo aver descritto il problema però è utile interrogarsi sul perché l’occasione è stata persa, e cosa è necessario fare per non perderne altre.

    Il tema è ovviamente politico, ed è legato alla difesa quasi fideistica di cui le istituzioni e regole europee hanno goduto e godono tutt’ora sui media nazionali.
    Come si può definire “poco credibile” l’unico governo in Europa composto da forze che stabilmente da più di un decennio sottolineano esattamente le stesse disfunzionalità messe in luce in questo articolo? Un governo che in Europa è soggetto a un “cordone sanitario” messo in atto dagli stessi partiti che queste regole le hanno implementate, attuate e difese fino ad oggi, che prima hanno gridato allo scandalo quando il ministro ha ipotizzato di mettere il veto e ora puntano il dito sulla scarsa incisività del governo?

    Ecco, ora che il consenso sull’assurdità prociclica di queste regole ormai è consolidato, possiamo cominciare a estendere il dibattito in modo serio, ad esempio analizzando anche l’effetto ulteriormente distorsivo delle politiche monetarie, l’opacità dei meccanismi decisionali dell’UE, il peso che nei prossimi anni avrà il bilancio dell’Unione su quello dei paesi membri per la restituzione dei fondi legati al pnrr in rapporto all’effetto molto blando che sta avendo sulla crescita ecc. ecc.
    Lasciando da parte i pregiudizi politici verso i partiti antipatici, smettendo di concedere alibi a delle istituzioni che falliscono costantemente i propri obiettivi imponendo ai cittadini europei un costo enorme, dandosi come obbiettivo quello di rafforzare la posizione del nostro paese.

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