Bene che si discuta dell’introduzione di un salario minimo. Anche perché con la crisi è aumentato il numero di lavoratori al di sotto della soglia di povertà. Ma il testo dell’emendamento del Governo è troppo ambiguo. La misura deve essere applicata a tutti i lavoratori. Vediamo come.
COSA DICE LA DELEGA
Nell’emendamento al disegno di legge-delega sul lavoro in discussione al Senato, il Governo ha previsto l’introduzione, in via sperimentale, di un “compenso orario minimo”, potenzialmente esteso anche al parasubordinato, ma limitato ai “settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale”. È bene che anche in Italia si cerchi di tutelare i salari dei lavoratori più svantaggiati, non coperti dalle maglie sempre più larghe dei contratti collettivi nazionali. Ma il testo dell’emendamento è ambiguo perché mina alla base l’efficacia del salario minimo, una soglia al di sotto della quale nessuna retribuzione oraria deve scendere, che deve valere ovunque, indipendentemente dalla presenza o meno di contratti collettivi.
LA CRISI E LA MANCANZA DEI MINIMI
La crisi ha messo in evidenza come siano stati i lavoratori meno qualificati e meno istruiti – e anche meno pagati – a sopportare gran parte dell’aggiustamento delle retribuzioni (verso il basso) che solitamente si manifesta durante le fasi di ciclo economico negativo. La figura 1 mostra come, tra il 2007 e il 2011, il 10 per cento di lavoratori con le retribuzioni più basse abbia subito le maggiori decurtazioni del proprio salario, per effetto soprattutto dei mancati rinnovi contrattuali e del calo delle ore lavorate.
Dall’inizio della crisi sono anche aumentate le diseguaglianze retributive tra i lavoratori subordinati (l’indice di Gini è aumentato di oltre 2 punti percentuali) ed è cresciuto il numero di lavoratori che si trovano in condizioni di povertà relativa, i cosiddetti “working poor”, che nel 2013 rappresentano quasi il 16 per cento del totale dei lavoratori dipendenti.
LA REGOLAZIONE DEI SALARI
In quasi tutti i paesi europei (da gennaio 2015 anche la Germania , quindi solo sei paesi europei ne rimarranno privi) vige un salario minimo legale, fissato cioè per legge e uguale per tutti (sono previsti minimi più bassi, in alcuni casi, per i giovani e per gli apprendisti). In tutti questi paesi, è bene ricordarlo, la presenza di un salario minimo fissato per legge non impedisce il normale funzionamento del mercato del lavoro e lo svolgimento della contrattazione collettiva al di sopra di questi minimi. Il salario minimo ha principalmente la funzione di proteggere le categorie di lavoratori più deboli e meno rappresentate che si trovano a rischio di povertà relativa, emarginazione e sfruttamento. In Italia, i sindacati si sono opposti all’introduzione di un salario minimo, sostenendo che i contratti collettivi nazionali fissano già dei minimi retributivi e quindi il salario minimo sarebbe inutile. In realtà le cose sono ben diverse. Primo, la copertura dei contratti collettivi non supera l’80 per cento dei lavoratori dipendenti (dati ICTWSS). Una quota non piccola di quel 20 per cento di lavoratori non coperto dai contratti collettivi è a rischio di basso salario e una quota rilevante si trova in condizioni di working poverty. Secondo, come documentato su questo sito, la contrattazione collettiva è sempre meno in grado di tutelare i lavoratori (subordinati) a rischio di basso salario. In Italia, circa il 13 per cento dei lavoratori risulta avere un salario orario lordo inferiore al minimo contrattuale rilevante per il settore di appartenenza, con punte superiori al 30 per cento nelle costruzioni e in agricoltura. Terzo, le retribuzioni al di sotto dei minimi contrattuali vengono sottostimate dalle statistiche disponibili che non considerano i lavoratori con contratti parasubordinati, gli autonomi (senza dipendenti) e gli irregolari occupati nel sommerso.
PERCHÉ I SINDACATI NON VOGLIONO UN SALARIO MINIMO
La vera ragione per cui i sindacati si oppongono all’introduzione di un salario minimo è legata all’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 della Costituzione, che utilizza (spesso, ma non sempre) i minimi dei Ccnl quale riferimento per la determinazione della giusta retribuzione, di fatto estendendo a tutti i lavoratori la copertura dei contratti collettivi. Non siamo dei giuristi, ma richiamandoci a quanto scritto su questo sito da Alessandro Bellavista, riteniamo che non ci sono ragioni per cui la contrattazione collettiva e la disciplina del salario minimo non possano coesistere. Mentre nel quadro attuale la non attuazione dell’articolo 39 della Costituzione obbliga il lavoratore a ricorrere al giudice per vedere riconosciuto il diritto al giusto salario, in presenza di un compenso minimo legale i lavoratori meno tutelati e a maggior rischio di bassi salari troveranno nella legge una tutela immediata. Per tutti gli altri lavoratori, con retribuzioni superiori al minimo, la giurisprudenza potrà continuare ad utilizzare come riferimento per il giusto salario sia gli accordi aziendali, sia i livelli salariali prevalenti sul mercato del lavoro. Se si vuole davvero introdurre un salario minimo in Italia, ci sono tre nodi da sciogliere: 1) il livello a cui fissare il compenso minimo, 2) le modalità di regolazione e aggiustamento nel tempo, e 3) la copertura e la vigilanza.
IL LIVELLO DEL SALARIO MINIMO
Uno degli aspetti più critici dell’introduzione del compenso minimo riguarda il livello a cui fissarlo. I numerosi studi empirici condotti sugli effetti economici del salario minimo mostrano effetti non-negativi sull’occupazione (a volte anche positivi), e invece positivi su salari e redditi (il lavoro di Wolfson e Belman, 2014, di cui forniamo i riferimenti sotto, rende comparabili i risultati della sterminata letteratura sugli effetti del salario minimo). Gli studi sono anche concordi nel considerare problematico, per l’occupazione, un salario minimo fissato a un livello troppo elevato (soprattutto per quanto riguarda l’occupazione dei giovani e dei lavoratori meno qualificati). In Europa, prendendo in considerazione solo i paesi più simili e vicini all’Italia, il salario minimo (orario) è attualmente fissato a: 4,48 euro in Spagna, circa 7,50 euro nel Regno Unito (6,31 sterline) fino agli 8,5 euro della Germania (dal 2015) e i 9,35 euro della Francia (uno dei livelli più elevati in Europa e non a caso probabilmente oggetto di revisione al ribasso da parte del Governo Valls). Una politica prudente di salario minimo legale in Italia, potrebbe essere quella di fissare un livello compreso tra il minimo salariale spagnolo – che tuttavia coprirebbe solo il 2,5 per cento dei lavoratori dipendenti italiani – e il livello di povertà salariale relativa (convenzionalmente fissato a 2/3 del salario mediano), pari oggi a circa 6,5 euro – che in questo caso coprirebbe circa il 10-11 per cento dei lavoratori dipendenti. Livelli salariali maggiori, come quelli della Germania o della Francia, interesserebbero una quota di lavoratori pari al 30-40 per cento e avrebbero senza dubbio ricadute negative sull’occupazione.
MODALITÀ DI REGOLAZIONE E AGGIUSTAMENTO NEL TEMPO
Le modalità di fissazione e aggiustamento dei minimi salariali adottate nei diversi paesi sono assai diverse. In alcuni casi, i minimi vengono fissati dal Governo sentite le parti sociali o su parere di un’autorità indipendente. In altri casi, l’adeguamento viene fatto con riferimento alla dinamica dei prezzi (e/o dei salari) dopo deliberazione del Governo oppure attraverso meccanismi di indicizzazione automatica. Ancora una volta le esperienze degli altri paesi vengono in aiuto e mostrano come la creazione di un’Autorità indipendente che propone al Governo il livello e gli adeguamenti del salario minimo sia in grado di garantire un buon funzionamento. In primo luogo, perché consentirebbe di monitorare gli effetti sul mercato del lavoro e di adeguare l’efficacia nel tempo. In secondo luogo, perché la delega ad un organo terzo consentirebbe di evitare un utilizzo elettorale dello strumento. Autorità di questo tipo sono già presenti in molti paesi (ad esempio la“Low Pay Commission”nel Regno Unito) e hanno come compito quello di raccogliere ed elaborare informazioni su occupazione, redditi e salari (ma anche prezzi, costi e competitività delle imprese); condurre audizioni formali delle parti sociali (consultando anche imprenditori e lavoratori); nonché effettuare sopralluoghi sul territorio coinvolgendo nel processo anche numerosi stakeholder.
COPERTURA E VIGILANZA
La copertura del salario minimo dovrebbe riguardare tutti i lavoratori subordinati (fatta eccezione per alcune categorie di lavoratori giovani o in contratti formativi), per i quali il contratto di lavoro prevede una retribuzione e un orario di lavoro. Il salario minimo, per essere applicato, deve indicare chiaramente un salario orario al quale tutti i dipendenti e tutti i datori di lavoro possono fare riferimento. Anche per questo l’emendamento del governo, che ne restringe l’applicazione ai settori non coperti dai contratti collettivi, rischia di rendere il salario minimo del tutto inefficace. Discutibile il tentativo di estendere la copertura del salario minimo ai rapporti di collaborazione. In principio è giusto tutelare questi lavoratori, ma la mancanza di un orario di lavoro ben definito (se non indicativamente) nei rapporti di collaborazione rende, allo stato attuale, il salario minimo orario facilmente aggirabile (si veda Lucifora, 2009). Per queste categorie di lavoratori si potrebbe pensare a minimi retributivi mensili, al di sotto dei quali i contratti vengono trasformati automaticamente in contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti, come previsto dal Ddl Nerozzi.
In ultimo, anche se può sembrare banale, sarebbe molto importante garantire un corretto enforcement nell’applicazione del salario minimo legale presso le imprese, sia attraverso una vigilanza capillare, sia mediante l’erogazione di sanzioni in caso di mancata osservanza. Altrimenti, l’efficacia del salario minimo sarebbe assai dubbia.
Riferimenti bibliografici
Wolfson, Paul and Dale Belman, (2014) “What Does the Minimum Wage Do?” , Kalamazoo, MI: Upjohn Institute for Employment Research.
Lucifora, C. (2009) “Una commissione bassi salari e un salario minimo per l’Italia? Valutazioni e proposte” in C. Dell’Aringa e T. Treu, Le riforme che mancano, collana AREL, Il Mulino.
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Maurizio Cocucci
Ho seguito con molta attenzione il dibattito in Germania sul salario minimo che il governo tedesco ha deciso di introdurre e francamente mi trovo ad essere dalla parte di chi lo considera poco utile e con risvolti negativi che ne deriverebbero. E’ vero che in Germania i contratti non sono nazionali collettivi come qui, e per noi lo ritengo un punto negativo infatti auspico che anche in Italia la contrattazione avvenga sul modello tedesco, ovvero localmente, però sul salario lascerei alla libera contrattazione tra lavoratore e azienda.
So bene che questo potrebbe portare da un lato a situazioni di (quasi) sfruttamento, soprattutto in situazioni di crisi economica e di eccessiva disoccupazione come oggi, però c’è anche da dire che salari più bassi possono permettere un maggiore numero di posti di lavoro. Mentre in Germania è presente un welfare che prevede comunque un sostentamento per chi si trova in difficoltà e quindi fissare un livello di salario minimo che causi una riduzione di domanda di lavoro da parte delle aziende che non fossero disponibili a pagare il lavoratore quel minimo non sarebbe fonte di disagio, qui da noi finché tale welfare non verrà introdotto ritengo preferibile che un disoccupato percepisca almeno un reddito per quanto basso invece che niente.
Letizia
Guarda, secondo me perdi di vista un aspetto fondamentale del salario minimo garantito, ossia restituire dignità al lavoratore. L’unico obiettivo delle aziende quando offrono posti di lavoro è di risparmiare il più possibile e spesso, giocando al ribasso, si tende a sfruttare il lavoratore (spesso anche qualificato), senza dargli gli strumenti economici necessari ad una vita dignitosa in un paese dove il costo della vita è mediamente alto. Chiaramente la cifra da stabilire non potrà essere alta, ma non sono più accettabili le situazioni in cui un lavoratore possa essere anche pagato 2-3€ l’ora, condizione che soltanto gli immigrati, che vengono da situazioni di grande disagio, sarebbero disposti ad accettare. Tra l’altro, purtroppo è proprio quest’ultima situazione che porta gli immigrati stessi a non avere una vita dignitosa in Italia, cosa che impedisce loro ulteriormente di integrarsi nella nostra società. Ad ogni modo, come riportato nell’articolo, ci sono fior di studi che dimostrano come il salario minimo garantito possa portare benefici economici, tutto sta a decidere la cifra giusta.
Massimo
2 domande da profano:il salario minimo non rischia un effetto speculare a quello dei calmieri,portando verso il basso i salari sopra quella cifra(ma già bassi rispetto al costo della vita)?
Riesco facilmente ad immaginare chiusure e riaperture di aziende con riassunzione al salario minimo per risparmiare.
Poi,fra poco non partiranno le geremiadi sui salari minimi troooppo alti,che costringono ad aumentare il nero?
Con relativa richiesta di abbassarlo,prontamente colta da qualche parte politica.
rob
“E’ vero che in Germania i contratti non sono nazionali collettivi come qui, e per noi lo ritengo un punto negativo infatti auspico che anche in Italia la contrattazione avvenga sul modello tedesco, ovvero localmente”. Le chiedo se i danni che ha fatto il “regionalismo” ancora non gli bastano? Mi spiega quali vantaggi?
Maurizio Cocucci
Lei si riferisce al cattivo federalismo amministrativo mai attuato completamente che altri risultati non poteva dare. Io non ho mai capito perché la Lega, che è stato il partito che ha basato la sua politica sul federalismo, non ha semplicemente proposto di introdurre il modello tedesco (o austriaco), modello riconosciuto come uno dei più efficienti tant’è che dopo 25 anni dalla riunificazione oggi il Pil pro capite delle regioni ex DDR è del 50% più alto di quello delle nostre regioni meridionali.
Ma venendo alla sua domanda la ragione è semplice: è necessario riferire le retribuzioni sulla base della produttività, produttività intesa come valore aggiunto prodotto per ora lavorata. Così nelle aziende più produttive i salari saranno più alti e viceversa. Nella condizione attuale invece le variabili in gioco vengono per così dire messe in secondo piano, è solo una prova di forza e un baratto con una parte che chiede un determinato aumento e la controparte che offre il meno possibile e il risultato dipende dalla forza contrattuale delle parti in funzione della situazione economica in corso. Poi ci sarebbero altri aspetti da introdurre e copiare dal modello tedesco come la Cogestione (Mitbestimmung) per le aziende più grandi, ma questo richiede un cambiamento radicale della cultura del nostro sindacato il quale deve depoliticizzarsi ed essere unitario e di rappresentanza di ciascuna categoria.
rob
i Sindacati cono coloro che hanno distrutto il concetto di cultura del lavoro, a tuttoggi uno che fa impresa viene definito “padrone” nel loro linguaggio e nella loro cultura uno da abbattere. Del caso FIAT si dovrebbero vergognare. Se parla di germania le porto un esempio: il Germania la nefasta “rivoluzione del ’68” durò 15 gg da noi coloro che ingannarono tanti giovani oggi li incontri con il sigaro in bocca a produrre vino e a farci le filippiche. Un clan come la Lega in Germania sarebbe durato 2 mesi. Il Paese che era stato di De Gasperi, di Togliatti di Vanoni, di Malagodi etc aveva Ministro delle Riforme Umberto Bossi. Di cosa parliamo? Parliamo del dialetto nelle scuole o delle ambasciate regionali per il mondo, di quale Federalismo? La Cogestione? Negli anni ’70 noi produciamo l’Arna e l’ Alfa Sud la VW inventa con Giugiaro ( cacciato dall’Italia) la Golf in un progetto di nuova auto del futuro cogestito tra azienda e sindacato. L’ Arna serviva a creare un bacino di “pecorume votante” comodo al sindacato. Attenzione : la nostra non è una “crisi” di qualcosa la nostra è una crisi culturale un bubbone canceroso, accumulato da 40 anni, che porterà una crisi strutturale senza precedenti. Le avvisaglie si intravedono con la “lungimirante” idea del TFR in pratica arraffare quello che una Italia diversa ha prodotto e accumulato e che oggi non produce più
Luigi Calabrone
Bene. Nel paese dove l’Amministrazione Pubblica non funziona, ignora le leggi vigenti e/o produce mostruosità (vedi la recente richiesta del fisco ad un contribuente per ricuperare 12 cent. di euro), e dove, dal dopoguerra in poi non è stata capace di far funzionare il collocamento pubblico, né di abolire la mostruosità della Cassa Integrazione, né di ridurre il numero dei sei milioni di cause civili pendenti, si propone di istituire una nuova procedura burocratica, che si andrà ad aggiungere tra quelle che intasano i tribunali civili e del lavoro.
Questa proposta, verosimilmente, proviene da studiosi che non hanno idee precise né esperienza su come, in pratica, funzionano i rapporti di lavoro in Italia. Per loro propongo uno stage di sei mesi al tribunale di Milano, in cui assisteranno i giudici, magari compilando i processi verbali di udienza. Probabilmente, dopo questa esperienza cambieranno idea.
Giovanni Teofilatto
Il salario si guadagna, non è profitto e non è usura del lavoro. Attenti, la deflazione aiuterà il più forte!