Gli svizzeri hanno capito che è necessario affrontare i problemi comuni in modo pragmatico e condiviso, pur rispettando le differenze culturali tra le diverse regioni. Un modello valido anche per l’Unione Europea.
DUE MODELLI D’EUROPA
La crisi dell’Unione Europea è tanto economica quanto culturale. Per capire come si possano affrontare i problemi dell’Unione, è interessante vedere se e come sono stati risolti all’interno della Svizzera o in altri Stati, dove le differenze culturali sono rese evidenti dalla diversità linguistica e religiosa. (1)
Gli stati-nazione di cui l’Unione Europea dovrebbe gestire le relazioni economiche e politiche si sono formati a partire dal Cinquecento e fino all’Ottocento. La Confederazione svizzera fu inizialmente incline a partecipare al gioco, ma dopo aver conquistato Borgogna e Lombardia fu sconfitta dalla nazione prototipo, la Francia. Si ritirò in una neutralità permanente e armata e non partecipò né alle successive guerre, né, in tempi più recenti, al processo di formazione dell’unione economica e monetaria che oggi la circonda completamente.
Anche la struttura economico-sociale della Confederazione è rimasta a lungo diversa da quella delle nazioni circostanti. Un mercato unico all’interno della Svizzera è stato introdotto nel 1996, imitando o adottando le misure che già nel 1992 avevano eliminato le barriere commerciali tra Stati europei, all’interno dei quali il commercio di beni e servizi era stato liberalizzato da un paio di secoli. La partecipazione a un sistema pensionistico integrato è diventata obbligatoria solo nel 1985, quando c’erano ancora più di 17mila fondi pensione legati all’impiego in specifiche località e occupazioni. Solo nel 1995 è diventato possibile mantenere tutti diritti pensionistici quando la carriera lavorativa oltrepassa i confini di tali spezzoni di mercato del lavoro. Sempre in un passato relativamente recente è stata introdotta un’assicurazione federale contro la disoccupazione con regole identiche in tutta la Svizzera. A parità di condizioni nel mercato del lavoro e altre caratteristiche individuali, i disoccupati germanofoni approfittano dei sussidi molto meno a lungo dei francofoni. Non è una sorpresa: in tedesco il lavoro rende liberi e felici, in francese travaglia e affatica. Ma è interessante notare quanto sarebbe assurdo se le più o meno ovvie differenze culturali portassero la Svizzera a prevedere regole che dipendono dalla lingua madre del lavoratore.
Gli svizzeri hanno capito che le differenze vanno riconosciute e rispettate, ma sono tante, e si devono tollerare e smussare per poter stare insieme. Anche se la struttura economica delle regioni svizzere le rende sensibili in modo diverso alle fluttuazioni del tasso di cambio, nessun Cantone contempla l’adozione di una moneta differente dal franco svizzero. Ben consci che convivere e condividere gli conviene, gli svizzeri hanno navigato bene in questa crisi, e in altre precedenti, prendendo decisioni necessarie e coraggiose (come l’introduzione di limiti all’indebitamento pubblico, il salvataggio di una banca enorme e l’accumulo di ancor più enormi riserve valutarie per contenere l’apprezzamento del franco svizzero) con un pragmatismo immune dalle polemiche a volte isteriche che si scatenano su temi analoghi nell’Unione economica e monetaria europea.
Anche in Belgio coesistono culture ancora più visibilmente diverse di quelle che popolano l’Italia e altri Stati nazionali; oggi però non riescono più a governarsi bene insieme.
LA MOBILITÀ SENZA REGOLE COMUNI
La Svizzera e il Belgio sono dunque come due Europe in miniatura, di cui una riesce a risolvere il problema che l’Unione Europea deve affrontare, l’altra no. Per capire come mai, si può ricordare che, come in Svizzera, anche in Belgio si è combattuta una breve guerra civile nell’Ottocento. In Svizzera, la vinsero i cantoni economicamente e socialmente più avanzati che, pur prevalentemente germanofoni, concordarono una condivisione del potere politico molto rispettosa delle autonomie locali. È per questo che l’organizzazione socio-economica della Svizzera restò a lungo meno moderna rispetto a stati-nazione come il Belgio, dove la guerra la vinsero i francofoni, e dove uno Stato piuttosto centralizzato non è mai riuscito a integrare in un’identità nazionale belga la cultura fiamminga che si sentiva conquistata. La globalizzazione ha rovesciato le sorti economiche delle regioni belghe: quelle di cultura dominante hanno perso l’industria pesante, le altre hanno potuto sfruttare porti oceanici e una cultura più adatta al mercato che alla burocrazia. Uno shock economico ha minato una coesione istituzionale più densa, ma meno solidamente radicata di quella svizzera. E si può anche sommessamente notare che in Europa l’ultima guerra l’hanno persa i tedeschi, che a lungo hanno dovuto rinunciare ad asserire la propria specificità nazionale e ora potrebbero attribuire a una qualche superiorità culturale, piuttosto che alla buona sorte, il rigoglioso sviluppo della loro economia manifatturiera dopo la Grande Recessione. Capire che un problema culturale in Europa esiste, e discuterne serenamente, è il primo passo per trovare una soluzione.
Alla soluzione dovrebbe contribuire un processo decisionale pragmatico e condiviso come in Svizzera, piuttosto che ideologico e verticistico come nelle nazioni tradizionali e nel complicato e oscuro patteggiare dell’Unione europea. Forse si può creare un’identità europea, come si fece molti secoli fa per l’identità francese, più recentemente per quella tedesca e, meno bene, quella belga. Più realisticamente, gli europei si possono convincere che hanno problemi da risolvere insieme. Di avere problemi in comune gli svizzeri se ne accorsero ai tempi delle guerre mondiali: è legittimo sperare che l’Europa possa compattarsi di fronte a pressioni esterne provenienti da Russia e Medio Oriente.
Della soluzione deve necessariamente far parte anche un sistema integrato di regole, contributi e sussidi per il mercato del lavoro europeo. Gli svizzeri hanno capito nel secolo scorso che un sistema di welfare locale è incompatibile con un’economia moderna, in cui il lavoro deve essere tanto mobile quanto tutelato e hanno provveduto a introdurre pensioni e assicurazioni federali.
Non è facile risolvere questo problema oltre i confini di Stati gelosi delle loro diverse tradizioni sociali e già internamente tormentati da difficili riforme. In febbraio, una risicata maggioranza ha approvato in Svizzera un referendum che vincola la Confederazione a introdurre quote per i lavoratori provenienti dall’Unione Europea. Del resto, nel 2013 il Belgio ha espulso 2.700 cittadini europei che, in quanto disoccupati da più di sei mesi, pesavano sul suo bilancio nazionale. Ma è chiaro che il problema va affrontato perché, in assenza di un sistema integrato di tutele e sussidi, la mobilità del lavoro è destabilizzante sia per la sostenibilità economica degli stati sociali nazionali (che ne sarà dei pensionati greci e italiani se molti dei loro figli e nipoti verseranno contributi in Germania?), sia per la sostenibilità politica di un mercato comune privo di politiche comuni.
(1) I fatti a cui si fa riferimento sono documentati in “Switzerland: Relic of the Past, Model for the Future?” The EEAG Report on the European Economy, CESifo, Munich 2014, pp. 55–73, Da lì sono tratte anche alcune delle considerazioni qui esposte, ma non tutte. Il tema sarà ulteriormente approfondito in un incontro che si terrà presso l’Università Bocconi lunedì 31 marzo
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Paolo
Interessante riflessione. Rispettare culture, tradizioni, civiltà diverse è un’espressione di buon senso. L’imposizione, quand’anche dettata da motivazioni razionali, difficilmente è bene accetta. Mi domando soltanto se il paragone può reggere l’enorme differenza di scala.
umbedx
Non ne farei una questione di “scala”, quanto di “cultura”, quella vera.
Confucius
Finché l’economia tiene e tutti i cittadini sono ragionevolmente soddisfatti della loro situazione, tutto fila liscio. Nella mia villetta con piscina e la Bmw nel box, poco mi importa se il mio vicino parla tedesco, francese, italiano o ladino, se è cattolico, protestante o addirittura musulmano o buddista. Quando l’economia si inceppa, tutto diventa più difficile e nascono le incomprensioni. Il tipico esempio è rappresentato dalla ex-Yugoslavia. Fino a che c’è stata una crescita dell’economia ed una parvenza di benessere, tutto è filato più o meno liscio: popoli che si sono combattuti dal tempo dell’impero bizantino sono stati sotto lo stesso “tetto”. Quando la crescita si è arrestata, sono venute alla luce le differenze tra croati cattolici, serbi ortodossi e bosniaci musulmani, tra sloveni, macedoni, albanesi del Kosovo, montenegrini e serbi, e chi più ne ha più ne metta. Se la Svizzera piombasse nella situazione della Grecia, penso che se ne vedrebbero delle belle! Non a caso, dopo 5 anni di crisi che qualche effetto l’ha avuto anche in Svizzera, nell’ultimo referendum i Ticinesi di lingua italiana hanno pensato bene di incominciare con il dare parere favorevole alla cacciata dei lavoratori stranieri, inclusi i cugini italiani. Lo stesso ragionamento vale per l’Europa. Prima della crisi, tutti erano convinti europeisti; ora ci sono euro-scettici dovunque.
Marco
La Svizzera ha potuto proteggere il sistema bancario dalla crisi perché aveva tutte le risorse per farlo e perché era quasi un obbligo vista l’importanza delle banche nel sistema svizzero. Sono convinto anche io che se ci fosse una vera recessione anche gli svizzeri comincerebbero a litigare fra loro. Ciò non toglie che vale così per tutti e i migliori progressi sociali si fanno sempre in situazioni di benessere. Tutto sta a non regredire troppo nei momenti di difficoltà.
Marco
Posso chiedere una spiegazione a “i migliori progressi sociali si fanno sempre in situazioni di benessere”?
A me sembra più vero il contrario.
Giovanni Battista Meglioli
Sono assolutamente d’accordo. Un esempio,
a mio avviso, è che l’Unione Europea fa delle pressioni così forti anche in campo bioetico (dove, francamente, non sarebbe affatto necessario) tanto da far sentire un forte senso di disagio anche cristiani presenti sul territorio. In questi ambienti, infatti, l’Unione viene vista con occhio piuttosto critico proprio per questa ragione.