Il controllo di Telefonica su Telecom Italia è una buona o una cattiva notizia? Non c’entrano niente i campioni nazionali. Il problema è che non sembrano migliorare le prospettive per lo sviluppo della banda larga. Anche per la probabile rinuncia al progetto di scorporo della rete fissa.
SCORPORO ABBANDONATO
Settimana nera per gli estimatori dei campioni nazionali: in una settimana abbiamo visto l’Inter diventare indonesiana e aumentare le chances di un’Alitalia francese e di una Telecom Italia spagnola. Su quest’ultima vicenda vorremmo soffermarci con alcuni commenti. Partendo dal chiederci se il controllo che Telefonica, attraverso Telco, acquisirebbe in Telecom Italia sia una buona o una cattiva notizia rispetto alla priorità che come sistema paese fronteggiamo nel campo delle telecomunicazioni, vale a dire lo sviluppo di infrastrutture di rete per i servizi a banda larga di nuova generazione.
Lo sviluppo della rete fissa in fibra di nuova generazione ha occupato le pagine dei giornali negli ultimi mesi, in particolare per la proposta avanzata (in modo alquanto riluttante) da Telecom Italia di scorporare gli asset della rete (in rame e in fibra) in una società, Opac, con la possibilità di una sua dismissione a favore di altri soci di controllo, tra i quali l’onnipresente Cassa depositi e prestiti è stata indicata nell’oramai usuale ruolo di deus ex machina.
Un progetto i cui contorni industriali e la cui logica aziendale non sono risultati sin dall’inizio molto chiari, sia per l’opacità dell’operazione, il cui perimetro e i cui attori non erano ben definiti, sia per le motivazioni ultime e le conseguenze possibili per Telecom Italia dopo la dismissione della rete. Oggi non sappiamo se il progetto sopravvivrebbe all’arrivo di Telefonica come socio di controllo, ma molti sono i dubbi in proposito, dal momento che la rete, e i proventi dai servizi di accesso venduti ai concorrenti, rappresentano la principale fonte di liquidità in un sistema telecom sempre più concorrenziale, a vantaggio di chi la rete la possiede.
DEBITI E INVESTIMENTI
Se quindi con l’arrivo di Telefonica possiamo attenderci l’abbandono del progetto scorporo, che malinconicamente ha ballato per una sola estate, occorre chiedersi se il nuovo socio di controllo abbia i mezzi finanziari e gli incentivi per farsi promotore di un piano di sviluppo della rete broadband che supererà i 10 miliardi di euro. Se il forte indebitamento di Telecom Italia è stato considerato come un fattore rilevante di freno all’investimento nella nuova rete, certamente il socio spagnolo non modifica il quadro, dal momento che Telefonica, a sua volta, risulta gravata da un debito di circa 50 miliardi di euro, non meno pesante rispetto alla situazione finanziaria di Telecom Italia. Nonostante gli equilibrismi di governance perseguiti da Telefonica (controllo al 65 per cento, ma diritti voto congelati al 45 per cento), la sovrapposizione dei due operatori sul mercato brasiliano della telefonia mobile imporrà probabilmente, per vincoli antitrust, la dismissione di asset sul quel mercato, ma non ci risulta ovvio che tale liquidità troverà la sua naturale destinazione negli investimenti nella rete italiana.
Anche perché, e qui veniamo agli incentivi di mercato alla costruzione della rete in fibra, il rendimento atteso da questo significativo sforzo finanziario non è in Italia ad oggi esaltante, per la digitalizzazione inferiore nel pubblico italiano rispetto ad altri paesi europei e per fattori strutturali, quali la piccola dimensione media d’impresa, che fa del traffico business un motore meno potente che altrove alla domanda di cloud computing e di servizi internet avanzati. Le moderate prospettive di crescita della domanda di servizi internet ad alto valore aggiunto suggeriscono modularità e gradualità nella predisposizione delle reti broadband, e probabilmente lasciano un ruolo a un contributo pubblico che sia in grado di accelerare il deployment dell’infrastruttura in una logica di promozione, più che di sfruttamento già possibile, delle dinamiche di domanda.
Questa fase di sviluppo può beneficiare forse di una pluralità di iniziative, che affianchino il progetto principale di sviluppo della rete di Telecom Italia con altri investimenti che promuovano una concorrenza infrastrutturale: dal progetto, annunciato un anno fa (e poi finito nel porto delle nebbie) dalla Cdp assieme ad alcuni operatori telecom, di sviluppo di una rete in fibra alternativa a quella di Telecom Italia in 33 città (che in assenza di un reale impegno di Telecom Italia rimarrebbe l’unico progetto in campo), alle prospettive di una strada alternativa, che sfrutti la capillarità della rete mobile (oggi circa 80mila stazioni radio base in Italia) per utilizzare le frequenze, invece del rame o della fibra, per collegare gli utenti alle reti di telecomunicazione a banda larga. Ma da Cdp non giungono segnali, e le prospettive sul mobile sono a tutt’oggi difficili da prevedere. Occorre inoltre riconoscere che se deboli sono gli incentivi dal lato della domanda, deboli sono anche gli incentivi alla nascita di una pluralità di soluzioni infrastrutturali, che potrebbero ulteriormente frenare, piuttosto che promuovere gli investimenti.
In conclusione, l’apparizione di Telefonica sul ponte di comando del principale operatore italiano delle telecom non sembra portare con sé un miglioramento delle prospettive per lo sviluppo della rete broadband rispetto alla situazione attuale, e mandando (plausibilmente) in soffitta il progetto di scorporo della rete riduce anche gli spazi per un contributo da altri operatori, pubblici o privati, alla realizzazione dell’investimento.
Infine, due parole su quella che non ci sembra la questione prioritaria, legata all’italianità del socio di controllo. Su questa bandiera ci siamo recentemente giocati un cumulo di miliardi nella vicenda Alitalia, e non vorremmo assistere a una replica. Il sistema delle telecom europee è ancora frammentato in mercati nazionali e ha di fronte un inevitabile processo di ristrutturazione e concentrazione, che promuova attori in grado di competere sui mercati globali. Ci piacerebbe magari che uno di questi fosse tricolore, ma la piccola concessione patriottica vale assai meno delle necessità di ristrutturazione ed efficienza che le telecom europee devono affrontare. Può accadere quindi che un’azienda importante come Telecom Italia cambi casacca e vesta i colori spagnoli. Anche per ricordarci che quello che continuiamo a osservare non è tanto la frequenza delle scalate di aziende italiane da parte di investitori stranieri, ma l’assenza di scalate di investitori italiani all’estero.
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Enrico
Primo: difficilmente Telefonica potrà fare peggio della gestione degli ultimi 15 anni che ha trasformato una grande azienda potenzialmente molto innovativa (il formato MP3, se non sbaglio, è stato inventato allo cselt, centro ricerche Telecom a Torino) nell’ombra di se stessa. Non si capisce bene cosa faccia oggi oltre ad affittare l’infrastruttura pagata dagli italiani quando era monopolista. Lo scorporo doveva esserci *prima* della privatizzazione.
Secondo: ma perchè questa paura di investimenti esteri? Non si sta cercando di attrarli?
Concordo in pieno con l’ultimo punto: mancano le scalate di investitori italiani all’estero. Forse perchè i tanto decantati capitani coraggiosi lo sono solo in patria dove hanno legami con il potere invece che all’estero dove ci si confronta con investitori che sanno veramente fare il loro mestiere.
Libero pensiero
condivido in Toto.
Luca
Quello che ha osservato il Prof. Bagnai sul suo blog, e che forse non tutti sanno…
http://goofynomics.blogspot.it/2013/09/smoke-sales.html
…è che l’euro ha fatto aumentare notevolmente gli investimenti diretti esteri in Italia. Il motivo è semplice, mentre prima della moneta unica l’investitore doveva preoccuparsi della redditività dell’investimento ma anche della volatilità del cambio, oggi quest’ultimo non è più una variabile, e a quanto pare le nostre imprese (nane, brutte, cattive e che non fanno ricerca) sono molto appetibili agli investitori stranieri. E ogni volta che un’azienda italiana diventa francese, tedesca, o spagnola, perdiamo una parte del reddito nazionale (e del gettito fiscale).
Per quanto riguarda l’assenza di scalate di investitori italiani all’estero, vi rimando ai dati macroeconomici delle partite correnti (in negativo dall’entrata nell’euro), alla produzione industriale (-26%), al calo dei consumi ai livelli di 20 anni fa, ecc. ecc.
Basta per capire come mai le aziende italiane non hanno risorse per fare investire all’estero?
sono_tornati_gli_yuppies_padan
lo chieda ai tedeschi o ai francesi se non c’entra niente con i campioni nazionali..
(io sono stato in Francia una vita) visto che i tedeschi e i francesi piuttosto che cedere asset strategici sarebbero capaci di qualsiasi nefandezza..
anche quella di corrompere o comprare banche, politica e i media del resto d’Europa..
pur di deformare l’informazione negli altri paesi concorrenti..
michele
La civenda è molto interessante.
Telecom senza lo scorporo non vale nulla e Telefonica lo sa bene, perciò se il governo fa un decreto per scoporare o nazionalizzare la rete… l’affare salta.
Piero
La svendita della Telecom fu fatta all’epoca della privatizzazione, oggi è giusto che essendo una società privata vada a chi ha i soldi, almeno chi investe nella società la renderà efficiente, in modo tale da dare più servizi agli utenti, ma alla fine dei conti di tutte le società di telefonia nate in Italia, quante ne sono rimaste italiane? Nessuna, allora di cosa dobbiamo preoccuparci, la verità e’ molto diversa, si è voluto portare in modo massiccio sui mass media tale problema che problema non e’, per non parlare dei veri problemi dell’Italia che non sono come sono rappresentati furbescamente dal ministro dell’economia, la verità e che se non cambia la politica monetaria europea nel 2014 avremmo un Pil con -3%, nessuno dei nostri politici ha il coraggio di puntare i piedi in Europa o di mettere in discussione l’euro, questo e’ il vero problema e i poteri forti che controllano l’informazione lo nascondono con la storia Telecom.
Libero pensiero
Lo scorporo della rete- per evidenti ragioni- avrebbe dovuto essere fatto prima della so-called ‘privatizzazione all’Italiana’ (pronuncia: profitti private per gli amici, relitti socializzati/pubblici)
Libero pensiero
Editoriale anodino
e ‘mandando (plausibilmente) in soffitta il progetto di scorporo della rete riduce anche gli spazi per un contributo da altri operatori, pubblici o privati, alla realizzazione dell’investimento’.
proprio li’ la crux. rete pubblica ‘socializzata’ -pro bono – ad operatori stranieri?
Head cutting mode: e’ un corollario della meritocrazia.
Zero ritorni in Italia? il contributo ..a spese di chi?. at the taxpayers’ expense? fino alla prossima…privatizzazione?
Chi ha compiuto scelte errate- non occorrono studi specialistici, per avvedersene – si dedichi ad altro.
Ma cosa si pubblica?
NewDeal
Purtroppo, si tratta ‘solo’, di un mero caso di estrazione – politica- di utilita’ pubbliche. tema ricorrente, in Italia.
Davvero creative, infine, la definizione di Bernabe’, il quale inquadra la vicenda quale ‘ristrutturazione’.
Alberto
Fare impresa è una cosa difficile ma chi lo fa in Italia ancora di più.
Se gli spagnoli acquistano Telecom e la cosa dispiace all’Italia, perché non ci avevano pensato prima per evitare questa situazione ? Bernabè che non sapeva nulla (?!) ma dal Corriere della sera : “il numero uno della compagnia telefonica ha espresso anche una critica – nel corso della sua odierna audizione dal Senato – al «sistema Italia», prima latitante e ora allarmato: «Per arrivare a scelte differenti – ha detto il presidente –
dovevamo tutti quanti pensarci prima». «Non si può – ha aggiunto – reagire con minacce come la nazionalizzazione della rete». E ancora: se «il sistema Italia fosse stato davvero così preoccupato del futuro di Telecom Italia come negli ultimi due giorni forse sarebbe stato possibile un intervento più strutturale».
Ci si auspica che gli stranieri investano in Italia, ma come si desidera che investano ?
Mettendoci i loro soldi per creare dei posti di lavoro per italiani con la burocrazia, le infrastrutture, la pressione fiscale nostrana e con leggi ad effetto retroattivo per la cui interpretazione non basta l’oracolo ?
Sono gli imprenditori italiani i primi che dovrebbero essere chiamati per mantenere o rendere il paese una potenza economica, ma giorno dopo giorno i marchi o vengono acquistati dagli stranieri o chiudono e le piccole imprese, se possono, espatriano, vanno in Polonia, in Carinzia, in Ungheria, in Slovenia addirittura in Germania dove lo Stato rende la vocazione naturale di un’azienda più possibile. Altre Nazioni che, come sirene, invitano ad investire con la promessa di non far pagare tasse per un lustro a condizione di creare posti di lavoro. In fin dei conti si fa impresa per gli utili.
Jacopo Piletti
Forse perché le nostre industrie hanno voluto fare le cicale e non le formiche? senza poi contare di far i giochini di potere tipo rcs o alitalia . Poi attaccare l’euro è come uno studente universitario che si lamenta che il prof è severo e non lo lascia copiare quando non ha studiato
Alessio
Articolo inesatto nelle sue affermazioni finali
“l’assenza di scalate di investitori italiani all’estero”. Senza scomodare la solita Fiat, il saldo tra scalate estere in Italia (43 md) e quelle italiane all’estero (26 md), è di 2 a 1. Parlare di assenza mi pare fuori luogo….
Evidentemente chi ha scritto questo articolo osserva dalla parte sbagliata. Insomma le solite severgninate: tanti luoghi comuni, fuffa e il solito piagnisteo sull’Italia confrontata con l’estero.