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Quando la legge diventa alchimia: la lista del Cda*

Il disegno di legge che dovrebbe rafforzare il mercato dei capitali introduce la possibilità che il Cda uscente presenti una propria lista di candidati. Si profilano risultati paradossali se la lista vince senza però ottenere la maggioranza assoluta.

Il disegno di legge

Il 24 ottobre 2023 il Senato ha approvato, e trasmesso alla Camera, un disegno di legge governativo che prevede interventi a sostegno della competitività dei capitali e la delega per la riforma del Testo unico della finanza (Tuf). Tra l’altro, il Ddl introduce in quest’ultimo un nuovo articolo 147-ter.1 destinato a regolare l’ipotesi che, in occasione del rinnovo assembleare dell’organo amministrativo di una quotata, il consiglio di amministrazione uscente presenti una propria lista di candidati.

È interessante vedere come opererebbe la nuova norma, inedita a livello comparatistico.

Il cuore della disposizione ha come presupposto che la lista del Cda sia quella che ottiene in assemblea il maggior numero di voti (maggioranza relativa), sia cioè quella vincente, e riguarda quattro aspetti: i) come i seggi vengono ripartiti tra lista del Cda e altre liste; ii) come i seggi spettanti alle liste perdenti vengono fra esse distribuiti; iii) come vengono individuati, nell’ambito della lista del Cda, i candidati eletti; iv) quali altre conseguenze ha la vittoria della lista del Cda.

La regola generale

Partiamo dalla regola generale oggi vigente e che anche in futuro troverà applicazione quando il Cda non presenti una sua lista oppure, pur presente, non risulti vittoriosa. In questi casi si applica, e continuerà ad applicarsi, l’articolo 147-ter, comma 3, Tuf e, quindi, salvo che lo statuto non preveda regole più favorevoli alle minoranze, i seggi vengono attribuiti tutti alla lista vincente (anche per un solo voto di differenza e pure se resta ben lontana dalla maggioranza assoluta), salvo uno che va in favore della lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti e non sia collegata, in alcun modo, neppure indirettamente, con i soci che hanno presentato e votato la lista risultata prima.

La nuova norma non prevede novità per queste ipotesi e si può solo lamentare che non sia stata colta l’occasione per chiarire se la lista del Cda perdente partecipi o no all’assegnazione dei posti spettanti alle minoranze.

Se vince la lista del Cda

Nel caso in cui la lista del Cda risulti la più votata, e dunque troverebbe applicazione la nuova norma, occorre distinguere due ipotesi.

La prima è quella in cui il totale dei voti raccolti dalle due liste perdenti più votate (per intendersi, la medaglia d’argento e quella di bronzo) non superi il 20 per cento del totale di quelli espressi in assemblea; in questo caso, alle liste perdenti spetta comunque il 20 per cento dei seggi e la loro ripartizione avviene proporzionalmente tra le due. Abbiamo, quindi, un inedito “premio di minoranza”: qualunque sia la percentuale di voti raggiunta il meccanismo, infatti, sovra-rappresenta le minoranze assicurando loro almeno il 20 per cento dei seggi; anche nell’ipotesi in cui i voti raccolti dalle due liste (o, in ipotesi, anche da una sola lista) rappresenti un’inezia rispetto al totale dei voti espressi. Una bella differenza rispetto all’art. 147-ter, comma 3, Tuf ove è invece sancito un premio di maggioranza che può essere anche molto cospicuo.

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La seconda ipotesi, quella in cui si annidano le maggiori sorprese, si ha quando il totale dei voti raccolti dalle due liste perdenti più votate superi il 20 per cento del totale dei voti espressi in assemblea. In questo caso, la regola base diviene quella della proporzionalità. Seguendo il dato letterale della norma i calcoli da fare sono i seguenti: a) se le liste che si aggiudicano argento e bronzo superano il 20 per cento dei suffragi, allora alle liste di minoranza in aggregato spetta un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti da tutte le liste perdenti (non solo le prime due); b) a questa assegnazione, però, concorrono solo (ma anche tutte) le liste che abbiano ottenuto almeno il 3 per cento dei voti (quindi, a prescindere dalla conquista del podio). La proporzionalità, dunque, vige solo per la prima ripartizione (quella tra lista vincente del Cda e liste perdenti), ma non per la seconda (quella tra le perdenti); in quest’ultima è incorporato un potenziale “premio di maggioranza” per la minoranza che raggiunge il 3 per cento, la quale si avvantaggia dei voti ottenuti dalle liste che non arrivano a tale livello (e talvolta anche di quelli delle liste che lo raggiungono).

La conseguenza è presto detta: se si ipotizza che la lista del Cda vinca, ma senza ottenere la maggioranza assoluta e che, per via degli altri vincoli, la lista “medaglia d’argento” si aggiudichi tutti i seggi spettanti alle perdenti, il risultato è che l’argento si trasforma in oro e la relativa lista ottiene la maggioranza assoluta dei seggi in Cda. Chi vuole può provare a fare i conti: se si devono eleggere quindici consiglieri e la lista del Cda ottiene il 49 per cento dei voti, la lista Alfa il 48 per cento (o anche il 48,5 per cento) e la lista Beta il 3 per cento (o anche il 2,5 per cento), ne spettano 7 a chi vince e 8 a chi perde.

Ipotesi di scuola? Non proprio. Si è andati vicini a esiti del genere nell’assemblea di Generali del 2022 e in quella di Mediobanca del 2023. Nel primo caso, la lista del Cda ha ottenuto il 56,2 per cento dei voti, quella insurgent il 41,9 per cento e quella degli investitori istituzionali l’1,9 per cento. Nel secondo caso, la lista del Cda ha ottenuto il 53,1 per cento dei voti, quella insurgent il 42,2 per cento e quella degli investitori istituzionali il 4,7 per cento. Oscillazioni di voto non enormi potrebbero portare al paradosso sopra indicato. Comunque, anche con i risultati storici, l’applicazione della nuova regola avrebbe portato a una composizione consiliare poco coerente con l’obiettivo di una governance efficiente, giacché la lista vincente del Cda avrebbe ottenuto la più risicata delle maggioranze.

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Avrebbe comunque ottenuto la maggioranza, si può dire. Sì, ma le nuove regole non finiscono qui. La vittoria della lista del Cda, anche se di Pirro, infatti, porta con sé due ulteriori conseguenze.

Per un verso, se la società ha (come quasi tutte le quotate hanno) un comitato di controllo interno e gestione dei rischi, la sua presidenza spetta di diritto a un amministratore indipendente tratto dalla lista – o liste – di minoranza (anche se si tratta della lista di minoranza che, in ipotesi, ottiene la maggioranza assoluta dei seggi).

Per altro verso, poi, la minoranza concorre a selezionare i “vincenti” nell’ambito della lista del Cda. Se la lista del Cda vince, infatti, l’assemblea (non i soli soci che hanno votato la lista vincente) procede a una nuova votazione individuale sui singoli candidati di tale lista e risultano eletti quelli che ottengono i maggiori suffragi. In altri termini, le minoranze – signore assolute delle loro designazioni in liste “bloccate” – concorrono a scegliere gli amministratori nell’ambito della lista “vincente” del Cda sicché potrebbe anche darsi il caso che quest’ultima vinca e ottenga la maggioranza dei seggi, ma non riesca poi a insediare chi era destinato alla carica di amministratore delegato o a quella di presidente. Con buona pace dell’esigenza, sempre sottolineata, di ottimizzare la composizione quali-quantitativa del board.

Questi i dati. Ai lettori il commento.

* L’articolo rappresenta il sunto di un lavoro in corso di pubblicazione sulla Rivista delle società.

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Un grillo nel piatto*

  1. Salvatore Bragantini

    Grazie al professor Presti; questa norma è ben peggio di quanto appare a prima vista. Il parlamento che si accoda alle richieste di un singolo privato cittadino. Il cavallo di Caligola diviene senatore

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