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Tutto cambia, ma non la Rai

L’organizzazione Rai è caratterizzata da dirigenti e giornalisti con forti fedeltà politiche, che si frappongono a ogni ipotesi di cambiamento. Intanto, il mondo della televisione si cimenta con il tramonto del duopolio e l’affacciarsi di nuove crisi.

A nuovo governo nuova dirigenza Rai

La Rai è sotto i riflettori, come spesso accade nei periodi di scontro politico. Negli ultimi mesi ci sono state molte nomine in sintonia con la maggioranza di governo, tentativi di comprimere lo spazio di conduttori o personaggi percepiti come non allineati che hanno portato, questa sì è una novità, al passaggio di alcune star in altre reti, interventi abbastanza diretti nei contenuti dei programmi.

Sebbene gli interventi siano stati fatti con una particolare intensità e con diverse goffaggini, occorre riconoscere che si tratta essenzialmente delle stesse cose che hanno fatto quasi tutti i governi negli ultimi trent’anni, sia pure forse con più savoir faire. Allo stesso tempo, come i governi precedenti, l’esecutivo attuale si è preoccupato poco di sviluppo industriale, di come riorganizzare un settore televisivo attraversato e sconquassato dall’innovazione tecnologica e di come garantire la continuità di un operatore di servizio pubblico che appare da diversi anni in una situazione pre-Alitalia. L’approccio del governo è stato reso più discutibile dalla sensibilità dell’Europa al tema, cosicché nell’articolo 5 del Media Freedom Act, approvato in marzo, prescrive che gli stati devono assicurare l’indipendenza del servizio pubblico televisivo, la continuità dei finanziamenti e procedure di nomina del direttore e degli amministratori che siano finalizzate a garantirne l’indipendenza.

Un mondo in cambiamento

Negli ultimi dieci anni è cambiato il mondo della televisione e anche se gli ascolti medi sono sempre superiori alle 4 ore giornaliere, sono in corso vari movimenti tellurici. Sul versante degli ascolti qualcosa è stato rosicchiato dalle piattaforme video on demand e dai video in rete, fenomeni che si riflettono nella riduzione di ascolto giovanile e nel calo della copertura giornaliera. Sull’altro versante del mercato, i ricavi pubblicitari sono scesi più per Rai che per Mediaset, come si vede dai ricavi per punto di share (che nel caso di Rai sono sotto i 20 milioni annui), per effetto da un lato della crescita della pubblicità digitale, che non obbliga ad acquistare gruppi predefiniti di ascoltatori e consente una migliore segmentazione, e dall’altro della perdita di centralità della televisione in alcuni target chiave commerciali.

Dal 2009, con la transizione al digitale terrestre i molti canali, specializzati e poveri, hanno man mano rosicchiato quote di mercato ai sei canali principali, che ora coprono poco più di metà dell’ascolto complessivo rispetto all’85 per cento dei primi anni Duemila. Qui la cosa rilevante non è tanto il calo di breve periodo di un canale o di un operatore, quanto la più corta distanza tra i potenziali nuovi concorrenti e i canali minori dei due leader.

Al contrario di quello che molti credono, la ragione principale della concentrazione nei mercati televisivi non è tanto la scarsità delle frequenze quanto i costi fissi nella produzione di programmi. I costi per produrre un programma sono indipendenti dalla quantità di spettatori che raggiunge. Allo stesso tempo sono proprio i contenuti dei programmi, e quindi i suoi costi fissi, la maggiore determinante della qualità e attrattività di una televisione. Quando gli ascolti vengono rosicchiati da vari canali specializzati, cala l’ascolto dei vecchi protagonisti, ma calano anche le risorse che è ragionevole investire per produrre i programmi.

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Finché i candidati a crescere erano tre volte più piccoli dei canali minori dei due leader, l’entrata era molto difficile. I nuovi entranti avrebbero dovuto investire nei programmi la cifra delle reti più grandi ma, vista l’inerzia dell’ascolto, per tutto il periodo di crescita sarebbero incorsi in perdite pesanti, come è capitato a lungo a La7. Quando i canali minori sono al 4-6 per cento di share, la rincorsa diventa possibile con qualche investimento e una conoscenza della concorrenza televisiva. E infatti Fabio Fazio e Amadeus possono passare sul canale Nove senza che ciò appaia un azzardo.

L’organizzazione della Rai

I telegiornali sono un esempio macroscopico delle difficoltà organizzative e della rigidità strategica che caratterizza l’azienda e che rende difficile rispondere alle trasformazioni tecnologiche in corso.

A ogni cambio di governo e a ogni scadenza di consiglio di amministrazione (ogni 3 anni), vengono nominati in Rai nuovi amministratori e direttori dei tg. Ognuno nomina o promuove un gruppo di comando di una decina di dirigenti. Non si tratta di posizioni a termine legate al breve mandato. Al giro successivo vengono rimpiazzati da nuovi, più allineati, e redistribuiti per uffici e redazioni con incarichi minori o sinecure. In una redazione prestigiosa – come esteri ed economia – è facile che ci siano 3-4 tra ex direttori o vicedirettori a cui è difficile chiedere di uscire per un servizio e di conseguenza non è facile pretendere dagli altri una qualche forma di produttività. Nel Tg1 oltre metà dei giornalisti in forza sono “graduati”. La situazione naturalmente provoca una rilevante crescita dei costi e un abbassamento della produttività, che in passato era assorbita dalle rendite di duopolio, che il concorrente privato trasformava in sovraprofitti.

Di conseguenza, l’organizzazione Rai è caratterizzata da decine o centinaia di dirigenti manageriali e giornalisti con forti fedeltà politiche, che passano il tempo a inseguire i loro referenti interni ed esterni, non sempre sono concentrati sul loro lavoro e che però occupano caselle rilevanti degli organigrammi e costituiscono un corpaccione molle, capace di bloccare ogni innovazione e cambiamento sollecitato da eventuali meno arbitrari processi di nomina degli amministratori.

Col passare del tempo, con l’incertezza strategica e con modelli organizzativi orizzontali che sono lo standard di mercato, ma velleitari per la cultura Rai, l’azienda si è progressivamente balcanizzata e per molte figure professionali chiave le decisioni non vengono prese dai superiori gerarchici, ma dai consiglieri di area, dai politici di riferimento o da intermediari nel mercato dei fattori produttivi quali gli agenti. Se tutto ciò è accettabile quando si vive la tranquillità del monopolista, una situazione di questo tipo diventa pericolosa in periodi di intensa trasformazione della tecnologia e del mercato, che porta a un progressivo peggioramento dei conti. L’evoluzione organizzativa dove le responsabilità non sono ben definite ha accompagnato, e accentuato, gli effetti di uno spoils system particolarmente vorace, che ha lasciato meno spazi del solito all’opposizione e ha deteriorato le performance industriali di aree come Rai 3, facilitando in questo modo l’uscita di talenti che vedevano all’esterno più possibilità di sviluppo.

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Non a caso, nel piano industriale in discussione gli investimenti programmati sono finanziati con la cessione di asset, in particolare quella di Raiway, che è evidentemente una fonte di finanziamento incerta, ma soprattutto non ripetibile. 

Ci sono tante aree critiche: gli oltre 1.500 giornalisti sono ancora impegnati in processi molto tradizionali e sembrano impermeabili ai modelli suggeriti dal nuovo contesto digitale, soprattutto nel corpaccione conservatore delle redazioni regionali; la presenza multimediale è ancora poco più che nominale (ma anche i concorrenti privati non stanno molto meglio) e la capacità di adottare modelli produttivi leggeri, indispensabili quando le share medie si abbassano, appare piuttosto incerta.

Un futuro incerto

La crisi appare all’orizzonte dei broadcaster tradizionali. Nei prossimi dieci anni potrebbe ragionevolmente succedere alle televisioni quello che è accaduto nell’ultimo decennio nei giornali. E allora i 13 mila dipendenti della Rai saranno un problema, con il finale Alitalia che potrebbe diventare inevitabile.

In un contesto che si aggrava così rapidamente, fa sorridere che la politica continui a preoccuparsi di quanto sono vicini politicamente ospiti e conduttori o si concentri sulla nomina di capiredattori regionali amici per poter raccogliere qualche preferenza.

Forse sarebbe più utile che dicesse come potrebbe essere organizzato il mercato televisivo (che rimane molto regolato), come deve evolvere il servizio pubblico, tutte scelte profondamente e giustamente politiche, in modo da dare linee guida e obiettivi espliciti ai manager cui viene via via affidata un’azienda potenzialmente preziosa. Poi questi manager andrebbero misurati su quegli obiettivi con strumenti di valutazione visibili a tutti e non su sgarbi politici. Ma qui, naturalmente, stiamo sognando.

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All’acqua serve un ministero

  1. Savino

    Tra le difficoltà di quest’epoca, c’è quella di trovare un giornalismo obbiettivo; un problema ormai arrivato alle radici della deontologia professionale. Si viene assunti in Rai e nei grandi gruppi editoriali di questo Paese per ripetere a pappagallo il verbo di chi comanda o per concordare alla virgola pezzi e interviste fasulle. E’ una criticità notevole della attuale democrazia ed è tra i motivi dell’astensionismo e della diffidenza verso chi guida le istituzioni, nonchè verso chi si mostra non certo spassionatamente fedele. Un’impressione ancora più brutta viene evidenziata, in quest’ultima fase, nelle figure femminili che esercitano questa professione e mostrano questa estrema fedeltà, laddove ne fa le spese il ruolo sociale della donna, facilmente e strumentalmente sottomessa al potere.

  2. B&B

    Quando al governo ci sono opinioni diverse dalla sinistra, allora tutto deve cambiare, iniziano i moti antigovernativi, la CGIL in piazza, i rompi-vetrine all’opera ecc.
    Quando invece al governo riescono, non per elezione ma per truffa di palazzo, a entrare i comunisti allora tutti zitti, le lottizzazioni vanno bene, ci sono slo loro, aumentano solo le estorsioni.

  3. Gianni 2

    Ho lavorato in Rai come dipendente per diversi anni. Confermo le impressioni del professore riguardo la “più grande azienda culturale” del Paese, come amano chiamarla i propri dirigenti. L’andamento della Rai è simile a quello di un circolo sociale, dove si mischiano interni ed esterni in una curiosa commistione di favori e richieste. Non c’è criterio di efficienza ma criterio di ubbidienza. Manca un vera cultura aziendale.
    Le promozioni vengono garantite da un mero sistema di anzianità per i “comuni mortali”.
    Non c’è metodo nello sviluppo delle persone, non ci sono valutazioni di performance.
    Che dire, è un vero peccato che si sia arrivati a questa situazione, per la quale mi viene in mente solo l’extrema ratio del Repulisti generale, con la creazione di una Bad Company e l’azzeramento quasi- totale di tutta la classe dirigente.

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