Dopo il successo negli anni Sessanta, per Alitalia è iniziato il declino. Quando non è più stata in grado di finanziarne lo sviluppo, la proprietà pubblica avrebbe dovuto rinunciare al controllo e favorire l’integrazione industriale con altri vettori.
Le tre fasi di Alitalia
Alitalia è stata la compagnia aerea di bandiera del nostro paese dal 1946 al 2021. Nei suoi 75 anni di attività i tentativi di aggregazione con altri vettori sono stati vari e sempre falliti. Il primo, il progetto Cempella con Klm, è del 1999. L’ultimo – quello di successo – riguarda l’erede della compagnia, Ita Airways, e si è concluso da poco, con l’ingresso di Lufthansa nel capitale sociale, con una quota del 41%, dopo un lungo percorso autorizzativo presso l’antitrust europeo.
Ma quali erano le ragioni industriali che motivavano, allora come ora, l’aggregazione? E quali sono le prospettive industriali di Ita dopo l’ingresso nella gestione del vettore tedesco? Alla prima domanda provo a rispondere qui, alla seconda in un altro articolo.
Il primo volo di Alitalia fu il Torino-Roma-Catania del 5 maggio 1947, l’ultimo il Cagliari-Fiumicino del 14 ottobre 2021. Tra i due voli sono trascorsi tre quarti di secolo meno un semestre, e ognuno dei tre rappresenta uno dei capitoli in cui può essere divisa la storia del vettore nazionale: un primo quarto di secolo, dal decollo alla vigilia della prima crisi petrolifera, di grandi e inattesi successi; un secondo offuscato dalle due crisi petrolifere, ma di accettabile transizione e dignitosa sopravvivenza; il terzo è costellato da crisi in serie, ognuna più grave della precedente, tali da condurre a due amministrazioni straordinarie, nel 2008 e nel 2017, e alla fine dei voli.
Le ragioni del successo
Il primo quarto di secolo è la storia dei successi industriali ed economici di Alitalia, caratterizzato da una continua crescita della flotta, dei passeggeri, dell’immagine internazionale del vettore e da bilanci stabilmente in utile; l’ultimo è la storia degli errori compiuti, interni ed esterni all’azienda, strategici, gestionali e delle politiche pubbliche del trasporto aereo. Quali ragioni spiegano i successi del primo periodo e quali i disastri dell’ultimo?
Anche se i fattori sono molteplici, uno appare dominante: la capacità dell’azienda di tenere o meno il passo del mercato, crescendo nella flotta e nella capacità offerta almeno alla stessa velocità della domanda. Lo ha scritto con parole profetiche lo storico presidente e fondatore della compagnia, il politico liberale Nicolò Carandini, nell’introduzione al numero straordinario della rivista aziendale “La Freccia Alata”, pubblicato nel 1967 per celebrare i successi dell’azienda nel suo ventesimo compleanno. Scrive Carandini: “questa è un’industria che non vive se non crescendo, in cui chi si arresta non può che retrocedere sotto la pressione di una implacabile concorrenza”. La capacità crescente dell’industria, resa possibile dal progresso tecnologico nelle costruzioni aeronautiche che ne determina nel tempo costi decrescenti, è destinata a “sollecitare sempre più vasti afflussi di nuovi traffici” e a favorire una “politica di ribassi tariffari da parte delle più potenti compagnie (…)”, che darà luogo a una “battaglia dei prezzi nella quale è destinato a soccombere il vettore che non si adatterà sul piano concorrenziale a dare un’adeguata risposta alla dinamica richiesta dal mercato con i necessari rinnovi di flotta e l’adeguato tasso di espansione”.
In queste parole è la miglior spiegazione del successo iniziale e del successivo declino di Alitalia. Finché l’azienda ha potuto competere con la flotta necessaria, per quantità e modernità, è riuscita a resistere sul mercato; quando non ha più potuto espanderla e rinnovarla, per miopia gestionale e per scarsità di fondi dell’azionista pubblico, ha visto progressivamente diminuire la capacità competitiva sino a perdere l’ultima decisiva battaglia dei prezzi, condotta nell’ultimo ventennio dai vettori low cost, i quali ora dominano il mercato italiano del breve e medio raggio, domestico ed europeo.
Nella competizione tra vettori, i rinnovi e gli incrementi di flotta sono essenziali perché permettono di accedere a velivoli più moderni e competitivi, caratterizzati da prestazioni migliori, minor inquinamento e rumorosità e soprattutto consumi ridotti. Con aerei più moderni si può offrire capacità crescente a costi decrescenti e spingere progressivamente ai margini del mercato, sino a farli fuoriuscire, i vettori non altrettanto rapidi negli investimenti e nella transizione a flotte più moderne e competitive.
Negli anni Sessanta, all’apice del successo, Alitalia aveva una flotta all’avanguardia, tanto da essere la prima in Europa a dotarsi di aerei esclusivamente a reazione. Invece, dall’inizio del nuovo millennio, quando la liberalizzazione europea ha permesso di dispiegare completamente le potenzialità del mercato, accelerandone a dismisura la crescita grazie all’aumento della concorrenza e all’abbattimento dei prezzi, Alitalia ha smesso di crescere e di rinnovarsi per la scarsità di risorse dell’azionista pubblico e per la mancata ricerca di risorse private attraverso processi d’integrazione. Di conseguenza, non ha più tenuto il passo della domanda e del mercato, a differenza di tutti i grandi vettori europei di bandiera, i quali hanno anche saputo riposizionarsi sul lungo raggio. Ha così perso la capacità di operare in equilibrio economico a causa di tariffe che la pressione competitiva dei vettori low cost ha reso rapidamente decrescenti, più di quanto potesse avvenire dal lato dei suoi costi di produzione attraverso un’efficiente gestione.
Nel 1997, al completamento della liberalizzazione europea, in Italia non era presente alcun vettore low cost, il primo ad affacciarsi sul mercato fu infatti Ryanair con il collegamento da Londra a Treviso, che debuttò il 7 maggio 1998. Partendo dai pochi passeggeri del 1998, nel 2014 Ryanair ha superato i 26 milioni, divenendo in quell’anno il primo operatore italiano davanti ad Alitalia, ferma a 23 milioni. Nel 2019, prima della battuta d’arresto del Covid, i vettori low cost hanno complessivamente trasportato in Italia 88 dei 160 milioni di passeggeri totali, con una quota di mercato del 55 per cento. Nel 2023 il mercato italiano è tornato ai livelli pre-Covid, con 163 milioni di passeggeri totali. Di essi oltre 55 milioni sono stati trasportati dal gruppo Ryanair, quasi il quadruplo rispetto ai 15 milioni di Ita Airways. I vettori low cost nel loro complesso hanno invece trasportato 105 milioni di passeggeri, il 64 per cento del mercato, valore che sale al 75 per cento se si esclude il segmento del lungo raggio, sul quale non operano in quanto non si presta a un uso più intensivo delle macchine, che è un fattore chiave del loro successo.
Il dopo-liberalizzazione
Quanto avrebbe dovuto crescere la vecchia Alitalia, dopo la liberalizzazione, per tenere il passo del mercato, seguendo il consiglio dello storico presidente Carandini? A metà anni Novanta trasportava 21 milioni di passeggeri quando il mercato non arrivava ai 45 milioni e ne ha trasportati 22 milioni nel 2019, quando il mercato aveva raggiunto i 160. Mentre il mercato è quasi quadruplicato, la quota di un’Alitalia stazionaria si è specularmente ridotta, passando dal 48 per cento del 1996 al 13,6 per cento dell’anno pre-pandemia. Per tenere il passo del mercato avrebbe invece dovuto moltiplicare per quasi quattro volte la sua capacità e dunque per almeno tre la sua flotta, considerando che gli aerei ora utilizzati sono in media più capienti. Pertanto, nel 2019 avrebbe dovuto volare con circa 450 aerei rispetto ai 115 in flotta in quel periodo. Chi avrebbe dovuto comprare gli oltre 330 aerei mancanti? Le casse pubbliche?
Era evidente che per fare in modo che Alitalia potesse crescere in linea col mercato, lo stato doveva accettare di ritirarsi dal controllo della compagnia e favorire un processo di privatizzazione e di integrazione industriale con compagnie analoghe, possibilmente più robuste, e non, come invece è avvenuto, con azionisti privati amatoriali, i “capitani coraggiosi”, che non erano del settore, avevano poche risorse economiche e ancora meno idee strategiche. Se l’azionista pubblico non era più in grado di garantire lo sviluppo dell’azienda, avrebbe dovuto curarsi di trovare qualcuno adeguato che lo facesse al suo posto, anziché conservare un’Alitalia stazionaria in condizioni sempre meno competitive, sino alla sua inevitabile chiusura.
Non lo ha fatto e di conseguenza gli aerei mancanti rispetto alla crescita della domanda e allo sviluppo del mercato sono stati messi a disposizione solo da vettori low cost esteri, i quali tuttavia in genere non pagano tasse in Italia e solo in parte impiegano lavoratori italiani.
Alla fine, le perdite per il sistema economico italiano sono ben maggiori rispetto ai soli disavanzi di bilancio, ancorché cospicui, del vecchio vettore di bandiera. Il quadro può finalmente mutare grazie all’integrazione in corso con Lufthansa, propedeutica al rilancio del vettore e a una sua nuova crescita. Rimediare alle conseguenze cumulate di un quarto di secolo di scelte strategiche errate, sarà però un compito tutt’altro che facile.
*Ugo Arrigo è stato consigliere di amministrazione non esecutivo di Ita Airways da novembre 2022 a luglio 2023. Attualmente non riveste alcun incarico nell’ambito del trasporto aereo.
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