Nell’avvicinamento delle big tech all’amministrazione Trump gli interessi economici contano più dell’adesione ideale a tesi libertarie. A dar fastidio sono i tentativi di regolamentazione in patria e soprattutto in Europa, dove le regole sono incisive.

Una foto rivelatrice

Nel mese e mezzo dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca molti sono gli elementi di novità nella politica interna e internazionale e nelle misure economiche che, a colpi di ordini esecutivi, la nuova amministrazione americana ha introdotto. Ci soffermiamo in questa nota su un elemento di fondo, che in gran parte ancora non si è concretizzato in atti di governo, ma che rappresenta uno dei più importanti nell’insieme di interessi che si riconoscono nella presidenza Trump. Ci riferiamo al forte allineamento tra le grandi imprese tecnologiche e il presidente, allineamento che non si limita al ruolo di primissimo piano di Elon Musk nel governo, con il Dipartimento per l’efficienza governativa, ma al sostegno che le big tech hanno assicurato in modo più o meno esplicito al candidato repubblicano durante la campagna elettorale, sostegno plasticamente rappresentato dai Ceo delle grandi compagnie tecnologiche in prima fila nella cerimonia di insediamento del nuovo presidente.


È un elemento di relativa novità, poiché la Silicon Valley e gli emergenti giganti del web si riconoscevano tradizionalmente nel campo democratico, non solo durante la lunga luna di miele della presidenza Obama, ma anche nel sostegno a Joe Biden. Viene quindi da chiedersi quali siano le ragioni della brusca sterzata. Da alcuni commentatori è stata avanzata la tesi secondo cui il filone libertario, presente nel mondo innovativo della Silicon Valley e che rappresenta una delle componenti del contraddittorio mondo che si riconosce in Trump, possa aver giocato a favore di questo processo, assieme al fastidio per le rigidità che certa cultura woke ha introdotto nel mondo accademico e nel dibattito culturale.

La regolazione europea contro il potere di mercato delle big tech

Tuttavia, ragioni ben più concrete e importanti emergono da una analisi dei rapporti tra politica e big tech sulle due sponde dell’Atlantico negli ultimi cinque anni. Dal lato europeo, gli interventi della Commissione in materia antitrust hanno in modo sistematico posto sotto i riflettori molte pratiche anticoncorrenziali delle big tech americane. L’intervento pubblico negli ultimi due anni, inoltre, si è dotato di una serie di strumenti regolatori che, agendo come vincoli ex-ante sulle condotte dei giganti tecnologici, ne hanno aumentato l’efficacia. Il Digital Market Act, assieme al Digital Service Act, al Data Act e all’Artificial Intelligence Act, costituiscono un pacchetto di misure, strumenti e vincoli molto efficace nel frenare il potere di mercato delle big tech. L’amministrazione Biden, dopo anni di assenza di incisivi interventi in materia antitrust, è intervenuta, con un ruolo molto attivo delle agenzie federali, Department of Justice Antitrust Division e Federal Trade Commission, aprendo procedimenti importanti che hanno coinvolto molti giganti tecnologici.


Sembra quindi molto più ragionevole collegare l’avvicinamento delle big tech alla nuova amministrazione americana e all’approccio di smantellamento di interventi regolatori incisivi che questa porta con sé al tentativo di alleggerire l’attivismo delle politiche pubbliche portato avanti dalla precedente amministrazione democratica. L’interesse per una politica più conciliante dell’amministrazione americana non riguarda solamente un allentamento nell’enforcement delle agenzie federali, poiché rimane intatto il corpo degli strumenti varato e oramai in atto sulla sponda europea.

Perché l’antitrust sarà terreno di scontro

Ne consegue che uno dei terreni di frizione e duro confronto che vedrà contrapporsi l’amministrazione Trump e la Commissione europea, in parallelo con la questione dei dazi, riguarderà proprio il campo degli interventi antitrust, sui quali la divergenza tra il prevedibile lassismo americano e l’incisività dell’approccio europeo potrà divenire un punto caldo. Le prime avvisaglie si osservano di già, con il tentativo proposto dalle big tech di equiparare i vincoli posti dalla regolamentazione europea all’imposizione di barriere non tariffarie al commercio. Ma questo appare come un primo assaggio per tastare il terreno di un conflitto nel quale l’Europa può giocare una carta importante. E in cui le big tech potrebbero portare a casa qualche utile risultato solamente se a rappresentarle non saranno i pur stellari studi legali che le difendono nei casi antitrust, ma il Governo stesso degli Stati Uniti in un confronto e una trattativa con la Commissione Europea che potrebbe, ad esempio, coinvolgere la materia dei dazi o la regolamentazione della privacy, su cui le divergenze tra le due sponde dell’Atlantico sono ampie.


Queste invasioni di campo non sono nuove, e la memoria ritorna agli interventi dell’amministrazione americana sotto la presidenza di George W. Bush nei confronti della Commissione europea nel perorare la causa di General Electric e Honeywell in un progetto di fusione poi abbandonato per l’opposizione europea. Ma lo stile della nuova amministrazione americana, che fa apparire il presidente Bush come un innocuo boyscout, lascia presagire ben altre scintille.

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