Andrebbe maneggiato con cautela, per garantire certezze agli operatori di mercato, e invece il golden power è usato nel settore bancario in modo molto disinvolto dai governi, compreso il nostro. Un ostacolo alla creazione del mercato unico dei capitali.

Il settore bancario

La singolare applicazione del golden power governativo all’offerta di scambio di Unicredit su Banco Bpm lascerà probabilmente molti strascichi per la sua incoerenza rispetto ai criteri, già di per sé contraddittori e fin troppo discrezionali, ai quali la disciplina dello strumento si ispira.

Da quando il golden power è stato esteso anche ai settori bancario e assicurativo non sono mancate le critiche su un quadro normativo caratterizzato da una certa ambiguità e indeterminatezza. E ci si è chiesti che funzione possa avere in un settore già fortemente regolamentato con meccanismi di vigilanza di per sé orientati a servire le finalità di quella disciplina.

In sostanza, soprattutto alla luce degli effetti del periodo pandemico, poteva avere un senso una protezione emergenziale per garantire l’“italianità” degli intermediari contro il rischio di investimenti esteri predatori, ma proprio in ragione della particolarità ed estensione delle discipline e dei controlli settoriali, i poteri speciali in capo al governo dovevano mantenere un ruolo residuale, una sorta di extrema ratio. Il fatto che vengano adesso utilizzati non per garantire l’“italianità”, ma per orientare quella più consona ai desiderata governativi (in altre parole, ci sono italiani meno italiani degli altri) getta una luce sinistra sulla evoluzione dei nostri mercati.

Le condizioni individuate dal governo (secondo le ricostruzioni giornalistiche: il mantenimento per un periodo di cinque anni del  rapporto impieghi-depositi praticato da Banco Bpm e Unicredit in Italia e dell’attuale portafoglio di project finance, la conservazione per un periodo di almeno cinque anni della quota attuale degli investimenti di Anima Holding in titoli di emittenti italiani e la cessazione entro nove mesi delle già ridotte attività in Russia) probabilmente non supererebbero nemmeno quel vaglio di “logicità” che la nostra giurisprudenza, pur orientata a riconoscere ampia discrezionalità all’esercizio dei poteri speciali, comunque pretende. D’altronde, sempre attenendosi alle ricostruzioni giornalistiche, se una parte dei ministri, con procedura alquanto singolare, ha preteso di verbalizzare i propri dubbi sul fondamento giuridico del provvedimento, significa che le sue gambe vacillano già dall’inizio.

Un potere poco golden

Ma al di là di questi aspetti, quello che è successo ha il merito di richiamare un problema più generale sull’utilizzo dei poteri speciali. È innegabile che, prima legati a obiettivi strategici e di difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale, hanno progressivamente ampliato il loro perimetro in maniera tentacolare, facendo riferimento a criteri sempre più pervasivi e correndo il rischio, lo stiamo vedendo in questi giorni, di trasformarsi in mero esercizio di potere, che di “golden” ha veramente poco. Nulla vieta, naturalmente che lo stato realizzi le sue politiche industriali, e anzi chi scrive ha sempre sostenuto che abbia fatto bene a intervenire con la proprietà pubblica nei salvataggi bancari. Ma quando lo stato partecipa in una banca protagonista di una offerta di scambio e a sua volta condiziona l’offerta di una concorrente per un’altra operazione, i piani si confondono con una oggettiva sovrapposizione tra l’asse della regolazione e quella della politica. Tempo fa un approfondito studio di Assonime invitava a maneggiare con cautela il golden power per garantire certezza agli operatori di mercato con “chiari ambiti di applicazione della disciplina e prevedibilità delle prescrizioni e condizioni che possono essere imposte a tutela degli interessi strategici”.

Un appello finora inascoltato e che difficilmente potrà essere accolto dai tanti interessi nazionalistici e populisti che si agitano in Europa, ma che proprio per questo ripresenta un antico problema, che però adesso deve essere affrontato con urgenza sul piano comunitario. La domanda è semplice: fino a che punto gli ambiziosi obiettivi della Saving and Investment Union potranno convivere con le zeppe tra le ruote dei singoli governi, che proclamano ai quattro venti il loro impegno per un mercato unico dei capitali, ma poi di fatto adottano politiche che vanno in senso esattamente contrario, tutte interessate a proteggere i propri orticelli, così incrementando il grado di frammentazione dei mercati? Se nei nuovi e inquietanti scenari che ci circondano, il mercato unico è di fatto la strada obbligata per “continuare a giocare”, il vero pericolo è quello di tanti piccoli e inutili patrioti che finiscono per non contare assolutamente niente.    

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