Referendum abrogativi o consultivi, con un singolo quesito o molteplici, indetti su temi disparati, benché prevalgano politica e diritti civili. È la fotografia che emerge dall’analisi delle consultazioni svolte finora. Con al centro la questione del quorum.
Tutti i referendum italiani
I cinque quesiti dell’8 e il 9 giugno si aggiungono ai settantotto sui quali gli italiani sono stati chiamati alle urne nelle ventiquattro consultazioni referendarie svolte finora.
Il primo fu il referendum con cui gli italiani, nel 1946, optarono per la repubblica e posero fine alla monarchia. Passarono poi 28 anni prima che se ne svolgesse un altro. Preceduto, nel 1970, da un passaggio necessario: l’approvavazione della legge n. 352 del 25 maggio 1970 che, come prevede l’articolo 75 della Costituzione, «determina le modalità di attuazione del referendum».
Il primo referendum abrogativo della storia repubblicana si svolse quindinel 1974: si trattò della consutazione che voleva cancellare la legge sul divorzio, persa dai suoi promotori
Dal 1946 a oggi, in quasi la metà delle consultazioni, agli elettori è stato chiesto di esprimersi su un solo quesito. I referendum monoquesito che non hanno previsto l’abrogazione di una legge o di una norma di legge ordinaria sono stati sei: uno, quello del 1946 appunto, ha riguardato la forma di governo; uno è stato consultivo e quattro si riferivano a riforme della Costituzione – in due casi gli elettori hanno approvato le modifiche introdotte e in due no.
La questione del quorum e della data di svolgimento
Qui di seguito ci concentriamo esclusivamente sui referendum abrogativi, ai quali si riferiscono i grafici 2, 3, 4 e 5. La gran parte di essi si è svolta su quesiti plurimi, anche molto disomogenei tra di loro. Per esempio, l’11 giugno 1995 chi si recava alle urne poteva ritirare addirittura dodici schede sugli argomenti più vari, dalla legge elettorale dei comuni alla privatizzazione della Rai; nel 1993 i quesiti furono otto (grafico 1).
I referendum non si sono mai svolti nelle stesse date delle elezioni politiche o per gli altri livelli istituzionali. C’è stata una sola eccezione: il referendum consultivo per il conferimento del mandato costitutivo al Parlamento europeo, che si svolse il 18 giugno 1989, lo stesso giorno delle elezioni europee.
Quando vi è stata la possibilità di farlo (il più delle volte), i promotori dei vari referendum hanno costantemente proposto di svolgerli negli stessi giorni delle elezioni (politiche, europee, regionali o comunali). La percentuale di partecipazione al voto in queste occasioni è generalmente più elevata di quella che si registra ai referendum e l’abbinamento avrebbe potuto aumentare le probabilità di superare il 50 per cento dei votanti, la soglia che rende valida la consultazione quando si chiede di abrogare una legge o una sua parte. Il referendum costituzionale, invece, è sempre valido, indipendentemente dalla percentuale dei votanti. Ovviamente, per l’abrogazione della norma oggetto della consultazione occorre anche che la maggioranza di chi si reca alle urne voti “sì”.
Il grafico 2 incrocia la validità del referendum con il risultato del voto. Come si può constatare per vincere il referendum non è sufficiente che la maggioranza di chi si reca alle urne scriva “sì” sulla scheda. Fino a oggi, gli elettori che sono andati a votare sono stati favorevoli all’abrogazione o alla modifica proposta della norma nella stragrande maggioranza dei casi. E tuttavia i referendari hanno effettivamente vinto le loro battaglie in poco meno di un terzo dei casi: in 23 su 72 quesiti proposti. In trentadue casi è stata vinta la battaglia per il “sì”, ma è stata persa la guerra per la validità del referendum. In poco più di due casi su dieci, il referendum è risultato valido, ma gli elettori hanno fatto prevalere il “no”.
Su quali materie sono stati indetti i referendum?
Nei grafici 3 e 4 i quesiti referendari sono stati raggruppati per materia. L’aggregazione è stata fatta sulla base del loro titolo, quindi è inevitabile un certo grado di discrezionalità. L’ambito più spesso sottoposto allo scrutinio referendario è quello politico istituzionale, con diciotto quesiti, al netto dei referendum costituzionali.
Il tema conobbe grande “popolarità” con l’esplodere della crisi dei partiti della prima repubblica. E infatti, con il referendum del 18 aprile 1993, promosso dal Partito radicale e da Mario Segni, agli elettori fu chiesto di decidere, tra l’altro, sulle sorti di tre ministeri, sul finanziamento pubblico dei partiti, sul sistema elettorale del Senato. Il sistema elettorale era al centro anche dei tre quesiti del referendum del 21 giugno del 2009.
I quesiti politici sono stati interpretati come iniziative “punitive” nei confronti di chi governava e, più in generale, dell’intera classe politica. L’intento si dimostrò molto convincente per quella parte dell’elettorato che si recò alle urne: in sedici casi, i votanti optarono per il “sì”, con percentuali molto alte, superiori anche al 90 per cento. Se fosse dipeso dalla volontà dei votanti, le sedici norme sottoposte a referendum sarebbero state tutte cancellate, in qualche caso quasi a furor di popolo. Di fatto, però, ne sono state abrogate solo otto, perché per l’altra metà dei quesiti non fu raggiunto il quorum e, quindi, il referendum non risultò valido.
Lo stesso risultato – numero di “sì” schiacciante, ma senza raggiungimento del quorum – ha riguardato tutti i quesiti sulla magistratura.
Non sono tutti “sì” o tutti “no”
Il grafico 5 riguarda i referendum con quesiti multipli. In questo tipo di consultazioni, l’elettore può scegliere se ritirare tutte le schede o solo alcune. Ne consegue che pur in una stessa consultazione referendaria, la percentuale di votanti può variare da un quesito all’altro. Le differenze possono essere anche notevoli, tanto che su un quesito si può arrivare al quorum e su un altro no. Il grafico 5 è costruito sulla base della differenza tra la percentuale di votanti per il quesito che ha visto l’affluenza più alta e la percentuale di votanti di quello con l’affluenza più bassa, per ciascun referendum. La differenza in termini assoluti non arriva in nessun referendum all’1 per cento; in termini relativi è sempre al di sotto del 2,5 per cento.
Le differenze sembrano svincolate dal numero di quesiti sottoposti al vaglio degli elettori. Se ci limitiamo alla differenza relativa si ricava che in alcuni referendum con due o tre quesiti è più alta rispetto alle consultazioni con un numero maggiore di quesiti. In tutti i casi, le differenze sono molto piccole. In sostanza, l’elettore, presa la decisione di votare a un referendum, nella pressoché totalità dei casi, ritira tutte le schede previste. Ciò potrebbe essere dovuto anche alla volontà di evitare perdite di tempo per agli adempimenti amministrativi previsti in caso di rifiuto delle schede su alcuni quesiti. Il ritiro di tutte le schede non implica, ovviamente, che l’elettore voti allo stesso modo su tutti i quesiti.
E infatti se ripetiamo i calcoli sulle differenze tra referendum con la più alta e la più bassa affluenza guardando alla percentuale di “sì” per ogni quesito, vediamo che il valore della differenza relativa oscilla tra circa il 2 e più del 150 per cento. In sostanza, dalle nostre elaborazioni sembra di poter dedurre che l’elettore che decide di recarsi al seggio per un referendum a più quesiti, non seleziona le schede da ritirare, ma fa le sue scelte in cabina: non vota sempre allo stesso modo, tutti “sì” o tutti “no”, ma valuta il contenuto dei singoli quesiti.
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Savino
L’istituto referendario ha perso peso specifico nel tempo. I quesiti non sono più del tipo Repubblica /Monarchia; Legge sull’aborto si (abrogata)/ no (invariata); Legge sul divorzio si (abrogata)/ no (invariata). Già quando si parlò di nucleare e caccia le cose erano diverse e i tecnicismi prevalsero. Furono traditi, poi, i propositi popolari sulla legge elettorale, sull’abolizione di Ministeri, sull’utopia dell’acqua pubblica. Oggi abbondare nei referendum è anzitutto il segnale di un Parlamento che non funziona e che non sa e non vuole decidere. Chi propone più democrazia diretta con quesiti troppo tecnici e specifici non ha in mente che almeno dalla Rivoluzione Francese fu creato qualcosa di meglio dei plebisciti, che erano le Assemblee elettive, nate per legiferare, purchè abbiano gente preparata e competente per questo al loro interno.
Roberto palmieri
Penso che in un periodo dove diminisce la partecipazone al voto vada rivisto il quorum per la validità di un referendum
Per stimolsre la partecipazione saebbe oppotuno valutare il raggiungimento del quorum in base alla percentuale dei votanti nell’ultima votazione politica
Basterebbe considerare una percentuale da raggiungere pari al 60% del numero dei votanti delle politiche come parametro per il quorum
Inoltre sottolineo che la disinformazione oggi con questi referendum ha raggiunto livelli allarmanti accompagnati dall’invito del governo e di giornalisti prezzolati al totale disimpegno
In queste condizioni penso che se i quesiti raggiungano la percentuale del 40 % sia un risultato importante e signoficativo per chi li ha proposti, e comunque una risposta democratica a chi ci ci vuole sudditi e non cittadiji
Sergio Trabattoni
Referendum 2025
Tecnicamente la nostra è una democrazia delegata, che per essere tale implicherebbe una precisa delega ai suoi rappresentanti da parte dei votanti. Purtroppo l’esperienza insegna che in campagna elettorale i rappresentanti dei vari partiti, vuoi per necessità di sintesi, vuoi per una voluta genericità, chiedono il voto su programmi vaghi, fatti spesso di slogan, insomma tali da essere tutt’altro che basi di riferimento per una effettiva ed impegnativa delega. Da qui nasce l’esigenza di consentire agli elettori di essere partecipi alla vita del Paese e di poter intervenire sul quadro normativo vigente per renderlo più rispondente ai propri bisogni. Allo scopo lo strumento individuato dalla nostra Costituzione è il referendum abrogativo che per essere efficace deve, giustamente, avere una minima partecipazione di votanti. Il famoso quorum.
A differenza di quanto stabilito dalla legge vigente, a mio parere il quorum dovrebbe indicare la percentuale minima di voti espressi. Penso che non debba essere riferito alla totalità degli aventi diritto al voto, poiché com’è noto vi è sistematicamente una notevole massa di astensionisti, la cui indifferenza non dovrebbe pesare per dare validità o meno al referendum. Dato che i referendum sono sempre una sollecitazione delle opposizioni nei confronti dei governi, a mio avviso il valore del quorum potrebbe essere fissato al valore pari alla percentuale di voti ottenuta dal maggior partito di opposizione nelle più recenti elezioni politiche. Si ancorerebbe così la validità del referendum ad un significativo numero di votanti e, nel contempo, si garantirebbe alla maggioranza la possibilità di affermarsi come tale anche nel referendum, in un confronto con i cittadini diretto, sottratto alle logiche di partito e ad eventuali convenienze personali dei parlamentari che possono viziarne il voto in parlamento.
Sergio Trabattoni