Fiat vende gli autocarri all’indiana Tata. Meglio avere un azionista nuovo che vuole crescere in Europa che uno vecchio e stanco che non investe. Purché il governo non cada nella tentazione di mettersi di traverso. O almeno che lo faccia in punta di piedi.
Una vendita che viene da lontano
C’era una volta la Fiat. Che faceva auto e (con la sub-holding Iveco) autocarri di vario tipo.
Aveva cercato di liberarsi di Iveco già da molto tempo, quando la Fiat era ancora Fiat e l’azionista di riferimento era la famiglia Agnelli tramite Exor. Nel 2021 sembrava esserci riuscita, con la cessione ai cinesi di Faw, data ormai per conclusa. Ma non se ne è fatto nulla, forse per mancato accordo sul prezzo, forse anche per l’opposizione della politica che cominciava ad agitare il “golden power” in difesa di non si capisce bene quale nozione di sicurezza nazionale.
Ora ci risiamo, ma forse questa volta l’accordo c’è davvero. Intanto, Iveco è stata spaccata in tre. Magirus, che fabbrica veicoli speciali (soprattutto anti-incendio), è passata da alcuni mesi a un fondo di private equity industriale (Mutares) specializzato, che la sta mettendo a posto probabilmente per rivenderla a un operatore “stabile” di questo mercato. C’è poi una parte che produce veicoli blindati per l’esercito, e questa passerà a Leonardo, la società per azioni pubblica che raccoglie le attività industriali legate alla difesa. C’erano offerte anche di oltre confine, ma nel campo della difesa il “pregiudizio” nazionale resta forte pure all’interno dell’Unione europea. Fin qui, nulla di particolarmente controverso.
Il terzo pezzo, quello più consistente e – a quanto pare – problematico, riguarda gli autocarri e i furgoni “tradizionali”. E in pole position per l’acquisto c’è appunto l’indiana Tata Motors. Un nome sorprendente? Fino a un certo punto.
Una buona occasione per Tata
Tata è un partner storico di Fiat e diversi anni fa hanno messo in piedi una joint venture per la produzione delle Fiat per il mercato asiatico e la condivisione di tecnologie. Si tratta di un partner di livello. Per intenderci, del gruppo Tata fanno già parte la storica Jaguar, ma anche i veicoli commerciali coreani Daewoo. Tata cresce internamente seguendo le dinamiche del mercato asiatico (in continua ascesa) e cresce con acquisizioni quando ci sono le opportunità giuste. Sicuramente lo sarebbe Iveco.
Infatti, Tata è molto presente in Asia. Anche in ragione della dimensione e crescita dei diversi mercati – benché in Europa sia praticamente assente, l’India è il terzo produttore mondiale di auto. Nei veicoli commerciali (anche tramite Daewoo) sta crescendo, sempre più in Oriente che in Europa.
Anni fa, il fallimento dell’offerta di un acquirente cinese per Iveco fu salutato con piacere dai francesi, che temevano l’ingresso di un nuovo attore che avrebbe potuto usare Iveco come trampolino per lanciarsi in Europa. Oggi la situazione appare simile. Non sembra credibile che Tata acquisisca Iveco per ridimensionarla; immagino la sua strategia sia l’esatto opposto.
E per l’Italia?
Credo che sia un’offerta da non farsi sfuggire, non solo per gli azionisti di Stellantis, ma per l’intero paese. Anzi: proprio perché è una buona occasione per Tata che vuole crescere in Europa, è una buona occasione per l’Italia.
Il momento di mercato non è certo facile. I dati Acea (l’associazione europea dell’automotive) indicano che nella prima parte del 2025 le nuove immatricolazioni di furgoni nell’Ue sono diminuite del 13,2 per cento, e ancora peggio va per i camion (-15,4 per cento). Questo avviene dopo alcuni anni caratterizzati da vendite altalenanti, dopo i quali si resta lontani dai livelli pre-Covid. Trovare un acquirente in questa situazione, difficile da almeno quattro anni a questa parte, è tutt’altro che scontato.
All’Italia, poi, fa comodo un acquirente che intende investire e crescere. Un europeo non avrebbe necessariamente questa caratteristica. Anzi, in un mercato europeo non certo spumeggiante potrebbe essere interessato a Iveco per evitare che cresca e che competa in modo troppo aggressivo con gli altri.
L’unico timore è che Tata scopra che nel mercato europeo l’Italia non è il posto migliore per produrre autocarri. Iveco ha impianti anche altrove, e bisognerà dimostrare che la cultura industriale profonda e diffusa del nostro paese è più che sufficiente a compensare un prezzo dell’energia forse un po’ troppo elevato e (forse) le carenze di una logistica da mettere a regime.
L’Italia ha le carte in regola per convincere il nuovo azionista che conviene investire qui. Ma soprattutto, data la crisi generalizzata del settore auto, credo che siano tante le forze che dovrebbero essere pronte a collaborare per rilanciare Iveco in Italia.
Qualcuno rema contro?
È triste dirlo, ma diverse persone nel nostro mondo politico hanno invece nostalgia della Fiat che faceva gli accordi con il governo di turno e invocano il cosiddetto golden power. Si tratta del potere (estremamente esteso e pervasivo, purtroppo) che la legge riserva alla presidenza del Consiglio di bloccare una cessione di questo tipo a un azionista non italiano, o di imporre condizioni alla vendita.
È tutt’altro che improbabile che un’interferenza simile si verifichi. Quando i cinesi di Faw provarono a comprare Iveco nel 2021, l’allora ministro dell’Industria dichiarò “Accogliamo con favore e valutiamo positivamente la notizia del mancato perfezionamento della trattativa”, spiegando che “il governo italiano (…) ritiene la produzione di mezzi pesanti su gomma di interesse strategico nazionale”. L’allora ministro dell’Industria è l’attuale ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e l’attuale ministro dell’Industria era il suo vice di allora.
Avrebbe senso fermare tutto? Diciamolo con chiarezza: no. L’opposizione all’operazione era un errore allora, e lo sarebbe anche oggi. In Italia nessuno comprerebbe Iveco. In Europa, finirebbe in mano ai concorrenti che cercherebbero di ridurre la concorrenza (e quindi, probabilmente, per limitare la produzione e non certo per svilupparla). L’alternativa è che resti nelle mani di Stellantis, che però se ne vuole disfare e che da anni non risulta che investa granché. Legittimo, per carità, ma non è certamente una strada di rilancio e sviluppo.
Una strada intermedia, anche se stretta, è esercitare il golden power non per bloccare l’operazione, ma per imporre condizioni sull’occupazione e sugli investimenti. Il rischio è che in questo modo l’acquirente – che comunque credo voglia far crescere l’impresa – si trovi davanti troppi vincoli e si dilegui. E che l’attuale azionista finisca per smontare un’impresa nella quale evidentemente non intende più investire.
Il problema è che i governi devono far vedere che intervengono, anche quando astenersi sarebbe meglio. La soluzione all’italiana potrebbe essere imporre a Tata il vincolo di fare esattamente quello che intende fare. Se il governo pone come condizioni a Tata semplicemente l’attuazione del piano industriale che la stessa società già ha in mente, mostrerebbe di esercitare il suo potere in difesa dell’occupazione ma in realtà ratificherebbe quanto sarebbe comunque successo. Vestendo come vittoria politica una ratifica dell’operato del nuovo azionista. Ridicolo? Forse, ma forse è la cosa migliore che possiamo augurarci.
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