Il governo chiederà un referendum confermativo sulla riforma della giustizia, così come le opposizioni, che invece vogliono eliminarla. Ma come funziona la consultazione? E quante altre volte il Parlamento ha cambiato norme costituzionali sul tema?
Una riforma dai contenuti controversi
Il 30 ottobre 2025 il Senato ha definitivamente approvato (112 voti a favore, 59 contrari e 9 astenuti) il disegno di legge di revisione costituzionale di iniziativa governativa, composto da otto articoli, intitolato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”.
Dietro alla formula generica si celano diversi temi particolarmente divisivi del dibattito politico e pubblico, come la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti, la duplicazione del Consiglio superiore della magistratura e alcune variazioni nelle regole della sua composizione, non più elettiva ma per estrazione a sorte. La riforma introduce inoltre un organo disciplinare (l’Alta Corte), composto da quindici giudici: tre componenti nominati dal Presidente della Repubblica; tre componenti estratti a sorte da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune; sei componenti estratti a sorte tra i magistrati giudicanti in possesso di specifici requisiti; tre componenti estratti a sorte tra i magistrati requirenti in possesso di specifici requisiti.
Gli articoli della Costituzione interessati sono sette: 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110. Il Ddl, senza alcuna modifica rispetto al testo presentato dal governo, era stato approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 16 gennaio scorso (174 voti a favore, 92 contrari e 5 astenuti) e dal Senato della Repubblica il 22 luglio 2025 (106 voti a favore, 61 contrari e 11 astenuti). La seconda deliberazione della Camera è intervenuta il 18 settembre 2025 (243 voti a favore, 109 contrari e 6 astenuti) mentre l’ultima votazione, da parte del Senato, è avvenuta giusto tre mesi dopo la prima. Per l’appunto, lo scorso 30 ottobre. L’iter parlamentare è ora concluso e il testo della legge costituzionale è già stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il giorno stesso dell’ultima votazione. Tuttavia, la riforma non è stata ancora promulgata dal Presidente della Repubblica e quindi non è ancora entrata in vigore.
I referendum costituzionali nella storia repubblicana
Infatti, nel nostro ordinamento le modifiche costituzionali si realizzano ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione stessa. Senza commentare per intero il meccanismo previsto da tale articolo, è utile soffermarsi esclusivamente sulla possibilità prevista di richiesta di “referendum popolare” (commi 2 e 3), spesso chiamato “confermativo”, nonostante il termine non sia stato utilizzato dai costituenti. Il referendum è solo eventuale ed è anzi esplicitamente escluso ove la modifica sia stata “approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti” (art. 138 comma 3). Negli altri casi – e quello in questione è uno di questi – è possibile farne richiesta quando “entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”. È per questo motivo che la pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale è avvenuta, a norma di legge, con la seguente formula: “Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera”. L’entrata in vigore della riforma risulta quindi sospesa, in attesa di capire se il referendum si terrà e, in caso affermativo, quale sarà il suo esito.
A dire il vero, dubbi sull’eventualità del referendum non ce ne sono: non solo il Governo ha annunciato che si sarebbe attivato per la richiesta ma, in un paio di giorni, i parlamentari di maggioranza hanno già raccolto tutte le firme necessarie.
È utile ricordare che il referendum costituzionale non ha nulla a che vedere con quello “abrogativo”, esplicitamente normato dall’articolo 75 della Costituzione. Il referendum abrogativo prevede infatti un quorum costituito dalla “maggioranza degli aventi diritto” (art. 75 comma 4); il referendum costituzionale, al contrario, non prevede un quorum ed è quindi sempre valido.
Quante altre volte si è svolto un referendum costituzionale? La Costituzione italiana è stata modificata spesso nel corso della sua esistenza: la prima volta già nel 1948, il 3 gennaio, per correggere un piccolo errore di stampa all’art. 107; l’ultima, almeno finora, nel 2023, con il riconoscimento del valore dello sport. In mezzo, altri 21 interventi per un totale di 39 articoli modificati o soppressi. Finora, l’unica vera riforma costituzionale in tema di giustizia ha riguardato il cosiddetto “giusto processo” (art. 111; legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2); altri articoli su argomenti riconducibili al tema della giustizia e oggetto di riforma costituzionale sono stati modificati, in ordine cronologico, il 10 e il 26 nel 1967 (estradizioni di cittadini italiani e stranieri per reati politici), il 96 nel 1989 (reati del presidente del Consiglio e dei ministri), il 79 nel 1992 (amnistia e indulto) e il 27 nel 2007 (abolizione della pena di morte per reati militari). Nonostante tutte queste riforme costituzionali, solo quattro volte il corpo elettorale è stato coinvolto attraverso un referendum. La tabella 1 riassume questi eventi.
Il bilancio, al momento, è in perfetto pareggio: due volte il referendum ha confermato la riforma, due volte l’ha rigettata.
Le conseguenze del referendum
Visto che la legge è già stata approvata, verrebbe da chiedersi come mai i suoi sostenitori sentano il bisogno di ricorrere al referendum popolare per avallare una decisione già presa, con tutti i rischi che ciò comporta. Le ragioni sono molteplici. Da un lato, conta di certo la strategia, un’attività a cui i nostri politici amano dedicarsi fin troppo spesso. Di fronte a questa riforma, era facile infatti attendersi che anche l’opposizione si sarebbe attivata. In questo caso, ovviamente, per ribaltare l’esito del voto parlamentare. Scendere in piazza e spiegare le proprie ragioni ai banchetti di raccolta delle firme permette di indirizzare sin da subito l’opinione pubblica verso l’esito preferito. Tuttavia, almeno per il momento, la modalità scelta dalle due fazioni è stata quella della raccolta firme tra i parlamentari. Se ci si limitasse a questa, sarebbe un errore: per coinvolgere l’elettorato non ci si può accontentare di qualche breve dichiarazione sui social network o al telegiornale. Un buon vantaggio competitivo potrebbe essere fornito da quel comitato che riuscirà per primo a raccogliere le (almeno) 500mila firme. Oltre a questo, è il meccanismo stesso del referendum a incentivarne la richiesta. I sottoscrittori, infatti, oltre alle firme, depositano anche un quesito, la cui legittimità è stabilita dall’Ufficio centrale della Corte di cassazione ma la cui neutralità, che potrebbe far pendere il voto di un elettore a favore del “No” o del “Sì”, è invece decisamente più difficile da determinare. Arrivare prima di tutti, quindi, permetterebbe di avere un quesito referendario più coerente con l’esito desiderato. Da questo punto di vista, la maggioranza ha già ottenuto la sua seconda vittoria.
Cosa succede ora? La Cassazione si esprimerà, con propria ordinanza, su tutte le richieste di referendum pervenute. In caso di accettazione di almeno una di esse, il referendum sarà indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo avrà ammesso. Più precisamente, la data del referendum sarà fissata in una domenica compresa tra il cinquantesimo e il settantesimo giorno successivo alla emanazione del decreto di indizione. Qualcuno, a questo proposito, ha già ipotizzato la data del 29 marzo 2026.
Quali saranno le conseguenze della vittoria del “Sì”, cioè la conferma della riforma? Finalmente, comunque la si pensi, si scriverà la parola “fine” su un dibattito che ormai dura da oltre trent’anni e che ha avvelenato, a più riprese, la normale dialettica tra poteri dello stato e tra forze politiche. Se invece vincerà il “No” e la legge sarà rigettata dall’elettorato, il governo potrebbe subirne dure conseguenze. È vero che nessuna norma obbliga il presidente del Consiglio alle dimissioni. E Giorgia Meloni appare troppo furba per personalizzare il voto referendario, ripetendo così lo stesso errore di Matteo Renzi nel 2016. Tuttavia, nemmeno si può ignorare che il testo su cui si esprimerà elettorato è proprio quello stesso preparato, voluto e approvato dal governo, per iniziativa del guardasigilli e della presidente stessa. Ignorare la volontà popolare potrebbe costare a Giorgia Meloni, in prospettiva, molto di più di una crisi di governo.
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Si laurea all’Università Cattolica di Milano e consegue M.Sc. e Ph.D. in Economics presso la University of Edinburgh. Dopo una breve esperienza presso l’Università di Milano-Bicocca, diventa ricercatore in Università Cattolica, dove insegna Scienza delle finanze ai corsi diurni e serali, triennali e magistrali. Ha insegnato anche al Dottorato in Economia e Finanza delle Amministrazioni Pubbliche dell’Università Cattolica, all’Università di Milano-Bicocca e alla Scuola Superiore di Economia e Finanza. I principali interessi di ricerca riguardano la political economy, con particolare riferimento al ruolo delle leggi elettorali, il federalismo fiscale, la finanza pubblica, le pensioni e la disuguaglianza intergenerazionale. Ha contribuito a libri e pubblicato articoli su riviste internazionali. E’ membro e Segretario generale dell’associazione ITalents. È stato membro della Commissione tecnica per la revisione della spesa guidata da Carlo Cottarelli per i capitoli di spesa sui costi della politica. È stato Consulente tecnico per la Presidenza del Consiglio al tavolo delle trattative con le Regioni per la concessione di maggiore autonomia ex art 116 comma 3 della Costituzione.
Da novembre 2017 è editorialista presso "Il Messaggero"
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