Le comunità energetiche rinnovabili non sembrano aver ancora trovato un ruolo definito. Il modello italiano si incentra sugli incentivi pubblici, ma non sembra capace di creare un mercato locale dell’elettricità. Anche per questo i numeri restano bassi.
I numeri delle Cer in Italia
A quattro anni di distanza dal decreto legislativo che le ha introdotte in Italia e dopo una fase iniziale di incertezza, diventa interessante chiedersi se esistono e cosa stanno diventando le comunità energetiche rinnovabili (Cer).
Partiamo da qualche dato. Innanzitutto, quante sono. Il Gestore dei servizi energetici (Gse) ci fornisce l’elenco, mentre la Ricerca sul sistema energetico (Rse) ci offre una mappatura e invita, da qualche settimana, a contribuire ad aggiornare l’open map attraverso un modello di auto-censimento.
Al 30 settembre, il Gse inserisce nell’elenco 597 Cer, che si riducono a 345 se scegliamo di contare il numero di soggetti giuridici, eliminando le duplicazioni che danno conto delle configurazioni attivate. Per esempio, la antesignana piccola Cer di Ussaramanna (Sud Sardegna) appare due volte in elenco solo perché ha attivato due configurazioni che “fanno capo” alla medesima Associazione Cer Ussaramanna.
Forse, allora, è meglio guardare alla potenza installata totale: poco più di 67MW – neppure il 2 per cento dei 5GW incentivabili entro il 31.12.2027, come previsto dal decreto Cacer (n. 414/2023 del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica).
Una realtà modesta
Questi dati descrivono una realtà modesta che stenta ad affermarsi, tanto che nell’Electricity Market Report 2025, redatto dal Politecnico di Milano, ci si chiede: “Le comunità energetiche rinnovabili: mito o realtà?”. In più, i 27 mesi necessari per essere attivi presso il Gse iniziano a rendere troppo ravvicinato il termine del 31.12.2027 per richiedere gli incentivi. Ancora più prossima è poi la scadenza dei fondi Pnrr (il 30 di questo mese) tanto che sarà tutta da verificare, con dati alla mano, l’utilità del decreto ministeriale 127 dello scorso maggio con cui è stata ampliata la platea dei beneficiari ai comuni con popolazione inferiore a 50mila abitanti.
Da più parti viene inoltre sollevato il dubbio che aver legato la convenienza economica della Cer all’incentivo pubblico rischi di limitarne lo sviluppo poiché è difficile capire quale sarà il motore economico una volta che la tariffa incentivante premio (Tip) non sarà più fruibile. Oggi, il meccanismo premia l’energia condivisa tra soggetti collegati alla medesima cabina primaria, vale a dire il nodo della rete elettrica dove l’alta tensione si trasforma in media per essere distribuita capillarmente (attualmente ci sono 2107 cabine primarie). Il premio è calcolato sulla base di una componente che cresce al diminuire della potenza dell’impianto e di un’altra che diminuisce oltre un certo livello del prezzo zonale orario dell’energia elettrica.
L’incentivo pubblico è l’unica strada?
Basta guardare Oltralpe, alla Francia, per trovare un modello in cui non c’è spazio per incentivi per la condivisione e si punta alla creazione di un mercato locale basato sull’integrazione di prossimità, controllo e attività economica, attraverso un quadro geograficamente circoscritto di autoconsumo collettivo, obbligatorio per l’elettricità. Questa scelta sembra favorire implicitamente la creazione di comunità energetiche locali. La vicinanza geografica è, infatti, rispettata se l’elettricità viene fornita tra membri collegati alla rete a bassa tensione di un unico operatore pubblico, entro una distanza fisica di 2 chilometri (con facoltà di estensione a 10 o 20 chilometri nei comuni rurali o periurbani). Il modello francese consente ai prosumer, collegati in una Pmo (personne morale organisatrice) che gestisce un mercato locale (sperabilmente, una comunità energetica rinnovabile), di vendere e fatturare l’elettricità direttamente a un vicino a un prezzo generalmente più competitivo rispetto a quello di mercato. Il consumatore riceve così due fatture: una dal produttore locale per l’energia autoconsumata e un’altra dal suo fornitore tradizionale per l’energia restante, con quest’ultimo obbligato a dedurre i kilowattora già forniti localmente. La strategia appare capace di resistere “sul lungo periodo” e contribuisce a salvaguardare la dimensione locale delle Cer.
Non mancano le criticità. La principale risiede nella posizione del consumatore che, impegnandosi direttamente con un produttore in un’operazione di autoconsumo collettivo, si trasforma in un “consumatore-attore” (consomm’acteur). In assenza di specifiche disposizioni legali, può ritrovarsi in una condizione di vulnerabilità, poiché non vi è garanzia di rappresentanza equa, uguaglianza di diritti o accesso certo alle informazioni tecniche ed economiche relative allo scambio di energia.
Le Cer italiane sono locali e autonome?
L’approccio italiano “a doppio livello” alla prossimità separa il concetto più ampio di condivisione dall’ambito più ristretto richiesto per l’incentivazione. L’energia può essere infatti condivisa tra membri situati ovunque all’interno della stessa zona di mercato (che ha dimensione regionale o sovraregionale), mentre gli incentivi economici (per l’energia condivisa) sono limitati a consumatori e ai produttori collegati alla stessa cabina primaria. Ciò ha aperto alla possibilità di creare comunità energetiche di grandi dimensioni, se non nazionali, come riconosciuto dal Gse (codice articolo kb0017134, 17-10-2024). Se da un lato questo potrebbe essere un vantaggio in termini di semplificazione e gestione (ad esempio, un’unica entità che interagisce con il Gse), dall’altro c’è il rischio che siano ignorati i principi di democratizzazione energetica e di autonomia dai grandi operatori energetici sostenuti dalla normativa europea. In simili scenari, oltre a un possibile “annacquamento” della posizione del singolo, pur chiamato dall’Unione europea a essere protagonista e attore della transizione energetica, diventa tutto da verificare (e da misurare) chi siano i principali (e soprattutto reali ed effettivi) beneficiari degli incentivi Gse e delle sovvenzioni in conto capitale del Pnrr. Così facendo, quanto sono e restano locali ed autonome le Cer italiane?
Un nuovo palcoscenico?
Se l’obiettivo comune europeo è incoraggiare l’autonomia, la partecipazione aperta e il controllo locale, fornendo benefici ambientali, economici o sociali ai membri della Cer più che generare profitti finanziari, i percorsi intrapresi variano. La discrezionalità lasciata al singolo stato membro ha portato alla creazione di modelli diversi: quello italiano, incentrato sugli incentivi, e quello francese, focalizzato sulla creazione di un mercato locale.
Restano criticità in ambedue i contesti e un quesito si affaccia sempre più spesso: immaginare le Cer come nuovi attori in nuovi mercati energetici, locali e unionali, condurrà a qualificarle come imprenditori? Con quali conseguenze?
Del resto, è ancora il mercato al centro dell’attenzione europea nell’ambito della recente Electricity Market Design Reform, in via di attuazione da parte degli stati membri.
Un nuovo palcoscenico in cui qualcuno sarà ancora in cerca d’autore?
* Il contributo (autori: Daniela Pappadà, Giacomo Lai, Elisabetta Strazzera) si inserisce nelle attività del progetto e.INS- Ecosystem of Innovation for Next Generation Sardinia (cod. ECS 00000038) finanziato dal ministero della Ricerca e dell’Istruzione (Mur) nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – Missione 4 Componente 2, “Dalla ricerca all’impresa” Investimenti 1.5, “Creazione e rafforzamento di Ecosistemi dell’innovazione” e costruzione di “Leader territoriali di R&S, progetto GA No. 1056 – Task 8.2 New Governance Models for Energy Communities, Università degli Studi di Cagliari.
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Daniela Pappadà è ricercatrice in Diritto Privato Comparato presso l'Università degli studi di Cagliari. Dopo la laurea in Giurisprudenza, ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto privato comparato e diritto privato dell'Unione Europea presso l'Università degli studi di Macerata.
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