L’Irpef ha una struttura frammentaria, che si accentua con le “soglie” previste dalle addizionali comunali e regionali. Non solo si creano situazioni paradossali, il contribuente è anche spinto a mantenere il reddito al di sotto di quel limite.
Scaglioni e soglie
La struttura frammentaria e caotica dell’Irpef nazionale, determinata dalla successione di interventi ad hoc degli ultimi anni, è un dato ampiamente discusso. In sintesi, considerando ad esempio un reddito da lavoro dipendente, a fronte delle tre aliquote marginali legali, le aliquote marginali effettive sono otto, non sempre crescenti con il reddito, con un picco del 58 per cento tra 32mila e 40mila euro. Una struttura appunto caotica. Il termine tecnico per indicare queste discontinuità è tax kinks (nodi), ovvero salti di aliquota (marginale).
Una stortura più grave è quella dei tax cliffs (scogliere o dirupi), ovvero salti di imposta: si ha quando la discontinuità comporta un’aliquota marginale che tende all’infinito. Ciò avviene quando la struttura dell’imposta non è disegnata per scaglioni ma per classi di reddito: le aliquote marginali crescenti sono applicate non a porzioni di reddito, ma all’intero reddito, facendo sì che chi, in corrispondenza di una soglia, guadagna un euro in più si ritrova con un reddito netto inferiore a chi resta appena sotto la soglia. Salti d’imposta sostanziali sono oggi in genere assenti nei sistemi dei paesi avanzati: le imposte sul reddito sono costruite in modo da garantire la continuità almeno della funzione di prelievo. Discontinuità rilevanti esistono altrove, soprattutto nei programmi del welfare: negli Stati Uniti, ad esempio, diversi programmi assistenziali prevedono la perdita immediata del beneficio al superamento di una soglia. Per inciso, l’inclusione nell’Irpef nazionale di veri e propri bonus produce lo stesso effetto.
I salti di imposta prodotti delle addizioni
L’Italia si distingue perché i “cliff” nell’imposta sul reddito non sono eccezioni, ma da diversi anni una caratteristica strutturale delle addizionali comunali. Almeno nei grandi Comuni la struttura tipica prevede esenzione dall’imposta fino a una soglia, oltre la quale però si applica un’aliquota a tutto il reddito. Così, a Roma chi supera la soglia di 14mila euro passa da zero a un’addizionale dello 0,9 per cento su tutto il reddito: una maggiore imposta di 126 euro per un incremento di reddito di un euro. A Milano con soglia a 23mila euro e aliquota dello 0,8 per cento, il salto è di 184 euro. La tabella 1 riporta la situazione di altri importanti capoluoghi di regione, tra i quali Palermo è l’unica eccezione.
Il caso del Lazio
Il caso più bizzarro è, tuttavia, quello dell’addizionale regionale del Lazio. La base è una classica struttura con due scaglioni: si paga l’1,73 per cento fino a 15mila euro e il 3,33 per cento sulla parte di reddito oltre 15mila euro. Però se il reddito è inferiore a 28mila euro si paga l’1,73 per cento su tutto il reddito, oltre 28mila euro si torna alla struttura base (3,33 per cento quando si superano i 15mila euro). Per complicare ulteriormente, allo scopo di attenuare un po’ il salto, c’è una detrazione di 60 euro tra 28mila e 35mila euro. Si determinano, insomma, due salti: il primo a 28mila euro, dove guadagnare un euro in più comporta un aumento dell’imposta di 148 euro, il secondo a 35mila euro quando si perde la detrazione di 60 euro. Se si pensa che a 28mila euro ci sono discontinuità anche per l’Irpef nazionale (l’aliquota marginale effettiva è molto più alta di quella legale), per un contribuente del Lazio su quella soglia la “scogliera” è davvero ripida.
Le conseguenze
Ma, al di là degli aspetti di equità, perché dobbiamo preoccuparci di kinks e cliffs? Perché i contribuenti tendono a concentrarsi artificialmente appena sotto un punto di discontinuità dell’imposta. Quando superare una soglia comporta un forte aumento dell’aliquota marginale — o addirittura un salto dell’imposta — molti contribuenti aggiustano ore lavorate, compensi variabili, timing dei bonus, o la modalità di (omessa) dichiarazione, in modo da non superare quel punto. Più forte è la concentrazione, più la struttura dell’imposta è inefficiente. Nei cliff, la concentrazione è di solito molto marcata, perché l’incentivo a restare sotto la soglia è enorme: guadagnare 1 euro in più può costare decine o centinaia di euro in imposta aggiuntiva. Di ciò c’è ampia evidenza empirica internazionale (ad esempio, per gli Stati Uniti) e anche italiana (per la concentrazione sotto la soglia del regime forfettario dei lavoratori autonomi).
Ma perché i comuni non applicano l’aliquota solo sulla parte di reddito eccedente la soglia, eliminando così il cliff? Chiaramente, per non subire perdite di gettito, dovrebbero abbassare il livello della soglia, rendendo così meno efficace il messaggio politico-pubblicitario. D’altra parte, lo stato, che potrebbe imporre un divieto esplicito, si distingue nel disegno dell’Irpef nazionale per commettere lo stesso peccato, di pubblicità ingannevole (“vogliamo semplificare riducendo il numero di scaglioni”), nel disegno dell’imposta.
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Si è laureato in Scienze Statistiche all'Università "La Sapienza" di Roma e ha proseguito gli studi di Economia presso la London School of Economics. Professore di Scienza delle Finanze presso l'Università "La Sapienza" di Roma (in precedenza ha insegnato all'Università di Campobasso, alla LUISS di Roma, alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione e all'Università di Perugia). Si occupa prevalentemente di temi di finanza pubblica. Ha svolto attività di consulenza per istituzioni italiane e internazionali (IMF, Camera dei Deputati, Presidenza della Repubblica). Ha fatto parte della Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ministero del Tesoro) dal 1991 fino al suo scioglimento nel 2003. Dal luglio 2006 dirige la Scuola Superiore dell'Economia e delle Finanze. Redattore de lavoce.info.
È stato Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio dal 2014 al 2022.
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