La vicenda UniCredit-Banco Bpm mette in evidenza un pericoloso intreccio di competenze. Solo attraverso semplificazione delle regole interne e convergenza con quelle europee, il sistema potrà conservare la stabilità finanziaria senza rinunciare al mercato.
Quando il golden power diventa una “poison pill” pubblica
Con l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, la vicenda UniCredit–Banco Bpm si arricchisce di un nuovo capitolo. Inizialmente accolta con favore dalle autorità di vigilanza, l’operazione è stata bloccata dalle prescrizioni imposte dal decreto della presidente del Consiglio dei ministri del 18 aprile 2025, che ha indotto UniCredit a ritirare l’offerta, Il caso ha segnalando l’insostenibilità di un quadro regolatorio poco chiaro e lamentando, tra l’altro, un deficit di coordinamento tra i provvedimenti di Consob e quelli conseguenti all’esercizio del golden power, che è apparso quasi come una poison pill pubblica: un rimedio esterno, azionabile per ragioni ufficialmente estranee al puro interesse degli azionisti, ma capace in pratica di alterare la contendibilità del controllo a vantaggio della società bersaglio e, talora, “invocato” proprio da quest’ultima (o dai suoi soci di riferimento).
Le prescrizioni imposte dal governo sono peraltro state contestate da Unicredit dinanzi al Tar del Lazio, che ha censurato, con la sentenza n. 13748/2025, un esercizio eccessivo dei poteri speciali in ambito bancario. Il tribunale pur riconoscendone la legittimità astratta, in quanto riconducibile alla nozione di “sicurezza economica” come species della “sicurezza nazionale”, ha tuttavia annullato due delle quattro prescrizioni del governo, ritenendole sproporzionate e prive di adeguata istruttoria. Il giudice amministrativo ha ricordato che le restrizioni alle libertà fondamentali del mercato interno possono essere giustificate solo da «presupposti oggettivi, circostanziati e specifici», fondati su un’effettiva minaccia per interessi primari dello stato e non su mere valutazioni economiche o politiche, ribadendo che il golden power non può trasformarsi in un potere di pianificazione industriale né sostituirsi ai meccanismi di vigilanza bancaria e di mercato che già presidiano il sistema creditizio.
Lo scontro tra Roma e Bruxelles
All’indomani della decisione del Tar, la Commissione europea è dapprima intervenuta con una comunicazione indirizzata al governo italiano, contestando la compatibilità del decreto del 18 aprile con l’articolo 21 del regolamento (Ce) n. 139/2004 sulle concentrazioni. Quella norma riserva alla Commissione la competenza esclusiva a valutare le operazioni di dimensione comunitaria, consentendo agli stati membri di intervenire solo per tutelare “interessi legittimi”, tra i quali la sicurezza pubblica, purché le misure siano proporzionate, non discriminatorie e preventivamente notificate. Da qui lo scontro politico-istituzionale con il governo italiano, che ha rivendicato una sovranità economica funzionale alla difesa del risparmio nazionale: sullo sfondo, la strategia comunitaria di favorire il consolidamento bancario transfrontaliero per creare gruppi capaci di competere a livello globale.
Sovranità economica o mercato unico?
Il governo, e in particolare il ministero dell’Economia e delle Finanze, ha difeso il decreto richiamando l’articolo 21, paragrafo 4, del regolamento, sostenendo che le misure miravano a proteggere la “sicurezza economica nazionale”, concetto che – a loro dire – includerebbe la stabilità del risparmio e del credito. Una visione, tuttavia, non condivisa dalla Commissione, che ha trasmesso all’Italia una lettera di messa in mora, contestando la violazione del regolamento sul Meccanismo di vigilanza unico, della direttiva in materia di requisiti patrimoniali degli enti creditizi, nonché degli articoli 49 e 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Nello stesso contesto Bruxelles ha espresso le proprie riserve sulla disciplina nazionale del cosiddetto golden power “all’italiana”, che attribuisce al governo ampi poteri per valutare, impedire o subordinare a specifiche condizioni le operazioni societarie nel comparto bancario. L’Italia ha ora due mesi di tempo per rispondere e porre rimedio alle carenze sollevate dalla Commissione. Se non lo farà, la Commissione potrà decidere di emettere un parere motivato. È certo che la decisione della Commissione assume un significato politico, oltre che giuridico: quello di riaffermare che la sicurezza economica non può essere brandita come scudo di protezionismo nazionale.
Scenari futuri nel “risiko bancario”
L’uscita di scena di UniCredit ha definitivamente spianato la strada a Crédit Agricole, che con la presentazione delle nuove linee guida al 2028 (e si potrebbe dire in vista del rinnovo del consiglio di amministrazione nell’aprile 2026) ha espressamente chiarito al mercato l’importanza strategica della propria partecipazione (di circa il 20 per cento del capitale) in Banco Bpm, partecipazione evidentemente destinata a crescere, tanto che l’amministratore delegato, in varie interviste, non ha escluso la possibilità di una fusione.
Peraltro, nel nuovo scenario, Crédit Agricole potrebbe beneficiare di un ulteriore vantaggio competitivo: la soglia per l’Opa obbligatoria, che con il nuovo testo unico finanziario potrebbe salire dal 25 al 30 per cento, consentirebbe di scalare Banco Bpm fin sotto il nuovo limite senza dover lanciare un’offerta totalitaria. L’effetto combinato di riforma del Tuf e inattività del golden power rischia di generare, ancora una volta, un doppio binario regolatorio.
Fa sorridere, semmai, l’eterogenesi dei fini della difesa governativa dell’italianità della banca lombarda, che ha avuto il paradossale effetto di consolidare la posizione di potere di una banca francese (molto più di quanto UniCredit non fosse tedesca).
Un labirinto di competenze
Le recenti scalate bancarie costringono a guardare entro il reticolo – tutt’altro che lineare – di poteri pubblici che insistono su un’unica fattispecie: appunto, l’Ops (e l’Opa) sulle banche. La vigilanza prudenziale spettante alla Bce e, in seconda battuta, alla Banca d’Italia si concentra sull’idoneità patrimoniale dell’offerente e sulla qualità del suo governo societario. Parallelamente, la Consob è chiamata a verificare la completezza e la trasparenza delle informazioni fornite al pubblico degli investitori, nonché a perseguire l’efficienza del mercato del controllo societario (articolo 91, Tuf). A questo doppio binario – prudenziale e di market conduct – si sovrappone infine il potere dell’esecutivo di esercitare il golden power. Ne deriva un intreccio che non solo appesantisce il calendario autorizzativo, ma confonde la linea di responsabilità: se l’esito finale dell’operazione dipende da decisioni assunte su piani eterogenei (stabilità finanziaria, trasparenza informativa, interesse nazionale), è difficile per investitori e operatori individuare un criterio coerente di prevedibilità dell’azione pubblica.
Verso una razionalizzazione dei poteri pubblici
Se si vuole preservare la contendibilità del settore senza sacrificare la tutela degli interessi strategici, non sembra sufficiente l’armamentario dell’articolo 5 Tuf “a monte”, né “a valle” i protocolli d’intesa siglati tra Consob e Banca d’Italia. Occorre forse consolidare un coordinamento ex ante tra la vigilanza prudenziale europea e nazionale e l’autorità di mercato (che dovrebbe contare su tempistiche certe e meccanismi di silenzio-assenso): un tavolo permanente, magari sul modello dei colleges di risoluzione bancaria, che permetta di condividere analisi e scadenze e di evitare duplicazioni istruttorie. È poi indispensabile disciplinare in modo puntuale l’esercizio del golden power, imponendo che ogni intervento – positivo o negativo – sia sorretto da una motivazione rafforzata e pubblicata integralmente, salvo i limitati profili di sicurezza nazionale realmente sensibili. Ciò renderebbe trasparente la logica sottesa al veto o alla mera imposizione di condizioni, sottraendo la leva politica al rischio di un uso discrezionale e opaco. Infine, la progettata integrazione del golden power nel regime europeo di screening degli investimenti (regolamento 2023/1549) offre l’occasione per ancorare la discrezionalità nazionale a parametri armonizzati, rafforzando il dialogo con Bruxelles e riducendo il rischio di procedure d’infrazione. Solo attraverso questo duplice movimento – semplificazione interna e convergenza europea – il nostro sistema potrà conservare la stabilità finanziaria senza rinunciare a un mercato del controllo societario realmente aperto e competitivo.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Alunno del Collegio Ghislieri, ha studiato all’Università di Pavia, dove insegna diritto della regolazione dei mercati, diritto bancario bancario e dei servizi di investimento. PhD in Economia Politica e Ordine Giuridico, ricercatore di diritto commerciale e avvocato in Milano, si occupa di operazioni straordinarie e di crisi d'impresa.
Gustavo De Pas
A novembre 2024 Banco BPM /Anima hanno partecipato all’ABB del 15% di BMPS aggiudicandosi l’otto per cento (il restante 7% è andato a Delfin/Caltagirone). E’ un pensiero malizioso ipotizzare che, quando Uncredit ha lanciato la sua OPS sul BPM, il “concerto” sul quale sta indagando la Procura Milanese fosse già pienamente in essere?
Michele Gambera
Anche la vicenda Commerzbank sembra un esempio di cose che funzionano male anche in altri paesi.