L’Ema ha autorizzato due anticorpi monoclonali contro l’Alzheimer. Ma i dati disponibili su efficacia e sicurezza destano perplessità. E aprono domande sull’introduzione nel Ssn, sull’eventuale prezzo e sulle informazioni da dare a pazienti e caregiver.
Due nuovi farmaci contro l’Alzheimer
Nel 2025 due anticorpi monoclonali – lecanemab e donanemab – sono stati autorizzati dalla European Medicines Agency (Ema, l’agenzia europea di regolazione dei farmaci) per il trattamento delle fasi iniziali della demenza di Alzheimer.
Nonostante l’approvazione del regolatore europeo, i dati disponibili su efficacia e sicurezza sollevano molte perplessità. È quindi necessario interrogarsi sul ruolo che questi farmaci possono avere nel Servizio sanitario nazionale (Ssn), sul loro possibile prezzo e su quale informazione sia opportuno fornire ai pazienti e ai loro caregiver.
L’efficacia di donanemab e lecanemab
L’efficacia è stata valutata in due studi clinici randomizzati che hanno coinvolto oltre 1.700 pazienti ciascuno ai quali, in modo casuale, è stato assegnato il farmaco o il placebo. I pazienti sono stati seguiti per 18 mesi e l’esito primario di efficacia è stato accertato attraverso la variazione nel punteggio di scale che misurano i cambiamenti cognitivi e funzionali. In entrambi i casi, la differenza tra il gruppo dei pazienti trattati con il farmaco e quelli che hanno ricevuto il placebo è statisticamente significativa, ma il beneficio è modesto e non raggiunge la soglia di rilevanza clinica (tabella 1). Non è neppure possibile, per entrambi i farmaci, individuare a priori eventuali sottogruppi di pazienti nei quali l’efficacia del trattamento superi questa soglia.
In particolare, nel caso del donanemab è stata utilizzata la scala iADRS (integrated Alzheimer Disease Rating Scale), che varia da 0 a 144 punti (con punteggi più bassi che indicano una condizione più grave). Per il lecanemab si è usata invece la scala CDR-SB (Clinical Dementia Rating Scale – sum of boxes), che varia da 0 a 18 punti (con punteggi più elevati che, all’opposto della scala iADRS, indicano una condizione più grave). Entrambe le scale presentano una soglia di variazione minima di punteggio che i clinici giudicano clinicamente rilevante per i pazienti: 5-9 punti per la scala iADRS e di 1-2 punti per la scala CDR-SB (Muir 2024). Per il donanemab, lo studio evidenzia un peggioramento medio di 13,1 punti nel gruppo placebo, rispetto ai 10,2 punti nel gruppo trattato: una differenza di 2,9 punti a favore del farmaco. Similmente, per il lecanemab, si ha un peggioramento di 1,66 punti nel gruppo placebo e 1,21 punti nel gruppo trattato: una differenza di 0,45 punti a favore del farmaco.
I rischi associati al trattamento
L’ulteriore problema è che, per un beneficio limitato, entrambi i farmaci mostrano un aumento consistente dei cosiddetti fenomeni Aria (amyloid-related imaging abnormalities), anormalità a livello cerebrale visibili alla risonanza magnetica che possono manifestarsi come edemi (Aria-E) o microemorragie (Aria-H).
Nel dettaglio, il lecanemab aumenta l’incidenza di edemi cerebrali, da 1,3 per cento nei pazienti del gruppo placebo a 8,9 per cento nel gruppo trattato, mentre le microemorragie passano dal 6,9 per cento del placebo a 13,2 per cento dei pazienti trattati. Con queste differenze ci attendiamo che il numero di persone da trattare perché si verifichi un effetto avverso sia di 13 pazienti per i fenomeni Aria-E e di 16 per Aria-H. Per il donanemab l’incremento del rischio di edemi cerebrali passa da 1,5 per cento nel placebo a 20,2 per cento nei trattati, mentre quello di microemorragie da 11,7 per cento nel placebo a 27,4 per cento per i trattati. Con queste differenze, è atteso un nuovo caso di fenomeni Aria-E o di Aria-H, rispettivamente ogni 5 o 6 trattati con il farmaco.
Al momento non è possibile prevedere quali pazienti avranno questi effetti avversi né chi svilupperà le forme sintomatiche (più gravi). Le differenze tra i due farmaci nei tassi di Aria non sono direttamente confrontabili, poiché gli studi potrebbero aver adottato criteri differenti per l’accertamento degli esiti.
Rimborsare questi farmaci? E a quale prezzo?
L’autorizzazione di lecanemab e donanemab a livello europeo non comporta automaticamente il rimborso da parte dell’Aifa, l’agenzia nazionale per la regolamentazione dei farmaci. L’Ema e l’Aifa hanno infatti ruoli diversi. Per ottenere l’autorizzazione Ema non è necessario che l’efficacia di un farmaco superi una soglia predefinita di rilevanza clinica. L’Aifa, invece, si occupa di rimborsabilità, e riconoscerla per un nuovo farmaco equivale a inserirlo nei livelli essenziali di assistenza (Lea). Occorre quindi valutare non solo la gravità della condizione clinica da trattare, ma anche l’entità dei benefici attesi. Per il donanemab e il lecanemab, la presenza di un’efficacia clinica quasi indistinguibile dal placebo e un maggior rischio di eventi avversi gravi dovrebbero portare alla non rimborsabilità.
Ma ammettiamo che si arrivi ala rimborsabilità. Quale dovrebbe essere il prezzo “corretto”, cioè quanto dovrebbe pagare il Ssn per un trattamento? La legge istitutiva dell’Aifa prevede che si possano inserire nel prontuario terapeutico “nuovi farmaci non comportanti (…) vantaggio terapeutico (…) solo se il prezzo (…) è inferiore o uguale al prezzo più basso dei medicinali per la relativa categoria omogenea” (art. 48, comma 5, lettera e, legge 326/2003).
Da circa venticinque anni il Ssn rimborsa quattro farmaci antidemenza (gli inibitori delle colinesterasi – donepezil, galantamina e rivastigmina – e la memantina). Pur nei limiti dei confronti indiretti, i nuovi anticorpi non appaiono più efficaci del donepezil, l’inibitore delle colinesterasi più prescritto nel Ssn, mentre mostrano un peggiore profilo di rischio. Rispetto ai costi di trattamento, i farmaci attualmente rimborsati hanno un costo medio annuo di circa 135 euro contro i 20-30mila euro annui richiesti negli Stati Uniti per i due anticorpi monoclonali. Le distanze rimarrebbero incolmabili anche considerando il costo di trattamento dei quattro farmaci antidemenza prima della scadenza brevettuale (circa 7-800 euro per anno), e le riduzioni ottenibili con la negoziazione di sconti riservati. A questo si aggiunge il costo, tutt’altro che trascurabile, del monitoraggio mediante risonanze magnetiche necessarie per individuare e gestire tempestivamente i fenomeni Aria.
Infine, ogni negoziazione di un nuovo farmaco contribuisce a ridefinire le aspettative circa i prezzi di rimborso. Accettare prezzi elevati per farmaci che offrono un beneficio clinico impercettibile produrrebbe un precedente sfavorevole, influenzando negativamente future negoziazioni di medicinali dotati di un reale valore terapeutico aggiunto, in termini cura di una malattia o aumentata sopravvivenza o miglioramento della qualità di vita.
L’informazione da dare a pazienti e caregiver
Qualunque sia la decisione dell’Aifa, è essenziale che pazienti, familiari e caregiver ricevano un’informazione chiara, anche di carattere quantitativo, circa l’efficacia e la sicurezza dei due anticorpi monoclonali.
Relativamente all’efficacia, è importante spiegare con l’aiuto dei dati degli studi che, sebbene i farmaci mostrino un rallentamento della progressione della malattia, è comunque molto inferiore alla soglia considerata clinicamente rilevante.
Per quanto riguarda la sicurezza, non è sufficiente dire che ci possono essere effetti avversi. È necessario richiamare l’attenzione sull’entità dell’incremento di rischio di edemi e microemorragie cerebrali. Inoltre, come indicato nelle schede tecniche dei due farmaci, si deve chiarire che a causa dell’aumentato rischio di emorragie cerebrali diventerebbe ancora più rischioso, o impraticabile, il trattamento con trombolitici o anticoagulanti nel caso in cui un paziente vada incontro a un ictus ischemico o a una trombosi arteriosa.
Non è la prima volta che Food and Drug Administration (Fda) ed Ema autorizzano farmaci che mostrano un effetto terapeutico statisticamente significativo ma non clinicamente rilevante. Per donanemab e lecanemab aumenta anche il rischio di effetti avversi gravi.
Con un profilo beneficio-rischio così problematico, è sostanzialmente impossibile negoziare un prezzo che sia correlato al valore terapeutico aggiunto. Nonostante l’enorme bisogno clinico-assistenziale della demenza di Alzheimer sarebbe quindi preferibile non rimborsare i due anticorpi monoclonali. Se invece i due farmaci saranno rimborsati, bisogna almeno far sì che pazienti e caregiver ricevano un’informazione completa sui limiti dell’efficacia e sui rischi associati al trattamento.
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