Con l’autonomia, i dirigenti scolastici hanno acquisito un ruolo cruciale in tutti gli aspetti di gestione della scuola. Ma non sembrano avere capacità manageriali adeguate rispetto ai colleghi di altri paesi. Il contesto istituzionale, le buone pratiche e gli effetti sui risultati degli studenti.
IL RUOLO DEL DS
Le comparazioni internazionali offrono da diversi anni un quadro piuttosto preoccupante delle capacità analitiche degli studenti italiani. Secondo i dati Ocse-Pisa del 2009 il valore medio del test di lettura colloca l’Italia al ventitreesimo posto su trentaquattro paesi Ocse e nei test di matematica e scienze la posizione degli studenti italiani è ancora peggiore. Comprendere quali sono i fattori che incidono su questi risultati potrebbe aiutare a migliorarli. Un ruolo importante potrebbe essere svolto dai dirigenti scolastici. Con la riforma dell’autonomia scolastica del 2000 la figura del dirigente scolastico ha ricevuto poteri sempre più ampi, assumendo un ruolo importante non solo in ambito educativo, ma in tutti gli ambiti di gestione della scuola in quanto “(…) responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio”. È dunque importante misurare la qualità delle pratiche manageriali dei Ds e analizzare se e quanto queste contino nella determinazione dei risultati degli studenti.
I CONFRONTI INTERNAZIONALI
In un recente lavoro analizziamo se le pratiche manageriali adottate dai Ds delle scuole secondarie superiori italiane influenzano gli esiti degli studenti nei test di matematica somministrati dall’Invalsi. (1) Per misurare le pratiche manageriali dei Ds abbiamo utilizzato la metodologia di rilevazione sviluppata all’interno del progetto World Management Survey (Wms) basata su un questionario a risposta aperta che valuta in una scala da 1 (qualità peggiore) a 5 (qualità migliore) le soluzioni attuate dai manager nel risolvere specifici problemi gestionali . La stessa metodologia è stata utilizzata in altri paesi. (2) L’indagine sulle pratiche manageriali dei Ds italiani evidenzia innanzitutto un gap notevole rispetto ad altri paesi sviluppati per i quali esistono dati confrontabili, raccolti in precedenti lavori: Canada, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Svezia. I nostri dirigenti, che hanno un’età media maggiore di quasi dieci anni rispetto ai loro colleghi stranieri, ottengono infatti un punteggio medio di 2, mentre negli altri paesi il valore è compreso fra 2.5 (Germania) e 3 (Regno Unito). (3) In secondo luogo, i dati indicano che la bassa efficienza delle pratiche manageriali non è in prima battuta attribuibile al contesto istituzionale. Molti degli aspetti analizzati nella ricerca, come il reclutamento di nuovo personale e il licenziamento di quello esistente, risentono fortemente dei vincoli istituzionali a cui sono sottoposti i dirigenti scolastici, che non hanno autonomia di assunzione o licenziamento. Altri, come il monitoraggio dei risultati della scuola o la definizione e il raggiungimento di obiettivi specifici, dipendono interamente dalla volontà e capacità dei singoli. Rispetto agli altri paesi osservati, le pratiche manageriali adottate dai Ds italiani risultano peggiori anche in ambiti in cui i vincoli istituzionali sono poco rilevanti: ciò segnala una carenza intrinseca di competenze manageriali. Inoltre, la ricerca suggerisce che l’utilizzo di buone pratiche manageriali influenza positivamente i risultati degli studenti. Le stime riportate nel nostro lavoro indicano che un aumento unitario dell’indice di qualità manageriale dei dirigenti scolastici italiani, che corrisponde alla differenza tra la qualità manageriale calcolata per i nostri dirigenti e quelli del Regno Unito, aumenta il punteggio medio degli studenti nei test Invalsi di matematica di circa il 4,6 per cento. Se confrontato con i risultati dei test internazionali Pisa, questo aumento permetterebbe agli studenti italiani di chiudere il gap rispetto alla media Ocse nei test di matematica. Ulteriori analisi suggeriscono inoltre che le buone pratiche manageriali hanno un effetto negativo sul ritardo scolastico degli studenti, mentre non si osservano effetti differenziati tra studenti svantaggiati e studenti bravi. Infine, i dati indicano che, quanto a capacità manageriali, la selezione dei Ds italiani è cambiata, in meglio, nel tempo. I dirigenti scolastici entrati dopo la riforma dell’autonomia scolastica adottano pratiche manageriali migliori rispetto a quelli pre-riforma e le stime effettuate su questo sottocampione di dirigenti indicano un effetto ancora maggiore sui risultati degli studenti.
QUALI IMPLICAZIONI PER LE POLITICHE SCOLASTICHE?
Quanto descritto in precedenza ha implicazioni importanti per il dibattito sulla riforma della scuola in generale e della dirigenza scolastica in particolare. Un aspetto molto discusso è quello dell’autonomia scolastica. La letteratura recente sulle determinanti della performance degli studenti ha posto l’accento su tre aspetti: concorrenza, indipendenza, responsabilità. (4) Sistemi scolastici in cui le scuole godono di autonomia gestionale, in cui competono per gli studenti e sono premiate o penalizzate a seconda dei risultati degli studenti, tendono a generare livelli di apprendimento superiore rispetto a quelli centralizzati. Tuttavia, questo principio vale solo in presenza di una infrastruttura istituzionale ben funzionante, senza la quale gli effetti della decentralizzazione potrebbero essere negativi. Aumentare il grado di autonomia delle scuole in presenza di una dirigenza scolastica poco preparata a gestirla comporta il rischio di ridurre il livello medio di apprendimento e aumentare il ritardo delle Regioni con risultati peggiori. I dati sulle capacità manageriali dei Ds italiani indicano infatti una significativa eterogeneità per macro-area e sembrano rispecchiare i differenziali osservati a livello territoriale nei risultati degli studenti nei test standardizzati. Il passo propedeutico all’autonomia scolastica è un processo di formazione, selezione e, nei casi di performance negative, di rimozione dei Ds che sia in grado di garantire buone competenze manageriali. Ma perché i nostri Ds difettano di competenze manageriali rispetto ai loro colleghi di altri paesi? L’analisi suggerisce che gli attuali criteri di accesso non sono in grado di imporre uno standard minimo di capacità manageriali con evidenti differenze regionali. Il processo di selezione gioca dunque un ruolo cruciale. Da questo punto di vista, i problemi di gestione dell’ultimo concorso, già evidenziati nel contributo di Patrizia Cocchi su lavoce.info, indicano che c’è ancora molta strada da fare anche nella sola definizione delle modalità di svolgimento della selezione. L’ultimo concorso nazionale ha tuttavia accresciuto l’importanza delle competenze manageriali e ha abbassato la soglia minima legata all’anzianità di servizio nella valutazione dei candidati. Sarà interessante vedere se il personale selezionato con queste nuove modalità è dotato di capacità manageriali superiori di quello che ha avuto accesso con i concorsi precedenti. Un ultimo aspetto che merita di essere analizzato è la formazione. I Ds italiani provengono per la maggior parte dalla carriera dell’insegnamento. Oltre all’esperienza come insegnante, sarebbe invece importante che i Ds coltivassero le loro capacità gestionali attraverso una formazione specifica. La scuola è troppo importante per farla gestire a Ds autodidatti dal punto di vista delle pratiche manageriali.
(1) Il lavoro è stato finanziato dalla Regione autonoma della Sardegna, fondi legge 7/2007, e dalla Fondazione Giovanni Agnelli, che ha anche contribuito all’attuazione del progetto.I dati sono stati raccolti per un campione di 338 dirigenti, rappresentativo delle scuole secondarie di secondo grado. Si vedano Di Liberto, A., Schivardi, F. e Sulis, G. (2013) “Managerial Practices and Students’ Performance” Working Paper N. 49, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino; Di Liberto, A., Schivardi, F., Sideri M. e Sulis, G. (2013) “Le competenze manageriali dei dirigenti scolastici italiani” Working Paper N. 48, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino.
(2) In circa dieci anni dall’inizio del progetto Wms sono state intervistate quasi 10mila organizzazioni comprendenti sia il settore privato (manifatturiero e commercio) che alcuni settori della pubblica amministrazione (scuole e sanità). La metodologia è quindi ampiamente testata anche nell’ambito della dirigenza scolastica. Si veda Bloom N., e Van Reenen J. (2007) “Measuring and explaining management practices across firms and countries”, Quarterly Journal of Economics, vol. CXXII (4), 1351-1408.
(3) Per I dati internazionali si veda Bloom N., Genakos C., Sadun R., Van Reenen J. (2012), “Management practices across firms and countries”, The Academy of Management Perspectives, 26 (1). pp. 12-33.
(4) Hanushek, E., Link S., Woessmann L. (2012), “Does school autonomy make sense everywhere? Panel estimates from Pisa”, NBER Working Papers, No. 17591.
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Enrico
Interessante articolo. Premetto che non sono un Ds e che lavoro nel privato.
Non conosco abbastanza la realtà di lavoro dei Ds, ma mi sento di dire che le competenze manageriali non si possono semplicemente acquisire con la formazione, che naturalmente è fodamentale per avere le basi, ma piuttosto da un’esperienza specifica.
Per questo forse i Ds non dovrebbero necessariamente provenire dalla carriera di insegnamento, ma allargare il recultamento a personale esterno, anche dal privato.
Per fare questo, però, dovrebbero cambiare radicalmente i vincoli istituzionali; quello che in realtà non permette il miglioramento è la completa inamovibilità, ad ogni livello.
Giampietro Vecchiato
Interessantissimo!!!!! Complimenti agli autori.
Luigi Proia
Il problema scuola non si risolve assumendo dirigenti con conoscenze di organizzazione e management. Il problema è politico.
In questi anni si è tanto “laudata” l’autonomia scolastica, senza rendersi conto che l’autonomia è stata introdotta per ridurre il numero di istituti, licei e scuole in modo da avviare un risparmio economico sul bilancio statale.
Alcuni politici regionali si sono inventati i buoni scuola e le sovvenzioni ai privati creando un dualismo pubblico-privato che non può esistere perché una scuola “vera” ha dei costi con pochi o nessun ritorno a meno che non diventi un diplomificio come in realtà avviene.
Si parla tanto dei test Ocse-Pisa addossando la responsabilità degli scarsi risultati agli insegnanti e professori di matematica senza analizzare le pratiche introdotte dal MIUR sulle verifiche e valutazioni. In qualsiasi scrutinio i professori delle materie “dure”: matematica, fisica, informatica sono sempre messi in minoranza in primis dal DS con seguito dei professori di religione, educazione fisica, sostegni vari, lingue ecc. Con questo come si può pretendere di avere successo in qualsiasi test.
Il dibattito sulla scuola va certamente affrontato ma la prima domanda da porsi è che scuola vogliamo. Una scuola che forma cittadini e non sudditi come in questi venti anni è diventata.
P.S. Ho insegnato trentasei anni negli istituti tecnici: matematica applicata, informatica industriale e matematica e fisica.
antonio gasperi
Le ultime righe del contributo svelano l’approccio teorico alla questione: la scuola è un servizio come un altro, il “bene” istruzione non differisce sostanzialmente dagli altri beni offerti sul mercato. Infatti nessuno degli autori si è reso conto che il motivo per cui i DS provengono dalla carriera di insegnamento è proprio perchè PRIMA dell’autonomia e della creazione del ruolo separato dei DS a direttiori e presidi era richiesto di essere leader educativi. DOPO l’autonomia i capi d’istituto devono essere ANCHE dirigenti amministrativi, il che – aldilà delle qualità personali, delle miracolose formazioni o delle fondamentali esperienze manageriali – rende il loro lavoro francamente improbo. detto questo mi piacerebbe sapere cosa viene chiesto nel questionario a risposta aperta del progetto World Management Survey (Wms) per entrare nel merito della ricerca e capire se sono stati sprecati inutilmente altri soldi alla voce istituzioni scolastiche. cordialità
Giovanni Rossi - Docente ITTS
Magari le pratiche manageriali dei Ds influenzassero solo gli esiti degli apprendimenti in matematica, il dramma è che hanno ricadute su tutta l’ attività scolastica. Finché la selezione dei Ds non comprenderà un tirocinio almeno triennale, oltre al superamento di un pubblico concorso, non si avranno sufficienti garanzie circa le capacità necessarie per determinare un impatto positivo sugli alunni e sul tutto il personale scolastico.
sandro dp
Vorrei capire meglio, con esempi, cosa si intende con buone capacità manageriali. Insomma qualche esempio concreto.
Grazie.
rosario nicoletti
rosario nicoletti – l’autonomia, in tutti i settori scolastici , è stata in Italia introdotta senza tenere conto dei vincoli legislativi ed istituzionali. Un “manager” non può svolgere il suo ruolo se non può licenziare ed assumere – caso della scuola media – e non lo può svolgere neppure quando viene votato al ruolo dai “dipendenti” – caso dell’università. In subordine, è assurdo pensare che gli operatori del settore (insegnanti) si improvvisino managers. La situazione è chiarissima; basterebbe prendere adatti provvedimenti
Giovanni
Manco dall’ambiente da molti anni. Forse per questo non riesco a immaginare quanto generiche capacità manageriali siano così fondamentali per il funzionamento di una scuola che è qualcosa di ben diverso da un’azienda. In particolare non riesco a immaginare quanto possano incidere tali capacità sui risultati in Matematica: penso che la cosa fondamentale sia avere buoni insegnanti e che quindi bisognerebbe incentivarli sia dal punto di vista economico che di prestigio sociale. Su questo punto si è agito solo nei riguardi dei presidi, trasformati in dirigenti, e ci potrebbe anche stare, e dei segretari, divenuti anche loro dirigenti, e qui mi pare che siamo nell’assurdo.
Maurizio Serafin
Credo che più che guardare ai criteri e ai meccanismi di accesso alla professione, per la difficoltà di trovare la quadratura del cerchio fra l’indispensabile esperienza nei sistemi educativi e le determinanti competenze manageriali (sarebbe come cercare le mosche bianche), bisognerebbe lavorare sulla valutazione dei dirigenti scolastici e sull’opportunità offerta dalla natura a tempo determinato del loro contratto.
Non credo ci sia niente di male se un dirigente scolastico che non ha dato buona prova di sé, o che durante la sua carriera non riesce più a sostenere un ruolo usurante e sottoposto a rischio di burn out, “rientri” a fare il docente piuttosto che la figura di staff nelle istituzioni scolastiche.
Ovviamente questo obbliga ad aggiornare l’attuale organizzazione del sistema nazionale di valutazione e soprattutto la funzione ispettiva, trovando soluzioni per il potenziamento di entrambi e la loro integrazione e maggiore presenza nel territorio, in modo da fornire col primo (penso naturalmente all’INVALSI e alle valutazioni sul valore aggiunto scolastico) strumenti utili a un esercizio effettivo ed efficace del secondo.
Giovanni Scotto
L’introduzione dell’autonomia scolastica prevedeva forse l’arrivo di dirigenti dai poteri sovrumani. Competenze formative (indispensabili), manageriali (e sono d’accordo con l’impostazione dell’articolo): oltre a questo, mancanza di accountability pressoché totale, e assenza di un meccanismo di gestione dei reclami che non sia la riconsiderazione da parte dello stesso dirigente. (chi non è d’accordo può rivoglersi solo alla giustizia amministrativa, con i connessi costi, tempi e impatto sul sistema)
Un super(wo)man – monarca assoluto/a …
Antonino Di Lorenzo
Avendo studiato in Italia e all’estero e avendo quindi avuto modo di saggiare un pò ds da una parte e dall’altra, mi si permetta di dare un parere.Subito mi verrebbe da dire che all’estero sono migliori ma mi sbaglierei perché non avrei tenuto conto del contesto generale in cui si opera. La scuola é fatta da chi dà l’istruzione e da chi la riceve. All’estero gli studenti sanno perché studiano, sono più motivati e facilitano con il loro impegno il lavoro dei responsabili scolastici. Da noi, ormai, gli studenti non vedono più nell’istruzione il canale migliore per le loro ambizioni, sono demotivati e certamente, anche volendo, non riescono più ad impegnarsi come occorrerebbe. Questo certamente non facilita il lavoro dei dirigenti scolastici.
Enrico
Parlando della motivazione degli studenti si apre un discorso enorme ed è facile andare fuori tema rispetto all’articolo. Mi consenta però di condividere quanto ha scritto sulla motivazione degli studenti.
Colgo l’occasione per proporre un’analisi, sarebbe interessante avere i dati di iscrizione alle varie facoltà, magari divisi per ateneo, negli ultimi 20 anni (o anche 10).
Pasquale Picone, preside Licei
Gent.mi Autori,
a proposito del Vs. servizio su “Le lacune del preside-manager”, prima, e insieme, del confronto con la situazione degli altri paesi, bisognerebbe partire dalla specificità della storia, della cultura e dei comportamenti prodotti dalla percezione diffusa in Italia che, oramai, colloca la scuola pubblica in uno status di minorità di cui tutti, letteralmente, abusano.
L’apparente drasticità di una simile diagnosi si rivela come realismo analitico se si considerano le pratiche di quelle Amministrazioni Pubbliche che, per mission istituzionale, dovrebbero valorizzare e legittimare la scuola pubblica come trincea di trasmissione dei valori di civiltà alle nuove generazioni.
Ad esempio, se tutte le scienze umane, dalla psicologia alla pedagogia alla sociologia sino all’antropologia culturale e alla psicoanalisi hanno dimostrato, da circa un secolo e mezzo, che le diverse fasce di età (seconda e terza infanzia; pubertà ed adolescenza) manifestano processi cognitivi e di personalità specifici le une dalle altre; considerando che il patrimonio della conoscenza si è sempre di più diversificato per specializzazione, come mai il MIUR, nell’ultimo concorso a dirigente scolastico (non il precedente che ho vinto io), ha cancellato le due fasce della dirigenza per la scuola di base (seconda e terza infanzia; pubertà) e per i Licei (adolescenza), unificando in un ruolo promiscuo delle competenze che dovrebbero essere sempre più differenziate?
Inoltre, sempre per rimanere a qualche esempio tra i più immediati e tra quelli di cui nessuno parla, come spiegare diversamente (da quella qui di seguito proposta) le “molestie amministrative” (fonte: CGIL) di cui i dirigenti scolastici sono resi oggetto negli ultimi anni sempre più frequentemente da parte del MIUR ai fini, anche qui come diagnosi di realismo”, di limitare a zero i margini di autonomia delle singole scuole, onde trasformare i cosiddetti “manager”, da guide culturali ed organizzative, a semplici burocrati esecutori di disposizioni centralizzate?
Infine, non conclusiva, allego qui la risposta ai rettori delle Università della Regione Lazio su di un altro aspetto delle relazioni che si attivano nei confronti della scuola pubblica.
Cordialmente
prof. Pasquale Picone
– preside dei Licei Statali di Ronciglione e Bassano Romano (VT)
– psicoanalista junghiano ARPA-Torino/Roma; IAAP-Zurigo
Pasquale Picone, preside Licei
Risposta al Preside della Facoltà di Economia Università della Sapienza di Roma
Gent.mo Prof.re,
dalla mia esperienza di Supervisore per la classi di concorso A036 e A037 alla
SSIS-Lazio, che ha prodotto un testo sulla teoria e pratica della supervisione,
tirocinio e costruzione della professionalità docente,
(http://www.libreriafernandez.it/libreria/catalogo/libro/9788886091893/Pasquale-Picone-Supervisione-e-formazione-permanente
) -esperienza maturata prima che vincessi il concorso ordinario a dirigente
scolastico nel 2007-, in relazione al quadro dei rapporti tra Università e
Scuola, ho dovuto concludere che:
1) nell’Università prevale un atteggiamento “coloniale” nei confronti della scuola, teso a non valorizzare le risorse interne della scuola, contribuendo, al di là dei formalismi, a relegarla nello stato di minorità (di cui tutti abusano) che oramai prevale nella percezione diffusa;
2) il“fallimento” delle SSIS è stato causato da una sorta di follia a due tra le
ombre distruttive della scuola e quelle dell’università;
3) per l’economia del potere delle università, una SSIS unica per regione era
insufficiente: si è voluta una “SSIS” in ogni università;
4) alcune università, ben consce delle precedenti realtà, hanno comunicato di assegnare un contributo alle scuole per ogni tirocinante che viene accolto.
Pertanto, nel declinare il gentile invito alla riunione da Voi promossa, comunico che i
Licei Statali da me diretti, non daranno disponibilità ad accogliere
tirocinanti provenienti da quelle università che non avessero deliberato il
contributo di cui sopra.
Con la più viva cordialità
IL DIRIGENTE SCOLASTICO
prof. Pasquale Picone
preside Licei Statali di Ronciglione e Bassano Romano (VT)
Giovanni Sulis
Ringraziamo tutti i lettori per i commenti al nostro lavoro. Alcuni richiedono maggiori dettagli sulle domande poste ai DS durante l’indagine. Il questionario comprende 25 domande che coprono molti aspetti del lavoro del DS. La metodologia di raccolta è innovativa e permette di cogliere aspetti delle pratiche organizzative difficilmente quantificabili. La descrizione della metodologia d’indagine, incluse le domande specifiche sottoposte ai dirigenti, si trova in appendice C nel Working Paper della Fondazione Agnelli no.48, disponibile all’indirizzo http://www.fga.it/working-papers/tutti-i-working-papers/dettaglio/article/wp-48-le-competenze-manageriali-dei-dirigenti-scolastici-italiani-418.html.
Stefano Andreoli
Condivido l’analisi degli autori, e mi permetto di suggerire un provvedimento normativo molto semplice che potrebbe contribuire a migliorare la qualità dei nostri dirigenti scolastici: stabilire per legge che un dirigente scolastico non può rimanere nella stessa scuola per troppo tempo (diciamo 10 anni).
Io sono dirigente in un ufficio scolastico regionale e per esperienza so quanto sia utile, per arricchire la propria professionalità, cambiare ogni tanto di ufficio. Si imparano cose nuove e allo stesso tempo si porta il proprio contributo di idee e di esperienze in un’altra organizzazione.
Nel mondo della scuola si assiste spesso a casi di dirigenti scolastici che restano per tutta la loro carriera, fino alla pensione, nella stessa scuola. In singoli casi naturalmente può essere una cosa buona, ma in generale non aiuta ad avere un sistema scolastico innovativo ed aperto al cambiamento.
Stefano Andreoli