Le banche europee non hanno risolto i loro problemi e non sono pronte per Basilea 3. Ma regole più severe sono necessarie per rendere più sicuro il sistema finanziario. E mentre continuano a litigare, spalleggiate dai rispettivi governi, a pagare il prezzo più alto è l’economia.

Nel giro di poco più di una settimana, tre notizie, apparentemente diverse fra loro hanno fatto capire quanto sia profonda e pericolosa l’attuale situazione del sistema bancario europeo. In ordine cronologico: il commissario Michel Barnier (facendo seguito ad analogo annuncio americano) ha fatto sapere che le più severe regole sul capitale delle banche (Basilea 3) non entreranno in vigore in Europa il 1° gennaio 2013 come inizialmente previsto. Poi la Bank of England nella sua Financial Stability Review ha messo in dubbio la solidità effettiva delle banche britanniche. Infine Christian Noyer, governatore della Banque de France e autorevole rappresentante dell’Eurosistema, ha detto che non c’è nessuna ragione per cui Londra debba continuare a comportarsi come centro offshore di una moneta, l’euro, cui non vuole aderire e che dunque il suo ruolo dovrebbe più legittimamente essere occupato da una piazza europea (non ha detto: possibilmente sulle rive della Senna, ma lo pensava).
C’è un filo rosso che lega queste tre notizie: le banche europee sono ben lungi dall’aver risolto i loro problemi, non sono ancora pronte per essere sottoposte alle regole più severe che sono necessarie per rendere il sistema finanziario più sicuro, ma intanto continuano a litigare come i capponi di Renzo, spalleggiate dai rispettivi governi. In tutto questo, è l’economia a sopportare il prezzo più alto. L’enorme massa di liquidità fornita dalle banche centrali non si traduce infatti in prestiti. Rischiamo così di veder proiettare sugli schermi europei il film dell’orrore di un credit crunch durato oltre un decennio, che i giapponesi sono stati costretti a vedere a partire dalla fine degli anni Novanta.

LE VITE (NON) PARALLELE DI REGNO UNITO E ITALIA

Il rapporto della Bank of England pubblicato il 30 novembre individua due punti di debolezza delle banche britanniche: da una parte una contabilizzazione non adeguata delle perdite presumibili sui crediti e dall’altro una troppo ottimistica stima del rischio di credito ai fini del calcolo del capitale di vigilanza, favorita dall’opacità e dalla complessità dei requisiti di Basilea.
In parole povere, la robustezza patrimoniale delle banche britanniche può essere molto più apparente che sostanziale e questo può in larga misura spiegare un atteggiamento estremamente prudente nella concessione di nuovi prestiti. Nonostante la Bank of England sia stata generosa almeno quanto la Bce nel fornire liquidità a tassi vicini allo zero e nonostante siano state poste condizioni più stringenti per assicurare che il credito della banca centrale si trasformasse in prestiti all’economia, la situazione nel Regno Unito non appare migliore rispetto all’area dell’euro: il tasso annuo di crescita del credito negli ultimi due anni è stato di solo 1 per cento per le famiglie e addirittura di -3 per cento per le imprese.
L’analogo rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato quasi negli stessi giorni dalla Banca d’Italia conferma la restrizione in atto nell’offerta di credito, mettendo per di più in evidenza la divaricazione sempre più netta a danno dei paesi periferici di Eurolandia, che vedono una dinamica dei prestiti molto più contenuta rispetto alla media o addirittura negativa. La Banca d’Italia esclude che la contrazione del credito possa essere imputata a una delle due cause indicate dalla Bank of England e, dati alla mano, dimostra che non ci sono prove che le banche italiane siano afflitte dall’uno o dall’altro dei problemi prima indicati.
Va detto che il mercato non sembra così sicuro e continua a penalizzare le nostre banche. Un grafico del rapporto italiano mette in evidenza che, fatti pari a cento i corsi di borsa ad agosto 2008 (cioè prima del ciclone Lehman), i corsi azionari delle banche italiane sono circa la metà della media europea e un terzo di quella americana. Differenze così forti si notano anche se guardiamo al rapporto fra capitalizzazione di borsa e valore contabile (il cosiddetto price-book value) che è generalmente molto basso per le nostre banche.
Non solo quindi il credit crunch continua, ma è sempre più evidente che la strategia delle banche centrali basata su due armi – molta liquidità e una sostanziale ricapitalizzazione guidata dagli stress test dell’Eba – non ha funzionato. O, meglio, ha potuto evitare nell’area dell’euro l’implosione del sistema bancario, ma non ha messo in moto i meccanismi del normale riafflusso di credito all’economia.
Insomma: il perno del sistema di Basilea, quello del calcolo delle attività ponderate per il rischio (in gergo Rwa,risk weighted assets) non sta funzionando come dovrebbe perché le banche hanno troppi margini di manovrae piegano i calcoli alle proprie esigenze, sotto l’occhio più o meno compiacente, almeno finora, delle rispettive autorità di vigilanza. Ma non è ovunque così, perché mentre in Italia le differenze fra banche sono spiegate, secondo l’analisi condotta in via Nazionale, da differenze nella loro operatività, la Bank of England scopre oggi che per uno stesso portafoglio di attività, la banca britannica più prudente stima un requisito di capitale che è triplo rispetto a quella più aggressiva. Ohibò.

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LA RICAPITALIZZAZIONE NON PROCEDE CON LA VELOCITÀ PREVISTA

Il problema è che da quando è scoppiata la crisi, le banche hanno irrobustito il capitale, nonostante certe reazione riottose di alcuni, ma soprattutto con riferimento alle Rwa, cioè al parametro su cui aumentano sospetti e incertezze. Misurato nei termini più rozzi ma inequivocabili di rapporto fra patrimonio (al netto di attività immateriali) e totale attivo, la situazione è diversa. Come dimostrano i dati recentemente pubblicati da Mediobanca, non solo le differenze sono ancora troppo ampie, ma alcune banche hanno addirittura aumentato laleva finanziaria dal 2009 a oggi. (1)
Il grafico che segue indica il valore del leverage per le principali banche europee al 30 giugno 2012, confrontato con quello alla fine del 2009.

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I valori vanno da poco meno di 20 a oltre 50, il che significa che rispetto al totale attivo, ci sono banche che hanno il 5 per cento del capitale e banche che hanno meno di due. Inoltre, una parte notevole delle banche appare pericolosamente vicina o addirittura oltre il limite del 3 per cento (pari a un leverage di 33) che si vuole appunto introdurre con Basilea 3.
Il problema è che le banche meno capitalizzate sono anche quelle più esposte alle attività sui mercati finanziari che sono più rischiose e su cui – come dimostra l’analisi della Bank of England – spesso le banche usano le regole a proprio favore. Il grafico che segue, sempre basato su dati Mediobanca, dimostra chiaramente il nesso fra grado di leverage ed esposizione al mercato dei derivati. L’indice di correlazione fra le due serie è pari a 0,646.

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È questa dispersione che spiega le due battaglie che si stanno svolgendo: da un lato quella per riportare regole più efficaci nel mercato finanziario, dall’altra quella per il controllo del mercato. Ma non si può pretendere di vincerle entrambe: se le regole saranno veramente efficaci, ridurranno inevitabilmente la massa di operazioni finanziarie, esattamente quelle che generano profitti per le banche solo se finanziate a debito (e in uno scenario di bassi tassi di interesse). E allora, si capiscono i rinvii, le dichiarazioni minacciose per la supremazia sulla piazza finanziaria, mentre qualcuno per mettersi a posto la coscienza denuncia le debolezze del proprio sistema bancario.

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NON RINVIARE IL LIMITE AL LEVERAGE E DARE PIÙ SPAZIO ALL’EBA

In tutto questo, lo slittamento di Basilea 3 non è dunque una buona notizia, neppure per le prospettive di credito alle imprese. Almeno il limite relativo al minimo di capitale rispetto al totale dell’attivo deve entrare in vigore nei tempi già stabiliti, cioè con un monitoraggio da parte delle autorità, senza un obbligo tassativo, che doveva durare fino alla fine del 2017 (!). Allontanare nel tempo questa tabella di marcia (si fa per dire) pare francamente eccessivo e controproducente.
Nel frattempo, si dovrà rafforzare il ruolo che l’Eba sta conducendo insieme al Comitato di Basilea per cercare di identificare, e ridurre al minimo, le differenze di rischio ai fini del patrimonio di vigilanza che non sono riconducibili a effettive differenze nell’operatività degli intermediari. Bisogna cioè garantire che tutti giochino adarmi pari e per far questo si dovranno stoppare gli inevitabili veti dei paesi le cui banche sono state finora avvantaggiate indebitamente. E mettere in secondo piano le risse per la supremazia delle piazze finanziarie nazionali.

(1) R&S, “Le maggiori banche europee nel 1° semestre 2012”, Milano, novembre 2012.

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