Nella cura di una malattia dell’occhio relativamente diffusa nei grandi anziani, il trattamento con un farmaco innovativo costa 70 volte meno di quello con il farmaco di riferimento. Il medicinale meno costoso, però, non può essere prescritto a carico del Ssn perché la casa farmaceutica che lo produce non ha mai chiesto l’autorizzazione per quella patologia. Ora una sentenza del Tar dell’Emilia Romagna riconosce l’interesse delle Regioni alla prescrizione off-label. E il caso offre qualche suggerimento anche su spending review e prezzi di riferimento.

Un farmaco non può essere prescritto a carico della sanità pubblica se non per le patologie per le quali è stato riconosciuto efficace e sicuro, e quindi autorizzato dalle agenzie regolatorie (Aifa per l’Italia, Ema per l’Europa, Fda per gli Stati Uniti), dopo la valutazione degli studi clinici effettuati e il giudizio favorevole sui profili di rischio-beneficio.
La ratio è la tutela del paziente, che non deve rischiare di essere trattato con un farmaco di efficacia non dimostrata per la patologia di cui soffre. Ma la regola può essere utilizzata anche per scopi diversi. L’industria può infatti rinunciare a richiedere l’autorizzazione per una data condizione clinica quando dispone di un farmaco alternativo più remunerativo; in tal modo solo il medicinale più costoso è prescrivibile dai medici che operano nella sanità pubblica. Ciò può accadere anche quando i due farmaci non sono prodotti dalla stessa azienda, rivelando così possibili accordi collusivi a danno della collettività. È il caso di due medicamenti, Avastin e Lucentis, che uno studio indipendente finanziato dai National Insitutes of Health statunitensi ha dimostrato con chiarezza sovrapponibili.

IL CASO AVASTIN-LUCENTIS

Un farmaco oncologico innovativo, l’Avastin (nome commerciale del bevacizumab), in uso ormai da qualche anno e autorizzato per il trattamento del carcinoma del colon-retto, è da tempo riconosciuto dalla letteratura scientifica internazionale come efficace anche nel trattamento di una patologia dell’occhio, la degenerazione maculare legata all’età, Dmle.
Il farmaco non è però ufficialmente autorizzato per la cura di questa patologia: la società farmaceutica che lo produce non ha infatti richiesto la specifica autorizzazione alla competente agenzia di regolazione, l’Aifae, pertanto non può essere prescritto per il trattamento della Dmle.
Per la verità, la normativa vigente permette di somministrare un medicinale anche al di fuori delle indicazioni autorizzate (in tal caso si parla di prescrizione off-label), ma solo in mancanza di alternative terapeutiche migliori. Nel caso della Dmle, esistono tuttavia alternative terapeutiche autorizzate, ovvero in-label: si tratta del Lucentis (nome commerciale del ranibizumab), il cui trattamento annuale è però 70 volte più costoso. Un anno di trattamento con Lucentis costa infatti quasi 14mila euro, mentre l’alternativa preparata con bevacizumab costa meno di 200 euro. La differenza dipende sia dal prezzo ex factory del medicinale sia dalla posologia necessaria.
L’impiego del farmaco ad alto costo, in alternativa a quello a basso costo, comporta una maggiore spesa per il Servizio sanitario nazionale stimabile in almeno 200 milioni di euro all’anno: somma che potrebbe essere risparmiata se solo si decidesse di ammettere la prescrivibilità a carico della sanità pubblica del farmaco meno costoso, ma parimenti efficace e sicuro.
Ma a chi compete la richiesta di autorizzazione per il trattamento delle Dmle? In base al decreto legislativo 219/2006, alla società che produce il farmaco, nel caso specifico, la Roche, la quale dovrebbe avere tutto  l’interesse a presentare domanda, tanto più che la molecola alternativa è prodotta da un concorrente, la Novartis. Ma la Roche non ha mai richiesto l’autorizzazione: il silenzio perdura da molti anni.
La storia non finisce qui. Quando, nel 2009, la Regione Emilia Romagna decide di ammettere (“in base a uno specifico protocollo”) l’utilizzo a carico della sanità regionale del farmaco meno costoso, la Novartis (che produce il farmaco più caro) ricorre al Tar, sostenendo – peraltro a ragione – che la modifica dell’elenco dei farmaci autorizzati off-label è competenza esclusiva del livello statale. Fortunatamente, la recente pronuncia del Tar dell’Emilia Romagna, che rimette la questione alla Corte costituzionale, apre una nuova prospettiva: afferma infatti che sarebbe irragionevole far ricadere sui bilanci delle Regioni le conseguenze delle scelte commerciali delle aziende farmaceutiche o di un sistema normativo che non riconosce anche alle Regioni il potere di richiedere l’autorizzazione per l’uso off-label. Un importante passo avanti anche per le finanze pubbliche.
La scelta compiuta dal Tar dell’Emilia Romagna e quella che spetterà alla Consulta possono avere ricadute rilevanti sull’intero mercato farmaceutico, al di là dell’Italia e della vicenda specifica. Della questione si sta infatti discutendo a livello mondiale, in sede scientifica e istituzionale, con l’obiettivo di impedire che trattamenti efficaci e poco costosi siano negati ai pazienti solo perché non ufficialmente riconosciuti dalle autorità di regolazione.

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COMPORTAMENTI COLLUSIVI E REPUTAZIONE
Il caso mostra come i fornitori dei sistemi sanitari siano poco attenti alla loro reputazione, convinti che la perdita di credibilità non li possa danneggiare più di tanto. E purtroppo, in molti casi, la storia dà loro ragione. Ma non sempre.
A livello internazionale, molte voci si stanno alzando contro le azioni legali avviate in più occasioni da Novartis per costringere i sistemi sanitari a utilizzare il proprio medicinale più costoso. O come è avvenuto nella triste vicenda dei farmaci per l’Aids con la dura vertenza legale messa in atto da trentanove aziende farmaceutiche contro il governo sudafricano, colpevole di voler importare rimedi efficaci, ma a basso costo.
Il comportamento di una multinazionale che, per difendere i propri profitti, impedisce l’utilizzo di farmaci efficaci e poco costosi solleva indignazione, anche in considerazione del particolare contesto economico in cui operano i sistemi sanitari, soggetti a restrizioni sempre più pesanti. L’immagine dell’industria farmaceutica rischia di essere seriamente danneggiata, con conseguenze imprevedibili.
Nel caso Avastin-Lucentis, la decisione della società che produce il farmaco meno costoso di non immetterlo sul mercato e il conseguente vantaggio per l’azienda che produce quello più costoso rivelano l’esistenza di accordi che di fatto limitano la concorrenza e costringono la collettività a “sopportare un costo economico oggettivamente eccessivo” (dall’ordinanza del Tar). In attesa della sentenza della Corte costituzionale, è importante che gli organi competenti cerchino di individuare tutti i casi di potenziali comportamenti collusivi e predispongano un rapido intervento normativo che impedisca sprechi così evidenti. Sappiamo che l’attuale governo ha allo studio una norma, ma il caso è noto da anni e da anni la sanità pubblica ne sopporta gli oneri.

SPENDING REVIEW E FARMACI

Il caso Avastin-Lucentis costituisce un buon esempio di come sia possibile individuare aree significative di risparmio mettendo in atto confronti fra possibili trattamenti alternativi. Troppo spesso il dibattito tende a concentrarsi sugli sprechi legati ai costi di acquisto di un dato bene e a trascurare le inefficienze legate alle diverse tipologie di trattamento. Si noti che la molecola in questione (bevacizumab) è inserita tra i farmaci sui quali l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sta effettuando una specifica rilevazione dei prezzi di acquisto delle Asl, in vista di interventi di revisione della spesa. Ebbene, i dati indicano che il prezzo minimo è uguale al prezzo massimo: non parrebbe quindi necessario alcun intervento di razionalizzazione delle politiche di acquisto. In realtà, il caso mostra che non è sufficiente domandarsi se stiamo acquistando qualcosa al prezzo più conveniente, prima è necessario domandarsi se stiamo acquistando il prodotto “giusto”. Investire risorse per scoprire che il prezzo di un farmaco monoproduttore è omogeneo sul territorio nazionale, senza chiedersi se il farmaco è il meno costoso fra tutti quelli ugualmente efficaci, è tempo perso (e spreco di risorse). Continuare a ignorare, in Italia come all’estero, le conoscenze scientifiche messe a disposizione da studi clinici indipendenti, finanziati con risorse pubbliche, è colpevole, soprattutto in tempi di crisi.
Chi si sta occupando di spending review e prezzi di riferimento non può ignorare gli insegnamenti che derivano dal caso Avastin–Lucentis.

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