Si chiude il Forum sulla “Maastricht delle pensioni” con unintervista a Platon Tinios, economista esperto di sistemi pensionistici membro per la Grecia della Social Protection Committee dell Unione europea, un intervento di Tito Boeri “I pensionati italiani non sono un problema dellEuropa” e un contributo di Benedetto della Vedova, parlamentare europeo, con Stefano Mazzocchi (Un problema ineludibile).
Il tema pensioni nel suo complesso non è nell’agenda europea, almeno nel breve periodo. L’Unione Europea punta piuttosto sulla pressione morale e sul controllo reciproco fra Stati, anche per mantenere l’equilibrio tra problemi economici, come la sostenibilità, e problemi sociali, come l’adeguatezza delle risorse. Della proposta Brunetta Cazzola va apprezzato il riferimento alla modernizzazione. Il bastone e la carota del coordinamento aperto
a cura di Agar Brugiavini
Agar Brugiavini. Lei lavora da alcuni anni alla Social Protection Committee, che si occupa delle politiche sociali dell’Unione europea e ha elaborato il metodo del “coordinamento aperto” (Open Method of Coordination – Omc) per affrontare il tema delle riforme sociali. Quali differenze vede tra la proposta della “Maastricht delle pensioni” e l’approccio Omc?
Platon Tinios*. Ci sono importanti differenze. In primo luogo l’Omc si ispira al principio della sussidiarietà, in secondo luogo è fondamentalmente “volontario”. Le riforme sociali, in particolare le riforme pensionistiche, sono sotto la giurisdizione dei singoli Stati. È noto che i sistemi pensionistici degli Stati membri sono molto diversi tra loro e quindi è difficile imporre dei traguardi a tutti, occorre coordinare degli obiettivi comuni. Una Maastricht delle pensioni ha delle sfumature diverse sia in termini di responsabilità dei singoli Stati sia in termini di flessibilità, potrebbe essere percepita come un passo verso la regolamentazione, e potrebbe risultare controproducente. Il metodo del coordinamento aperto punta alla pressione morale e al controllo esercitati reciprocamente tra Stati membri. Ogni Stato deve illustrare il proprio progetto di riforma, spiegarne le motivazioni e la metodologia e quindi agire in modo coerente.
A.B. Riprenderemo nella prossima domanda il tema della opportunità di una Maastricht delle pensioni, vorrei prima entrare nel merito della fattibilità della proposta.
P.T. Vedo onestamente problemi di fattibilità a vari livelli. La Commissione europea (in particolare, il Consiglio) ha appena prodotto un rapporto sulle pensioni, il prossimo rapporto completo sarà discusso tra due anni. Nel frattempo la Commissione ha avviato studi specifici sui pensionamenti anticipati, su indicatori di efficacia, ma non credo ci sia in programma di affrontare nel breve periodo il tema delle riforme pensionistiche in termini complessivi.
Entrando nel merito, la proposta di Brunetta e Cazzola contiene tre obiettivi fondamentali su cui misurare i sistemi pensionistici: (1) l’adeguatezza, (2) la sostenibilità e (3) la modernizzazione. C’è ovviamente accordo anche a livello della Social Protection Committee che questi sono i temi importanti. Si nota immediatamente, però, che l’obiettivo non è unidimensionale, ma a dir poco tridimensionale, ed è notoriamente difficile imporre traguardi su più dimensioni, specialmente se alcuni possono essere in conflitto tra loro (se voglio più adeguatezza devo avere un sistema più generoso, ma potrei renderlo non sostenibile). Non entro neanche nel merito della discussione su come definire esattamente i tre obiettivi citati e come poi misurarli.
La mia impressione è che l’obiettivo della sostenibilità sia in realtà quello rilevante per gli autori. Su questo vorrei far notare che, se emergesse una forte indicazione per alcuni Stati a riformare il sistema pensionistico attraverso una “parziale privatizzazione”, cioè una riduzione dei contributi al sistema pubblico a favore di una pensione complementare, si potrebbe incappare in un paradosso. È noto che la fase di transizione di riforme tese a migliorare la sostenibilità nel lungo periodo necessita finanziamento nel breve periodo, questo potrebbe accrescere il deficit di un paese e potrebbe addirittura costringere quel paese a infrangere il limite del 3 per cento del Pil stabilito dal Patto di stabilità e crescita. In altre parole, occorre procedere con cautela e buon senso su questo tema.
A.B. Su questo punto Brunetta e Cazzola propongono la creazione di un fondo apposito a cui gli Stati membri contribuiscono anche sulla base della spesa per pensioni e dello squilibrio demografico, che finanzi gli Stati più “virtuosi” in tema di riforme.
P.T. Il problema è che, tradizionalmente, gli Stati meno virtuosi sono anche quelli che hanno bisogno di soldi. Questi dovrebbero pagare pur trovandosi già in cattive acque. Credo che sia difficile trovare un accordo tra paesi su questo punto.
A.B. Ma il metodo della Open Coordination potrebbe essere troppo lento. Brunetta e Cazzola sperano che la Maastricht delle pensioni possa imprimere una spinta più energica ai processi di riforma introducendo un principio più stringente di bastone-e-carota. È praticabile da un punto di vista “politico” la proposta?
Il metodo della Open Coordination contiene implicitamente un sistema di bastone e carota, l’Unione Europea dovrebbe certamente impegnarsi per arricchirlo di contenuti e strutturarlo maggiormente. Inoltre, apprezzo molto il riferimento alla modernizzazione, che è fortemente desiderabile. La proposta della Maastricht delle pensioni contribuisce molto positivamente al dibattito e fissa punti importanti, ma sembra andare oltre gli obiettivi che la Unione Europea si è data in termini di riforme pensionistiche. Bisogna ricordare che esiste già un organo a livello europeo, con competenze economiche, che gioca il ruolo del “duro” sulle pensioni, cioè l’Ecfin. Inoltre esistono delle linee guida di base per la politica economica di ciascun Stato e lo stesso processo cosiddetto di “Cardiff” impone regole abbastanza stringenti.
Il motivo per cui la Social Protection Committee si occupa di welfare, che quindi non è solo tema di competenza della Ecfin, è perché si è riconosciuta l’importanza di tenere conto degli effetti sulla società dei diversi programmi di welfare. La dimensione sociale dell’Unione Europea è molto rilevante e ha una lunga tradizione, è necessario che abbia una voce forte sugli esiti delle riforme. Però questo non vuol dire che l’Unione Europea non può fare nulla per accelerare i cambiamenti: il Moc rende la Social Protection Commitee un “partecipante qualificato” al processo delle riforme. Il problema è mantenere l’equilibrio tra problemi economici (come la sostenibilità) e problemi sociali (come l’adeguatezza delle risorse). Come accade in ciascun Paese, deve esserci concertazione anche a livello della Unione Europea. C’è anche un equilibrio tra breve periodo e lungo periodo da tenere presente: occorre valutare con attenzione soluzioni al problema previdenziale che possono essere rischiose nel lungo periodo e anche quelle formulate solo “sulla carta”.
*Platon Tinios, economista esperto di sistemi pensionistici, è membro per la Grecia della Social Protection Committee della Unione europea.
Il sistema pensionistico in Italia è insostenibile nel lungo periodo. Lo sanno bene i cittadini e il Governo, che però non sembra voler attuare una seria riforma. Sperare nell’aiuto dell’Europa potrebbe rivelarsi fatale per istituzioni sovranazionali che oggi non sono sottoposte al controllo degli elettori. E non è comunque un rimedio contro l’egoismo intergenerazionale. I pensionati italiani non sono un problema dell’Europa* di Tito Boeri L’Italia è il Paese industrializzato nel quale il sistema previdenziale assorbe la quota più elevata del prodotto interno lordo e questa quota è destinata ad aumentare ancora di più nei prossimi 25 anni. Il costo della previdenza pubblica comporta una tassa sul lavoro del 45 per cento, che impedisce il decollo della previdenza integrativa e il finanziamento di un decente sistema di welfare. L’Italia è, infatti, il Paese europeo che spende di meno per sussidi di disoccupazione e prestazioni sociali di ultima istanza, nonostante il suo alto numero di senza lavoro e di poveri. I contributi pensionistici sono già inferiori alle prestazioni: il sistema genera un deficit annuale pari al 3 per cento del Pil. Governo immobile Il governo Berlusconi sa bene che una crisi è alle porte, eppure nonostante disponga del 57 per cento dei seggi in Parlamento (più di qualunque coalizione non “di emergenza” degli ultimi cinquanta anni) non fa niente. Un disegno di legge sulle pensioni giace in Parlamento da 18 mesi. E anche questa proposta non aumenterebbe la sostenibilità del sistema pensionistico: in realtà ridurrebbe i contributi per i nuovi assunti (se non per tutti dato che la delega è agnostica su questo aspetto), lasciando le attuali pensioni allo stesso livello. In barba al principio contributivo (si riceve in base a quanto si versa) introdotto dalle riforme di questi anni. Guardare all’Europa non serve I politici italiani si rivolgono ora all’Europa. Mentre l’Italia si appresta ad assumere la presidenza dell’Unione Europea alla fine di giugno, gli appelli per un intervento sulle pensioni si fanno più pressanti. Lo stesso Presidente Berlusconi ha più volte invocato una “Maastricht delle pensioni”. Non ci sembra una buona idea. Non ci sono validi argomenti economici, infatti, per attribuire ad autorità sovranazionali europee la responsabilità delle pensioni. I sistemi pensionistici pubblici in Europa sono molto diversi fra di loro. Un approccio comune al problema, potrebbe portarci a prendere il peggio dei vari sistemi. È molto meglio permettere alle politiche nazionali di competere, incoraggiando riforme che prendano spunto dalla prassi migliore. Gli schemi di assicurazione pubblica possono, inoltre, essere gestiti meglio quando decentralizzati. Sembrano esserci diseconomie di scala in questo campo: in Europa i sistemi di protezione sociale più efficienti sono quelli dei Paesi più piccoli. Infine, precedenti vertici europei hanno fissato obiettivi per le riforme pensionistiche, in termini di incremento dei tassi di partecipazione degli individui con più di 55 anni e innalzamento dell’età di pensionamento. Criteri senza significato per alcuni Paesi e totalmente irrealistici per altri: non a caso non sono mai stati presi sul serio. Consapevolezza del problema e miopie intergenerazionali L’unica ragione per coinvolgere l’Europa su questi temi allora è politica: si intende scaricare la responsabilità di interventi impopolari su qualcun altro, ben lontano dalle pressioni interne. Gli italiani sono ben consapevoli che le riforme messe in atto dai governi Amato, Dini e Prodi negli anni Novanta devono essere completate. Un recente sondaggio condotto dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti ha rivelato che due italiani su tre ritengono probabile una crisi pensionistica nei prossimi 10-15 anni e considerano le riforme del decennio passato solo “un primo passo verso la stabilizzazione del sistema”. Tuttavia, sempre secondo il sondaggio, nessuna riforma destinata a aumentare la sostenibilità del sistema pensionistico avrebbe il favore della maggioranza dei cittadini. I lavoratori vicini all’età di pensionamento non sono disponibili ad accettare trasferimenti a favore delle giovani generazioni. Inoltre, i sindacati si oppongono nettamente a ogni ulteriore riforma , così come accade in Germania, Francia e Spagna, che hanno simili problemi di sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico pubblico. Perché Berlusconi crede che gli italiani accetterebbero più volentieri modifiche al sistema pensionistico elaborate a Bruxelles? Assegnare un problema così delicato alla Unione Europea potrebbe rivelarsi fatale per le fragili istituzioni sovranazionali europee, oggi prive di investitura democratica, di political accountability. E potrebbe incoraggiare i sindacati a coordinarsi a livello europeo per resistere a ogni cambiamento strutturale dei sistemi pensionistici. Coinvolgere le istituzioni europee non è un rimedio contro la miopia e l’egoismo intergenerazionale degli elettori. I governi nazionali, Italia inclusa, dovrebbero avere visioni di più lungo periodo. E le generazioni più giovani dovrebbero trovare una più forte rappresentanza che difenda i loro interessi nel processo politico. Non c’è nessuna ragione per credere che le strutture decisionali europee siano più lungimiranti o più capaci di resistere alle pressioni degli elettori più anziani rispetto ai governi nazionali. Più attenzione al lungo periodo L’unico modo in cui l’Europa può aiutare i singoli Paesi ad affrontare il problema-pensioni consiste nell’adottare vincoli fiscali che siano più attenti al riequilibrio di lungo periodo delle finanze pubbliche. Il Patto di stabilità e crescita, invece di concentrarsi sul riequilibrio anno per anno, dovrebbe imporre obiettivi di lungo periodo di riduzione del debito pubblico. Questo favorirebbe riforme pensionistiche che permettano ai lavoratori di uscire dagli schemi pensionistici pubblici: riforme di questo tipo, infatti, consentono riduzioni delle passività nel lungo periodo, ma riducono le entrate nell’immediato. Meglio allora che il presidente Berlusconi lo sappia: l’unica “Maastricht delle pensioni” oggi possibile, quella che allunga gli orizzonti del Patto di stabilità e crescita, concentrando l’attenzione sulla riduzione del debito pubblico, non renderebbe certo più facile il compito dell’Italia. Certamente impedirebbe il tirare a campare, il procedere di rinvio in rinvio in attesa di tempi migliori, che sembra contraddistinguere l’azione di questo Governo. *l’articolo è apparso in inglese sul Financial Times di mercoledì 4 giugno 2003.
Non è più tempo di tentennamenti e rinvii per la revisione del sistema previdenziale italiano. Serve una volontà politica nuova e possibilmente trasversale agli schieramenti che attui una riforma incisiva. Altrimenti la crisi sarà inevitabile e i rimedi più dolorosi. Una riforma ineludibile Benedetto Della Vedova e Stefano Mazzocchi Che la questione pensioni riguardi l’Europa nel suo complesso, è indiscutibile. Consapevoli da tempo di questo, i Governi dell’Unione Europea hanno cercato di coinvolgere le istituzioni comunitarie nella riflessione sulla riforma previdenziale, nella speranza che queste, attraverso il coordinamento aperto delle politiche previdenziali avviato a Laeken, possano svolgere nei vari Paesi e nei confronti delle opinioni pubbliche una opera di “moral suasion” a favore delle riforme. Ma il premier Silvio Berlusconi, invocando una “Maastricht delle Pensioni”, sembra voler prefigurare per l’Unione Europea un ruolo ben più incisivo e diretto. Perché non è possibile dire “l’Europa lo vuole” L’interesse e il dibattito suscitati dalla proposta derivano, in primo luogo, dall’evocazione di uno strumento forte – il Patto di stabilità e i parametri di Maastricht – che per quanto discusso, ha avuto un ruolo di primo piano nel condurre sulla via di una maggiore disciplina finanziaria molti Stati dell’Unione (inclusa, anche se ancora con troppe esitazioni, l’Italia) anche quando questo ha comportato scelte impopolari. “L’Europa lo vuole” è la risposta che, con qualche efficacia, in Italia si è data a quanti contestavano le politiche di riduzione del deficit o talune misure di liberalizzazione imposte da direttive europee. Risposta che ha alleggerito il peso politico di talune difficili scelte. È comprensibile, dunque, come la tentazione di utilizzarla oggi nei confronti della questione previdenziale sia forte. Ma è una risposta che oggi non può essere data: sebbene l’articolo. 99 del Trattato Ce stabilisca che “gli Stati membri considerano le loro politiche economiche una questione di interesse comune e le coordinano nell’ambito del Consiglio” non vi è oggi una competenza diretta dell’Unione Europea sulle questioni previdenziali (se non per gli aspetti che riguardano il mercato interno e la libera circolazione dei lavoratori). Il coordinamento previsto dall’articolo 99 è del resto espressamente qualificato come mera “sorveglianza multilaterale”, priva tuttavia di effettivi poteri di intervento. Più stringenti sono invece gli obblighi fissati dall’articolo 104, secondo cui “gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi”, e dal Patto di stabilità, i quali tuttavia hanno possibilità di incidere sui sistemi pensionistici in modo solo riflesso, ovvero nella misura in cui essi, se non sostenibili, non consentono di rispettare il Patto stesso. Modificare i Trattati? Da notare, a questo proposito, che la Commissione sta già tentando di attribuire, nell’ambito del Patto di stabilità, maggior peso alla questione pensionistica: nella sua comunicazione “interpretativa” dello scorso novembre (“Rafforzare il coordinamento delle politiche di bilancio”), la Commissione, nel precisare che avrebbe ritenuto ammissibile un temporaneo scostamento dalla regola del “bilancio vicino al pareggio o in surplus” (ferma restando l’invalicabilità del limite del 3 per cento) che fosse conseguente alla realizzazione di una riforma strutturale, ha preannunciato che tale ammissibilità sarà valutata non solo in base al livello del debito in rapporto al Pil, ma anche alla luce delle passività implicite legate alla previdenza e degli “altri costi associati all’invecchiamento della popolazione”. L’ipotesi di una modifica dei Trattati e delle norme che costituiscono il Patto di stabilità al fine di specificare i parametri di Maastricht includendovene di nuovi (tra l’altro, nel momento stesso in cui quelli che già esistono sono, a ragione o a torto, duramente messi in discussione) relativi alla dimensione della spesa pubblica per pensioni, come pure l’ipotesi di trasferire nuovi poteri a Bruxelles e attribuire una competenza diretta dell’Unione sulle questioni previdenziali, richiederebbe tempi eccessivamente lunghi rispetto all’urgenza della questione, e non sembra dunque, dal punto di vista del metodo, convincente. Nel merito, a parte i rischi di “depoliticizzazione” della riforma previdenziale, sottratta di fatto al confronto democratico e delegata alla tecnocrazia di Bruxelles, e quelli legati all’affidare (tra l’altro con qualche problema di rispetto del principio di sussidiarietà) una questione così socialmente conflittuale e politicamente sensibile a istituzioni non ancorate a una piena legittimazione democratica, è discutibile che la via dell’armonizzazione sia preferibile a quella della competizione nel trovare soluzioni diverse a livello nazionale. Lo stesso Giuliano Cazzola, riferendosi ai Paesi entranti, denuncia giustamente il rischio di una Europa che “pretende di imporre il proprio sistema di welfare”. Infine, la commisssaria europea per gli Affari sociali Anna Diamantopoulou è stata netta: “Ci sono grandi differenze da Paese a Paese, non solo economiche ma anche di cultura del lavoro (…) Se per Maastricht delle pensioni intendiamo parametri fissi ad esempio per l’età di pensionamento o eventuali meccanismi di sanzione, non credo che possa funzionare”. Tra l’altro, detto en passant, la vicenda di questi giorni della riforma delle pensioni dei funzionari delle istituzioni europee, non autorizza particolare ottimismo circa una maggiore capacità di Bruxelles di resistere alle pressioni sindacali: il compromesso raggiunto è tale per cui gli effetti e i costi della riforma saranno sopportati soprattutto dai futuri dipendenti e da quelli più giovani. Non certo un buon viatico per una efficace opera di moral suasion. I limiti del coordinamento aperto La via alternativa a una modifica del Patto, contenuta nel documento Brunetta-Cazzola, è quella del rafforzamento del “coordinamento aperto” deciso a Laeken e di cui il rapporto congiunto di Commissione e Consiglio presentato a marzo costituisce una prima rilevante tappa. Si tratta di un metodo che è stato già sperimentato in primo luogo con i “grandi orientamenti di politica economica” (Gope) formulati annualmente dal Consiglio su proposta della Commissione come pure, attraverso il cosiddetto “processo di Lussemburgo” in un altro settore in cui non vi è una competenza comunitaria, quello delle politiche per l’occupazione. Tuttavia, se è vero che dai Gope sono spesso arrivate analisi e indicazioni molto ragionevoli rispetto ai problemi individuati, occorre riconoscere che il meccanismo della “peer pressure” non ha prodotto i risultati sperati: le raccomandazioni di Bruxelles si ripetono annualmente restando, nella maggior parte dei casi (e in quello italiano in particolare), inascoltate. Anche il meccanismo prefigurato da Brunetta e Cazzola per la creazione di un “Fondo per la riforma delle pensioni” imporrebbe i costi maggiori, tra contributi e sanzioni, ai Paesi i cui sistemi previdenziali sono più insostenibili, salvo poi concedere risorse quando tali Paesi si saranno ravveduti e avviati verso le politiche “virtuose” indicate dall’Unione. Si tratterebbe dunque più che di un sistema di incentivi, di un sistema di penalità eventualmente revocabili: un sistema che, incidendo sui paesi più in difficoltà nel fare le riforme, non mancherebbe (forse più di quanto non accade per il “più generico” Patto di stabilità) di innescare forti tensioni politiche. Un sistema che, oltre a richiedere probabilmente un intervento sui Trattati, potrebbe forse essere accettato se i contributi per il fondo e le sanzioni sono di modesta entità, ma in questo caso anche l’efficacia sarebbe tutta da dimostrare. Semestre italiano e questione previdenziale In conclusione, senza alcun cerchiobottismo: il contributo della proposta Brunetta-Cazzola è senz’altro importante perché punta, sulla scorta dello slogan lanciato da Berlusconi, a inserire la riforma del sistema pensionistico italiano nel quadro ampio delle riforme europee. Inserendo la questione previdenziale tra le priorità della presidenza semestrale della Unione Europea, il Governo italiano farà pure cosa assai utile. Il confronto a livello europeo, però, difficilmente sfocerà nella definizione di strumenti giuridici vincolanti (al di là del fatto che ciò sia o meno auspicabile) in tempi adeguati. Più praticabile la via della definizione di obiettivi comuni o convergenti, che i Paesi si impegnano a rispettare: una sorta di punto di ancoraggio per le politiche nazionali. Ma in questo caso, come dimostra l’esempio degli obiettivi di Lisbona (parole altisonanti ripetute come un mantra, fino ad ora seguite, in definitiva, da pochi e inadeguati “fatti”), la questione centrale resta la volontà politica di Governi e Parlamenti, il coraggio di sfidare le lobby dello status quo e del rinvio, politiche e corporative (in primis sindacali). Nel caso nostro, il miglior viatico per la presidenza italiana sul tema pensioni sarebbe l’attuazione di una riforma incisiva e coraggiosa. Purtroppo però, dopo un periodo di tentennamenti (le pensioni si riformano dopo il 2006, si disse all’inizio della legislatura, per poi passare alla riforma “ineludibile” ma politicamente impraticabile), si è arrivati alla definizione di un provvedimento striminzito, l’attuale delega, che rischia di arrivare in porto ulteriormente depotenziato a causa della tetragona opposizione sindacale. Del resto, qualora avesse successo il tentativo di riforma del governo Raffarin, rischierebbe di risultarne indebolita la posizione italiana nella trattativa sui conti pubblici che il Governo italiano sembra intenzionato ad avviare in sede Ecofin: una ragione in più, per il Governo, per non fare passare inutilmente i mesi prossimi. Sul capitolo pensioni, l’Italia paga ancora lo scotto delle grandi manifestazioni di piazza al grido di “no al massacro sociale”, sponsorizzate da una parte della sinistra e dal sindacato, e della illusoria difesa di presunti interessi “del Nord” da parte della Lega. Ciò che serve, dunque, è l’emergere di una consapevolezza e di una volontà politica nuova, radicale, trasversale se possibile, che metta il futuro anziché il passato al centro dell’azione. La popolazione invecchia e, come a suo tempo ben evidenziato su lavoce.info, invecchiano gli elettori, divenendo nel complesso sempre meno propensi ad affrontare il tema pensioni (il che è tanto irrazionale quanto comprensibile). Non c’è tempo da perdere, dunque, nemmeno quello di una discussione europea, che deve procedere solo a patto di non deresponsabilizzare le decisioni nazionali. Altrimenti, non resta che affidarsi al “tanto peggio, tanto meglio” e sperare che una qualche grave crisi obblighi senza via di scampo a rimedi drastici e dolorosi più del necessario: poco importa, a quel punto, se dettati da Roma o da Bruxelles.
Di “Maastricht o Lisbona delle pensioni” si parla solo in Italia. Perché è un escamotage tattico che non può togliere a Governo e Parlamento la responsabilità di una revisione del sistema previdenziale. Utile semmai un confronto tra le diverse esperienze con gli altri membri e candidati Unione Europea. La via della pensioni può portare solo a Roma Giuseppe Pennisi* Nelle settimane precedenti l’inizio del semestre di turno dell’Italia alla presidenza degli organi di governo dell’Unione europea, due slogan sembrano dominare il dibattito interno sul futuro delle riforme della previdenza sociale: la “Maastricht delle pensioni” e la “Lisbona delle pensioni”. Il primo rimanda concettualmente al Trattato del 1992 sull’unione monetaria e implica la definizione, in sede europea, di regole comuni su alcuni parametri determinanti per i sistemi, e la spesa, previdenziale. L’accento viene messo principalmente sui requisiti di età per accedere alle prestazioni, ma gli autori della proposta sembrano sottintendere un “corpo comune” di diritto previdenziale europeo anche sotto altri aspetti. Il secondo rievoca, invece, il Consiglio europeo del marzo 2000 e le linee guida (peraltro piuttosto generiche) che avrebbero dovuto fare diventare l’Unione l’area a maggiore competitività una graduale collaborazione intergovernativa, quindi, per individuare le prassi migliori in materia di politica del lavoro , sociale e, dunque, pure previdenziale. Un uso tutto interno È un dibattito prevalentemente, se non esclusivamente, interno ai confini dell’Italia. Se ne coglie qualche eco nei corridoi degli uffici della Commissione europea dove dirigenti e funzionari preposti agli affari sociali ambiscono da anni ad ampliare le proprie competenze e la propria incisività. La “Maastricht” e la “Lisbona” delle pensioni si avvertono anche tra i rumori di fondo delle gallerie dei passi perduti del Parlamento europeo, a opera ancora una volta, però, di europarlamentari italiani. Nessun quotidiano o periodico del resto dell’Unione Europea ha dedicato spazio e attenzione alla “Maastricht” o alla “Lisbona” previdenziale. Soprattutto, la ricchissima letteratura economica in materia di previdenza europea apparsa negli ultimi due mesi nelle circa 200 riviste del Social Science Research Network non fanno alcun cenno a nessuno dei due slogan o a quanto essi sottintendono. Tanto la “Maastricht” quanto, ma in minor misura, la “Lisbona” delle pensioni hanno l’apparenza di escamotage tattici di breve periodo: sperare che l’Europa ci tolga le castagne del fuoco sia in merito al disegno di legge delega ancora in Parlamento (e soprattutto ai decreti delegati che da esso dovranno nascere) sia, soprattutto, a proposito degli ulteriori aggiustamenti al sistema previdenziale che Governo e Camere (quali che saranno colori e maggioranze) dovranno effettuare nel prossimo lustro. In quanto escamotage tattici, non hanno un vero e proprio respiro strategico. Le distanze tra Maastricht e Lisbona Inoltre, hanno basi concettuali differenti: per utilizzare il lessico della filosofia morale, la “Maastricht” ha radici “conseguenzialiste welfariste”, mentre la “Lisbona” ha una matrice “proceduralista- neocontrattualista”. Pure nei limiti tattici indicati, la seconda sembra più in linea della prima e con gli sviluppi recenti del pensiero filosofico in tema di stato sociale e di previdenza (1) e con l’evoluzione di un graduale confronto tra politiche (come quelle sociali) che non sono nella sfera di competenza dell’Unionee in quanto tale. Se, però, puntiamo tutte le nostre carte (e tutta la nostra attenzione) o sulla “Maastricht” o sulla “Lisbona”, c’è il rischio che la prossima fermata del convoglio previdenziale sia a Caporetto o a Sedan. I meccanismi previdenziali dei vari Paesi dell’Unione sono solo uno degli elementi di sistemi di protezione sociale molto differenti in quanto a storia, titolo all’ammissibilità delle prestazioni, metodo di finanziamento, organizzazione-gestione dei costi e dei benefici e quant’altro. Un certo grado di convergenza tra varie “famiglie” o “gruppi” di sistemi di protezione sociale può essere preconizzata (non necessariamente auspicata) nel lungo periodo. Non certo nei tempi e nei modi necessari per risolvere i nodi della legge delega oggi in Parlamento, dei decreti delegati domani in fase di stesura e degli ulteriori aggiustamenti inevitabili nella prima decade del XXI secolo. Al contrario, la “Maastricht” e la “Lisbona” potrebbero diventare, per utilizzare il linguaggio dei trattati di strategia e tattica militare, la “red herring” che distrae e fuorvia una delle misure utilizzate a Caporetto e a Sedan. Solo Roma può salvarci da Caporetto La via delle pensioni può portare solo a Roma, a chi ha compiti di indirizzo (il Governo) e a chi è deputato a legiferare (il Parlamento). Ciò non vuole dire non trattare il tema a livello europeo nel semestre di presidenza italiana. Un’iniziativa senza dubbio utile potrebbe essere una “Lisbona” tra i Paesi dell’Unione europea e candidati alla Unione che stanno attuando sistemi a ripartizione contributivi (Italia, Svezia, Polonia, Baltici) per imparare dalle lezioni di ciascuno in materia di transizione, gestione e aggiustamento. Avrebbe meno visibilità mediatica (nel nostro Strapaese), ma maggiori contenuti concreti. (1) Cfr., ad esempio, Roth T.R. (1999) Ethics, economics and freedom The failure of consequentialist social welfare theory Brookfield VT, Ashgate e Shiller R. (2003) The new financial order in the XXI century Princeton, Princeton University Press *Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
Le stime per i prossimi anni indicano un concreto rischio di insostenibilità della spesa per pensioni e sanità in almeno la metà dei Paesi dell’Unione Europea, Italia compresa. Riforme realizzate nell’ambito del Patto di stabilità consentono di evitare una nuova esplosione del deficit pubblico. Finanze pubbliche europee e sostenibilità di lungo periodo Andrea Montanino * Nel suo ultimo Rapporto sulle finanze pubbliche, la Commissione europea ha presentato una dettagliata analisi sui trend di lungo periodo delle finanze pubbliche dei Paesi europei. Chiaramente, l’invecchiamento della popolazione pone delle sfide alla sostenibilità delle attuali politiche pubbliche: le spese per pensioni e sanità tenderanno ad aumentare, mentre i risparmi che si potranno registrare su altri fronti (come ad esempio l’istruzione di base), se ci saranno, saranno molto modesti. La dinamica della spesa pensionistica Dunque, che fare? La prima cosa è provare a quantificare il problema, in modo da valutare l’ordine di grandezza dei possibili squilibri di finanza pubblica. L’Unione europea è impegnata su questo fronte da diversi anni e ormai la valutazione della sostenibilità di lungo periodo è parte integrante del processo di analisi dei programmi di stabilità nell’ambito del Patto di stabilità e crescita. Naturalmente, serve in primo luogo una definizione di “sostenibilità” di lungo periodo. La Commissione europea considera le attuali politiche sostenibili quando il profilo del debito pubblico rimane nel lungo periodo al di sotto del tetto di riferimento del 60 per cento fissato nel Trattato di Maastricht. Per proiettare la dinamica di lungo periodo del debito pubblico, vengono incorporate le stime sugli andamenti della spesa pensionistica e delle altre spese legate all’invecchiamento: gli aumenti previsti si collocano tra i 2 e gli 8 punti di Pil nei prossimi 50 anni, a seconda delle condizioni istituzionali e demografiche dei singoli Paesi. L’Italia si colloca tra i Paesi per i quali la stima di crescita è più contenuta: nel 2050 la spesa pensionistica è stimata sostanzialmente ai livelli attuali, mentre la spesa sanitaria potrebbe aumentare di 1,7 punti di Pil. Ma l’attuale livello di spesa pensionistica è tra i più elevati d’Europa. La dinamica del debito pubblico dipende poi da altri fattori: uno su tutti, l’avanzo primario accumulato in questi anni e la capacità di mantenere tale livello per un numero elevato di anni. I dati presentati dalla Commissione europea mostrano che, a politiche invariate, c’è un rischio di insostenibilità in almeno la metà dei Paesi europei, tra cui l’Italia che sconta in particolare un alto debito pubblico. Naturalmente, i dati presentano soltanto scenari ipotetici, ma danno un’idea delle sfide che attendono i governi europei. Paesi diversi, problemi diversi I motivi degli squilibri sono diversi a seconda dei Paesi. In alcuni casi, il problema è un sistema pensionistico troppo generoso; in altri, un mercato del lavoro dove i tassi di partecipazione (soprattutto degli anziani e delle donne) sono troppo bassi; in altri ancora, un debito pubblico già adesso troppo elevato. In particolare, gli studi della Commissione mostrano che il non rispetto dei piani di consolidamento fiscale a medio termine (da qui al 2005/2006) presentati dai Paesi europei negli ultimi programmi di stabilità, aggraverebbe in maniera sensibile la situazione. Se la soluzione al problema della sostenibilità di lungo periodo sia una “Maastricht delle pensioni” è difficile da giudicare. Se questa viene interpretata come un “vincolo esterno” per attuare riforme necessarie ma impopolari, allora potrebbe essere parte di una strategia atta a riequilibrare le finanze pubbliche, a cui aggiungere le riforme del mercato del lavoro e l’abbattimento del debito pubblico. Sicuramente, ciò che rileva è il rispetto delle regole già esistenti, il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità: ogni Paese europeo è libero di scegliere la sua combinazione ottimale di spese e entrate pubbliche, ma assicura comunque nel medio termine una posizione di bilancio “vicino al pareggio o in surplus”. Patto di stabilità, un limite o un incentivo? La questione ultima è se il Patto di stabilità limita la possibilità di attuare le riforme o se, al contrario, le incentiva. Lo spazio di manovra per le riforme dipende dal comportamento degli Stati membri nei periodi di alta crescita economica. Se, come è nello spirito del Patto, il “dividendo” della crescita viene accumulato per creare lo spazio sufficiente a sopportare il costo di breve periodo di tali riforme, allora le regole fiscali europee non possono essere viste come un limite, ma anzi come uno strumento utile che incoraggia i Paesi membri dell’Unione a prepararsi adeguatamente. Alcuni Paesi, però, non hanno seguito questo tipo di comportamento nel passato: adesso si confrontano con alti deficit e la necessità di riforme strutturali. In più, la ripresa economica tarda a venire. Questo mix di circostanze può diventare esplosivo. Tuttavia, una riforma realizzata nel contesto del Patto di stabilità limita il rischio che il debito pubblico ritorni sugli altissimi livelli sperimentati negli anni Ottanta: se infatti dovesse verificarsi un fatto del genere, verrebbero vanificati tutti i benefici sui conti pubblici di una eventuale riforma pensionistica. La Commissione europea si è già espressa al proposito: nel valutare il rispetto del Patto, l’impatto di riforme con costi finanziari nel breve periodo ma benefici nel lungo può essere accettato, fatta salva una strategia ben delineata che garantisca l’obiettivo del pareggio in bilancio nel medio termine. * Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Europea. Le opinioni espresse non coinvolgono le Istituzioni di appartenenza.
La scorsa settimana, lavoce.info ha aperto il dibattito sulla Maastricht delle pensioni commentando il documento di Renato Brunetta e Giuliano Cazzola. Ai rilievi mossi, replica qui lo stesso Giuliano Cazzola. Che difende la concretezza delle sue proposte e invita a ripartire dal primo Joint Report europeo.
Un “canovaccio” per la Maastricht delle pensioni
di Giuliano Cazzola*
Ringrazio innanzi tutto per lo spazio concesso al work in progress di Renato Brunetta e mio. Era nostra intenzione suscitare una discussione in grado di andare oltre le “solite vecchie calze” che ci ostiniamo a rammendare in Italia. Grazie allo spazio concesso dal Sole24Ore (e da ultimo da lavoce.info , che ci ospita) direi che ci siamo riusciti.
Probabilmente, qualcuno, in sede di Governo, ha dato persino troppa importanza alla Nota. Pur con tutti i suoi limiti, il documento ha suscitato grande interesse, non solo in Italia. Non crediamo che sia merito degli autori o delle considerazioni che vi sono svolte. Il fatto è che la “Maastricht sulle pensioni” è una talpa che scava i suoi tunnel sotto i piedi dei Governi europei. L’interesse dell’Unione per i problemi dell’invecchiamento e delle pensioni è irreversibile, tanto più nella prospettiva dell’allargamento che sarà il vero, ineludibile vincolo esterno.
Dall’Est una lezione di serietà
Durante il semestre danese, ho partecipato alla Conferenza sulla “Modernizzazione della protezione sociale nei Paesi candidati” (un’iniziativa svoltasi a Bruxelles il 5 e 6 dicembre 2002, promossa dalla Commissione europea anche in vista del vertice di Copenaghen).
Mi aspettavo un approccio completamente diverso alle questioni dell’allargamento a Est dell’Unione e alle conseguenze sulle strutture e sugli ordinamenti del welfare state. In sostanza, un maggior realismo doveva suggerire agli organizzatori la seguente considerazione: l’ingresso di dieci nuovi Paesi caratterizzati da una popolazione relativamente giovane, scolarizzata, flessibile e disponibile, nonché da condizioni di reddito modeste e da un quadro di regole molto precarie (se non addirittura assenti) rischia di sottoporre a un colossale “dumping sociale” le economie dei Quindici o quanto meno di diventare ecco la parola magica – un nuovo, imponente “vincolo esterno” che costringerà i Paesi membri a realizzare importanti riforme del mercato del lavoro e dei modelli di sicurezza sociale, a partire dalle pensioni. In caso contrario, gli investimenti e gli insediamenti produttivi fuggiranno a Est, alla ricerca delle migliori convenienze.
L’impostazione della Conferenza (a partire dalle relazioni svolte nell’assemblea plenaria) è stata del tutto diversa. In pratica, è sembrato che i Paesi candidati fossero chiamati a sostenere un esame di ammissione. Dall’alto di sistemi traballanti, di dubbia sostenibilità, i rappresentanti dell’Europa dei Quindici (la parte ricca del Continente) vorrebbero misurare, secondo i propri valori, il livello di protezione sociale dei Paesi ex comunisti, il cui principale problema è quello di ricostruire, adesso, un tessuto economico e sociale vivo e vitale. Le situazioni dei Paesi candidati sono state descritte e trattate dai relatori (tutti appartenenti ai Paesi membri) con un taglio di supponenza, al punto da sollevare, pur nel clima ovattato delle riunioni comunitarie, esplicite contestazioni da parte di alcuni rappresentanti dei Paesi in attesa di ammissione. Dunque, l’Europa opulenta pretende di imporre il proprio sistema di welfare, a prescindere dalle condizioni generali delle nazioni in entrata. Come a dire: queste sono le regole a cui adeguarsi.
Con maggiore realismo, i rappresentanti dei Paesi candidati hanno esposto i loro problemi. I Governi stanno cercando di liberarsi dei residui di un modello di protezione sociale ereditato dai regimi del socialismo reale e sopravvissuto al crollo dell’economia statalizzata. Si tratta di sistemi talmente insostenibili per le condizioni di quelle popolazioni da ridursi a un simulacro dietro il quale prosperano, indisturbati, l’economia sommersa e il lavoro nero. A prova del fatto che non basta scrivere promesse generose nelle norme per poterle garantire davvero. Così, i rappresentanti di Paesi candidati hanno finito per dare una lezione di serietà, difendendo i loro progetti di riforma (ispirati alle direttive del Fondo monetario e più attenti alle esigenze della sostenibilità che a quelle della adeguatezza dei trattamenti) di contenuti molto rigorosi, con massicce iniezioni di capitalizzazione nella previdenza e di finanziamenti privati nella sanità.
La demagogia dei diritti
Quando partecipo alle riunioni europee sono preso dall’angoscia: mi sembra di essere ancora in Cgil. L’adeguatezza fa aggio sulla sostenibilità. I rappresentati degli Stati sembrano iscritti tutti a Rifondazione comunista e si lasciano andare a quella che io chiamo la “demagogia dei diritti”. Per fortuna, i funzionari della Commissione sono tenaci e consapevoli del fatto la vecchia Europa, pretendendo di vivere al di sopra delle sue possibilità, si condanna a perdere competitività e a estraniarsi dei flussi dello sviluppo. Eppure, le novità sono importanti. Nessun Paese, da solo, ha trovato il coraggio di darsi l’obiettivo di Barcellona (aumentare di cinque anni l’età media effettiva di pensionamento entro il 2010), ma la stesura e le terapie contenute nel primo Joint Report sono eventi significativi. Trovo che vi sia stato scritto il canovaccio della Maastricht pensionistica; si tratta solo di svilupparlo e di individuare le procedure di verifica (il metodo del coordinamento aperto sull’esempio del “processo di Lussemburgo” può essere utilissimo).
Già oggi, nei report nazionali, gli Stati sono tenuti a comunicare le strategie che intendono seguire; è inoltre allo studio la definizione puntuale di indicatori comuni. Per di più, la presidenza greca non ha lasciato cadere il discorso iniziato con il Joint Report, ma ha promosso un’iniziativa sull’età pensionabile che dovrebbe concludersi addirittura nel 2005.
Sviluppare le idee del Joint Report
Mettiamo il caso che questa problematica diventi oggetto di azioni premiali (ecco la proposta del fondo contenuta nella Nota Brunetta-Cazzola), tese a finanziare le “buone pratiche” per l’allungamento della vita attiva degli anziani; mettiamo ancora il caso che si individuino forme di finanziamento in qualche modo collegate, in una logica invertita, alle cattive performance dei diversi sistemi o alle situazioni maggiormente a rischio sul piano demografico. Non ci pare che si debbano rivedere i trattati per avviare interventi siffatti. E già si sarebbe introdotto un “processo”. Quanto a quello che abbiamo chiamato “programma nazionale di adeguatezza, sostenibilità e modernizzazione” basterebbe andare a prendere la tabella allegata al capitolo di ciascun paese del Joint Report. Lì c’è già l’ossatura di un programma tendenziale che potrebbe essere confrontato periodicamente con il procedere degli obiettivi enunciati dai singoli Governi. Lo sappiamo anche noi che la “Maastricht sulle pensioni” è un’invenzione improbabile, che il presidente del Consiglio ha assunto l’idea sulla base di una buona dose di furbizia. È un fatto, tuttavia, che Berlusconi abbia compreso che il disegno di legge delega non è sufficiente e che indichi un percorso proiettato oltre le vicende di questo provvedimento anatra-zoppa.
Su questo punto, mi corre l’obbligo di una precisazione. Brunetta ed io non vogliamo esportare l’impianto della delega in Europa. Ne vediamo i limiti, anche se magari abbiamo opinioni diverse da Boeri e Brugiavini su taluni aspetti. Il fatto è che, scrivendo la Nota, avevamo l’ambizione di lavorare per il Governo ovvero di dare un contributo personale al progetto che Berlusconi ha più volte ribadito come atto centrale della presidenza italiana. Candidandoci a scrivere per conto del Governo, ci sembrava ovvio dover difendere il disegno di legge delega. È il destino dei consiglieri del Principe. Anche di quelli che sono in attesa dell’apposita patente.
*Economista e membro del collegio sindacale INPS.
Per saperne di più:
si veda la relazione della Commissione europea sul coordinamento delle politiche di protezione sociale nelle versioni in inglese, francese e tedesco.
Invocare una Maastricht del sistema previdenziale, come fa il presidente del Consiglio, serve a non pagare il costo politico di una riforma impopolare. Ma una delega alla Commissione europea su questi temi darebbe voce anche a chi oggi non ce l’ha: i più giovani, chiamati domani a sobbarcarsi il fardello dei generosi sistemi pensionistici attuali.
L’Europa, come capro espiatorio per le pensioni?
Mentre la legge delega sulle pensioni è ferma in Senato, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi auspica che sia l’Europa a prendere l’iniziativa in materia di riforme previdenziali. Il documento firmato da Renato Brunetta e Giuliano Cazzola va in questa direzione.
Opposizione trasversale possibile
Si tratta di una proposta per alcuni versi discutibile: le pensioni non costituiscono materia comunitaria. Inoltre, tale proposta estenderebbe ai sistemi previdenziali criteri quali quelli di Maastricht, la cui scarsa flessibilità ha recentemente suscitato diverse critiche. D’altro canto, il Polo dispone di una larga maggioranza in Parlamento, perché dunque invocare l’Europa?
Malgrado la larga maggioranza di seggi in Parlamento, Berlusconi avverte forse (potere dei sondaggi?) di non avere l’appoggio degli elettori per un’eventuale riforma previdenziale. Non c’è da sorprendersi: in un Paese in cui la maggioranza degli elettori ha più di 45 anni, la riduzione della spesa pensionistica rappresenta una misura impopolare, capace di creare una forte opposizione trasversale agli schieramenti politici. Una situazione analoga si è già verificata nel 1994, quando la proposta di riforma del sistema previdenziale diede inizio a un periodo di crisi che terminò con la caduta del governo Berlusconi.
La "vecchia" Europa si oppone alla riforma
L’Italia non è l’unico paese europeo in cui esiste una forte opposizione alla riduzione della generosità delle pensioni. Secondo un sondaggio dell’Eurobarometro si veda il grafico tale opposizione è maggioritaria in tutti i Paesi dell’Unione.
Il ricorso all’egida dell’Unione europea non sembra quindi giustificato da motivi di natura economica (si veda a questo proposito l’articolo di Agar Brugiavini), quanto politica. Berlusconi sembra voler addossare il "costo politico" delle riforme all’Europa.
Non è la prima volta che governi italiani presentano misure economiche impopolari si pensi alla tassa per l’Europa del governo Prodi o alle misure di risanamento della finanza pubblica degli anni Novanta quali strumenti necessari per il raggiungimento del fine ultimo: il Mercato comune europeo, il Sistema monetario europeo e infine l’euro.
Il ricorso a questo tipo di delega è facilitato dalla mancanza di rappresentanza democratica della Commissione europea. Il "governo" europeo la Commissione non è necessariamente composto da rappresentanti politici eletti dai cittadini europei, quali i membri del Parlamento europeo, e dunque non risponde direttamente agli elettori. In particolare, al termine del mandato, gli elettori non sono chiamati a giudicare le decisioni della Commissione attraverso il voto.
Tale mancanza di "political accountability" potrebbe dunque consentire alla Commissione europea di elaborare alcune linee guida di riforma in materia previdenzialeche i governi nazionali potrebbero recepire pagando un basso costo politico.
Due interrogativi
Rimangono due interrogativi. In primo luogo, è giusto utilizzare una "scorciatoia democratica" per applicare misure economiche che la maggioranza dei cittadini avversa? La mia risposta non pretende di avere una valenza generale, ma nel caso di una riforma del sistema previdenziale, la Commissione potrebbe in realtà dar voce, e peso politico, a quei cittadini giovani, o addirittura non ancora nati, che oggi non votano, ma a cui in futuro sarà richiesto di pagare il conto dei nostri generosi sistemi pensionistici.
Il secondo quesito è più strettamente politico. Benché la Commissione manchi di "political accountability", i comportamenti dei singoli ministri, e a maggior ragione del presidente, entrano a far parte del loro bagaglio politico. Sarà favorevole Romano Prodi, presidente della Commissione europea e possibile candidato alle prossime elezioni italiane , a essere ricordato come l’uomo che impose la riforma delle pensioni? Sicuramente al candidato Berlusconi non dispiacerebbe.
È stato presentato come un “articolato progetto operativo per la riforma europea della previdenza” dal Sole24Ore. In realtà, il documento elaborato da Giuliano Cazzola e Renato Brunetta è ancora allo stadio di un “work in progress”. È proprio con l’intento di formulare osservazioni utili a finalizzare il progetto che apriamo il dibattito sulla proposta (che riproduciamo nella sua interezza).
Una “Maastricht” per le pensioni?
Sono almeno due le ragioni per ritenere le pensioni un problema europeo. La prima è che gli shocks demografici e anche economici colpiscono i Paesi membri simultaneamente. La seconda è che in un’Europa sempre più integrata, ritardi da parte di un Paese nell’attuare le riforme atte a controbilanciare l’onda demografica, possono avere ripercussioni su tutti gli altri membri dell’Unione L’integrazione si è già concretizzata in atti formali che vanno dalle direttive dell’Unione Europea ai patti sottoscritti con i partners europei e trae origine dalla condivisione di obiettivi comuni di crescita e prosperità.
Un’analisi del tema pensionistico con un’ottica europea, come quella offerta dal documento di Brunetta e Cazzola, è perciò da valutare positivamente, anzi era attesa. In particolare, è comprensibile l’intento di guardare oltre le strette competenze delle istituzioni sovranazionali europee, che non comprendono a rigore la previdenza sociale. Sono infatti molteplici i legami tra spesa pensionistica e squilibri della finanza pubblica, tra età di pensionamento e obiettivi di occupazione e tra previdenza e competitività (vedi Castellino Fornero).Tuttavia, la bozza di progetto Brunetta-Cazzola, così come oggi formulata, desta alcune perplessità su tre questioni: (1) il confronto con gli orientamenti della UE, (2) la proposta specifica e (3) l’esempio che l’Italia dovrebbe portare in materia di riforme pensionistiche.
Gli orientamenti della UE
È prevalso in sede europea un approccio di “coordinamento aperto”, che fornisce indicazioni di massima sugli obiettivi da perseguire sulla politiche sociali. Non è vincolante, lasciando ai singoli Paesi la responsabilità delle politiche da adottare e delle riforme da perseguire. È da notare che, pur essendo tutti i Paesi europei soggetti al problema dell’invecchiamento, il tema della sostenibilità finanziaria non affligge tutti, o almeno non tutti allo stesso modo.
La diversità dei sistemi previdenziali europei è profonda: da sistemi “monolitici” finanziati a ripartizione come quello italiano e tedesco a sistemi in cui le pensioni private aziendali (i fondi pensione o secondo pilastro) prevalgono, come nel caso britannico e in quello olandese. Per i primi le conseguenze negative dell’invecchiamento sono rilevanti e immediate, per i secondi sono indirette e smorzate.
Nell’approccio del coordinamento aperto, accanto all’obiettivo di solidità finanziaria dei sistemi pensionistici, primeggia l’obiettivo delle garanzie di copertura previdenziale e di lotta alla povertà. Anche su questi aspetti la diversità tra Paesi è notevole. La diversa organizzazione e struttura dei sistemi di welfare europei è per larga parte riconducibile alla distinzione della tradizione “modello Bismarck” e della tradizione “modello Beveridge” rispettivamente, è quindi radicata nella cultura socio-economica dei diversi Paesi.
Non è un caso che, pur essendo la sostenibilità dei sistemi pensionistici un tema ricorrente e prevalente nei discorsi del Commissario Pedro Solbes, non ne sono emerse prescrizioni di politica economica dirette e precise.
Il tema su cui esiste accordo completo in sede europea è la carenza di informazioni utili a formulare previsioni sugli andamenti demografici, della spesa, dei rischi etc.
È allo studio una batteria di indicatori che ciascuno stato dovrà fornire per ottenere un quadro completo e confrontabile dello stato sociale (inclusa la protezione della vecchiaia), della spesa sociale e del suo finanziamento.
L’analisi Brunetta-Cazzola rischia di avere una prospettiva europea, ma utilizzando una lente italiana. Ad esempio, mentre l’obiettivo del prolungamento della vita lavorativa è comune a molti stati (e esplicitamente previsto nel patto di Lisbona e seguenti), il rafforzamento del secondo pilastro è un tema importante per alcuni Paesi, molto meno per altri. Per rispondere al problema della sostenibilità e parallelamente della garanzia di copertura si chiederà ad alcuni Paesi di intraprendere misure atte a ridurre la spesa pensionistica e ad altri di aumentarla?
La proposta
La proposta è ancora incompleta, ma emerge in forma già definita un punto centrale: il contenimento della spesa e la sostenibilità dei sistemi di welfare, particolarmente in materia pensionistica. Si tratta di imporre impegni precisi, qualitativi e quantitativi, a ciascuno stato, da sottoporre periodicamente a verifica congiunta e adottare, a seconda dei casi, premi e sanzioni. Ci sono due problemi con questa proposta: (1) la fattibilità, (2) l’efficacia e il valore specifico di rafforzare le misure di integrazione.
Per quel che riguarda la fattibilità risulta difficile dare delle priorità ad alcuni indicatori e definire esattamente le misure statistiche che li accompagnano. Esempio principe sono le previsioni di spesa pensionistica dei vari Paesi che, quando disponibili, animano il dibattito tra gli addetti ai lavori. Inoltre, nei Paesi in cui il secondo pilastro è ben sviluppato, le misure dei tassi di rimpiazzo (cioè del mantenimento del tenore di vita in età anziane) sono soggette a forte incertezza sia aggregata (data dall’andamento dei mercati dei capitali) sia individuale, perché dipendono dalle scelte previdenziali individuali. Quindi, pur potendo accettare indicatori condivisi in sede comunitaria, il monitoraggio, la verifica e le conseguenti raccomandazioni di politica economica non sono immediate. Per non parlare delle eventuali sanzioni (quali? quante? come?) che dovrebbero seguire per i trasgressori.
Ma la domanda fondamentale è: anche una volta raggiunto un forte livello di integrazione, vogliamo veramente regolamentare in maniera dettagliata i comportamenti dei singoli Paesi in materia pensionistica e di spesa sociale? Se i due obiettivi principali sono proteggere gli anziani ed evitare che gli eccessi di spesa di un Paese si “riversino” sull’economia degli altri , non possiamo limitarci a proseguire sulla strada del coordinamento aperto, semplicemente migliorando e affinando la base informativa (in particolare sui livelli della spesa sociale)? In che modo queste misure vanno a integrare quanto già contenuto nel Patto di stabilità e crescita?
La riforma italiana: davvero un esempio?
L’Italia che si avvia a inaugurare la sua presidenza dell’Unione dovrebbe offrire un esempio agli altri Paesi quanto a riforme da attuare. Ma la legge delega recentemente approvata dalla Camera, di cui si dà conto nel documento, non sembra affrontare né il nodo della sostenibilità di breve e medio periodo della spesa, né quello della equità inter-generazionale e intra-generazionale, che pure appaiono tra le priorità della UE.
La riforma italiana del 1995 è stata da molti giudicata positivamente per i risultati raggiungibili nel lungo periodo (dopo il 2035), ma gli squilibri finanziari dei prossimi decenni sono stati già oggetto di monito da parte della Commissione europea. In che modo la proposta di legge delega approvata in Parlamento rappresenta una svolta per l’Italia e un modello da seguire per gli altri Paesi su questi due punti? Si è già discusso della inefficacia delle misure volte a incentivare il prolungamento della vita lavorativa proposte nel progetto di legge delega: pur ammettendo che queste abbiano un qualche impatto, da qui a risolvere il problema del finanziamento dei prossimi anni la strada è lunga.
Se i giovani lavoratori italiani sono coloro che subiranno più pesantemente una riduzione delle prestazioni pensionistiche in conseguenza della riforma del 1995, pur sostenendo aliquote contributive tra le più alte in Europa, non sarebbe opportuno distribuire il carico anche sulle generazioni dei lavoratori più anziani per soddisfare “parametri” di equità a livello europeo?
Infine, ritengono gli autori che i passi intrapresi finora (in particolare dal 2000 a oggi) per incentivare lo smobilizzo del Tfr maturando siano sufficienti? Dai dati disponibili non emerge un risultato apprezzabile. Come convergeremo ai parametri europei su questo aspetto?
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