La riforma della legge fallimentare non può più essere rimandata. Di fronte all’impasse della commissione Trevisanato, serve quindi una chiara direttiva politica sulle priorità e gli obiettivi da perseguire. Che devono riguardare in particolare la prevenzione della crisi, il ruolo del mercato e del giudice, la revocatoria e le insolvenze dei privati. E forse qualche suggerimento può arrivare dalle soluzioni prospettate nella passata legislatura.

A diciotto mesi dalla sua istituzione e dopo ben cinque decreti che hanno disposto integrazioni e proroghe (l’ultima al 31 luglio 2003), la commissione incaricata dal ministro della Giustizia di redigere un disegno di legge delega per la riforma della legge fallimentare ha finalmente consegnato al Ministro il risultato dei suoi lavori.

Le dichiarazioni del suo stesso presidente, Sandro Trevisanato, riferiscono però di una commissione sostanzialmente divisa, che non è riuscita a elaborare un testo condiviso da tutti i suoi componenti (i quali ormai, dopo molte dimissioni e sostituzioni, ammontano ormai a 44).

Tale difficoltà era stata fino ad oggi dissimulata dalle motivazioni dei decreti di proroga, che facevano riferimento alla “particolare complessità” della materia ed al fatto che “la Commissione ha dovuto svolgere un ampio lavoro di ricognizione esaminando lo sviluppo giurisprudenziale, dottrinale e di esperienze maturate dal 1942 in poi…” 

La notizia recente (3 luglio) è che, data la inopportunità di spaccare la commissione mediante un voto a maggioranza su parti significative del testo, sulle parti controverse è stato sottoposto al ministro un testo bifronte, con un testo di “maggioranza” ed un testo di “minoranza”. Di quest’ultimo, di impostazione più “liberista” ed orientata al mercato, sono autori (anche) i rappresentanti di Banca d’Italia, ABI, Confindustria, la cui opinione non potrà verosimilmente essere ignorata del tutto.

Scelte politiche, non tecniche

Era tempo. Alla commissione Trevisanato non mancano infatti le risorse: alcuni dei suoi componenti sono apprezzati studiosi o operatori del diritto fallimentare. Quando però si mette mano a una riforma così ampia e delicata, è inevitabile operare delle scelte. E si tratta di scelte politiche, non tecniche, perché implicano una selezione fra interessi e obiettivi che solo in parte sono compatibili fra loro. Ma alla commissione Trevisanato è stato chiesto di elaborare un disegno di legge senza una chiara direttiva politica sulle priorità e sugli obiettivi da perseguire.

Quali sono le scelte di fondo?

1. La prevenzione delle crisi. È condiviso da tutti l’obiettivo di favorire l’anticipata scoperta delle crisi d’impresa: infatti le probabilità di successo delle procedure concorsuali sono direttamente proporzionali alla tempestività dell’intervento. Non sono invece condivisi da tutti gli strumenti che dovrebbero favorirla: ci si deve affidare a meccanismi interni di corporate governance (gli organi di controllo e il revisore, all’insorgere della crisi, dovrebbero sollecitare l’organo amministrativo e quindi riferire ai soci) o si deve invece prevedere che, in difetto di idonee iniziative, gli organi di controllo abbiano l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria? Nel secondo senso è il testo di maggioranza, mentre nel primo è la variante di minoranza.

2. Ruolo del mercato e del giudice. Nella commissione esistono diverse sensibilità sul grado di autonomia che deve essere lasciato alle parti nella ricerca di una soluzione alla crisi. La legge può disegnare sistemi oscillanti fra due opposti: il massimo intervento tutorio del giudice (come nel sistema attuale, in cui le rinegoziazioni stragiudiziali si fanno solo a prezzo di gravi rischi di revocatoria e imputazioni di bancarotta, o addirittura non si fanno affatto), oppure un intervento del giudice che si limita a un ruolo di garanzia della correttezza del procedimento e della non palese irragionevolezza delle soluzioni raggiunte. Nel secondo senso è il testo di maggioranza, mentre nel primo è la variante di minoranza.

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3. La revocatoria. Da sempre terreno di scontro nelle aule dei tribunali, la revocatoria lo è anche all’interno della commissione. Da un lato, la maggioranza, chi vi vede il rimedio contro gli abusi dei creditori più informati, banche in primis, e il mezzo per coinvolgere queste ultime nella soluzione della crisi e nel pagamento del suo costo. Dall’altro, la minoranza, chi vi vede nella revocatoria un istituto importante a presidio della par condicio creditorum, che tuttavia deve essere ricondotto a un ruolo servente, liberandolo dalle ipertrofie che lo hanno caratterizzato gli ultimi anni.

4. L’insolvenza dei consumatori e dei privati in genere. Contrariamente a quanto normalmente si pensa (in Italia), quella di dare ai privati sovraindebitati la possibilità di sistemare il proprio indebitamento costituisce scelta epocale, da pensare in termini macroeconomici. Spesso, infatti, il privato è oppresso dai debiti frutto di garanzie personali per imprese divenute insolventi. Paradossale è allora che all’imprenditore (o al socio illimitatamente responsabile) sia consentito di sistemare il proprio indebitamento (oggi mediante un concordato preventivo o fallimentare), mentre ciò non sia consentito né al consumatore né al fideiussore, che rimangono per sempre indebitati e che sono destinati a restare a lungo soggetti scarsamente produttivi (sanno infatti che ciò che guadagneranno sarà appreso dai creditori). Nella commissione vi è da un lato chi propende per la previsione di una disciplina speciale per il privato sovraindebitato, incentrata sul suo diritto a una liberazione ogniqualvolta egli non abbia dolosamente arrecato pregiudizio ai creditori, dall’altro vi è chi spinge per un’equiparazione tout court fra imprenditore e privato, il quale potrebbe dunque essere dichiarato insolvente anche su istanza dei creditori. La soluzione di maggioranza sembra nel secondo senso.

5. Le responsabilità societarie. Particolarmente forte pare la divaricazione in materia di responsabilità nel caso di insolvenza delle società. Se la “minoranza” sembra ritenere che siano sufficienti le azioni di responsabilità contro tutti (anche il socio-amministratore di fatto) coloro che abbiano arrecato danno alla società e dunque ai suoi creditori, dall’altro la “maggioranza” ritiene che il socio che abbia abusato della personalità giuridica debba essere coinvolto nella procedura concorsuale, divenendo responsabile (non solo del danno arrecato, ma) di tutto il passivo sociale.

Su questi punti non c’è nulla di aprioristicamente giusto o sbagliato: c’è solo la necessità di fare delle scelte politiche. Proprio quelle scelte che per i tecnici della commissione non è possibile fare.

Le soluzioni della passata legislatura

Qualche soluzione è già stata ipotizzata in passato. Nella precedente legislatura erano infatti stati presentati due progetti di riforma, uno governativo (Ddl 7458, al quale avevano lavorato magistrati di primissimo ordine) e l’altro del gruppo parlamentare Ds (Ddl 7497), che avevano suscitato un intenso dibattito e i giudizi positivi di Confindustria, Abi, Assonime, Ordine nazionale dei dottori commercialisti, Collegio nazionale dei ragionieri commercialisti, Aifi, e altri.

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Sui quasi tutti i punti indicati, i due progetti avevano preso posizioni alquanto nette.

1. la funzione di scoperta anticipata della crisi era affidata soprattutto al carattere “amichevole” delle procedure, e in particolare di quelle anticipatorie, nelle quali il debitore, restando a capo della propria impresa, negoziava un accordo con i creditori. In quest’ottica, più la procedura è “giudiziale”, meno il debitore è incentivato ad accedervi. In più, il Ddl 7497 prevedeva la disciplina di accordi stragiudiziali fra il debitore e alcuni creditori certificati come idonei a superare la crisi: tale disciplina venne unanimemente giudicata come adeguata a rispondere a bisogni largamente avvertiti dalla pratica;

2. i due progetti si segnalavano per lo spazio lasciato all’autonomia privata nella definizione del contenuto degli accordi fra debitore e creditori. Il Ddl 7497, in più, evitava di costringerli in gabbie prefissate (ad esempio, un periodo massimo nel quale adempiere alle obbligazioni ristrutturate a seguito dell’accordo), e consentiva la conversione dei crediti in quote di capitale (soluzione normalmente adottata nei piani di salvataggio, ma fino a oggi possibile solo con il consenso dei singoli creditori);

3. la revocatoria veniva ricondotta a una funzione di eliminazione di un pregiudizio effettivamente subito dai creditori, con una quasi generalizzata abolizione della revocatoria dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili e un dimezzamento dei termini del “periodo sospetto” alla metà di quelli attuali. Se però l’obiettivo è l’eliminazione dell’ipertrofia della revocatoria, la riduzione del periodo sospetto sembra uno strumento alquanto impreciso: non distingue fra atti del tutto normali e atti di vero approfittamento da parte dei creditori, per i quali non vi è alcuna necessità di fare sconti;

4. l’insolvenza dei privati era disciplinata dal Ddl 7497: consentiva l’accesso alle procedure concorsuali solo su domanda, come opportunità di chiudere un problema altrimenti insolubile, liberandosi dei debiti non soddisfatti mediante un accordo con i creditori o anche a seguito della dimostrazione di aver tenuto un comportamento collaborativo e responsabile.

 

Se dunque le scelte sono politiche, ci auguriamo che il Governo si assuma la responsabilità di farle. Una cosa è certa: dopo le società, recentemente riformate, le crisi d’impresa, con il loro strascico di disoccupazione e distruzione di ricchezza, non possono più attendere.

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