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Gli anelli deboli

Non mancano le norme per prevenire casi di megalomania imprenditoriale o di “beneficio privato del controllo”. Ma nella vicenda Parmalat, nessuna di queste è stata sufficiente. Forse perché gli organismi di controllo, come collegi sindacali, consigli di amministrazione e società di revisione, sono segnati da un conflitto di interesse che ne pregiudica l’azione. Ecco quattro misure che possono limitarlo. E insieme a un inasprimento delle pene per i reati societari, possono contribuire a ridare credibilità ai bilanci delle società.

Con il passare dei giorni, i contorni del caso Parmalat stanno diventando via via più nitidi. Molti aspetti sono ovviamente ancora oscuri. In particolare, non è chiaro quanto il crac dell’azienda sia dovuto all’occultamento di perdite prodotte da investimenti errati e quanto a una massiccia distrazione di attività da parte del suo manager e azionista controllante.

Un imprenditore megalomane o disonesto

Capire questo è rilevante. Nel primo caso ci troveremmo di fronte a un imprenditore megalomane, che ha ambìto a creare un impero, ha fallito, non ha accettato la sconfitta e ha scommesso, perdendo, sulla recondita possibilità di riprendersi, finanziando questa scommessa con debito crescente. Se così fosse, l’ammanco di bilancio sarebbe irrecuperabile.
Nel secondo caso saremmo di fronte a un macroscopico esempio di ciò che nella teoria della finanza è noto come “beneficio privato del controllo”, cioè di risorse della società che chi esercita il controllo può distrarre a proprio vantaggio. In questo caso è possibile che (buona) parte delle risorse sottratte possano essere ancora recuperate e restituite ad azionisti e creditori, se non sono state nel frattempo consumate (ma la loro entità fa presumere di no).

La falsificazione degli attivi di bilancio, addirittura attraverso la costruzione di pezze di appoggio rozzamente alterate, ha permesso di sottrarre agli occhi dei finanziatori dell’azienda la reale situazione, gonfiando significativamente il suo merito di credito.
Calisto Tanzi ha così potuto fare lo stesso gioco che Carlo Ponzi, un italiano emigrato in America, fece negli anni Venti a Boston: attrarre sottoscrittori di un titolo i cui interessi (e rimborsi) venivano pagati con le sottoscrizioni dei successivi acquirenti. Il gioco dura finché la sua solidità non viene messa in dubbio da qualcuno che si rifiuta di sottoscrivere. A quel punto non vi saranno abbastanza soldi per tutti perché chi ha messo in piedi il gioco – Ponzi – avrà avuto cura di sottrarne a sufficienza per sé.

Il bilancio e le sue falsificazioni

Come prevenire l’insorgere di casi simili, non nuovi nella storia, anche se sempre stupefacenti? (1)
In condizioni normali, preposti a frenare la megalomania di un imprenditore sono, in primis, gli intermediari finanziari che hanno il compito di valutare la qualità delle proposte di investimento e finanziare solo quelle che hanno un futuro. Ad esempio, le banche dispongono di riscontri sulle passività dell’impresa, osservano le movimentazioni dei conti presso di esse, possono percepire situazioni di tensione dei fidi accordati o possono raccogliere informazioni dai loro fornitori sulla regolarità dei pagamenti.
Ma sugli attivi aziendali e l’esistenza di attività a fronte delle passività, il bilancio è la fonte principale. Se questi sono alterati e i documenti che comprovano l’esistenza di certi cespiti (ad esempio, un atto di proprietà di un terreno offerto in garanzia) sono falsificati, vi è poco che un intermediario possa fare.
Questa è la ragione per cui esistono norme che a) dettano regole più o meno stringenti a seconda dei paesi per la stesura dei bilanci; b) richiedono che la qualità del bilancio sia sottoscritta dal collegio sindacale e dal consiglio di amministrazione della società; c) prevedono la certificazione della loro veridicità da parte di agenzie esterne all’impresa.

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Per limitare i benefici privati del controllo, gli intermediari non servono. Oltre alle norme civili e penali che scoraggiano questo tipo di malversazioni, sono nuovamente la certificazione dei bilanci e le responsabilità in capo ad amministratori e sindaci che possono agire da deterrente. Infatti, anche la distrazione di attività o profitti dell’impresa a vantaggio del manager deve spesso sfociare in una falsificazione del bilancio.

Ma nel caso Parmalat questi presidi non sono stati sufficienti.
Una possibilità è che la predisposizione dei falsi fosse fatta in gran segreto e che l’informazione dentro la Parmalat fosse estremamente centralizzata e controllata da un gruppo ristretto, per cui poco traspariva e arrivava al consiglio di amministrazione, ai sindaci e perfino alla società di revisione nelle sue visite annuali.
Se questo fosse il caso, la proposta di Luigi Zingales potrebbe essere una soluzione: stabilire ricompense per chi denuncia comportamenti fraudolenti di amministratori di imprese. È il vecchio metodo della taglia con i suoi pregi e i suoi limiti.

Organismi in conflitto d’interesse

L’altra possibilità è che collegio sindacale, consiglio di amministrazione e società di revisione, organismi che più di altri sono esposti a quanto accade all’interno dell’impresa e possono sorvegliare il comportamento del manager, sono mal congegnati. Cosa non funziona in questi istituti? Sono tutti segnati da un serio conflitto di interesse che ne pregiudica fortemente l’azione.

Collegio sindacale: è nominato e retribuito dalla proprietà, cioè dallo stesso management che su cui dovrebbe esercitare il controllo. Molti sindaci hanno un interesse, spesso forte, a essere rinominati e questo indebolisce la loro azione. Occorrerebbe rivedere il meccanismo di nomina e di compensazione, ad esempio prevedendo che i due terzi del collegio siano nominati da azionisti di minoranza e compensati a valere sui loro proventi. Ciò ostacola, ma non elimina del tutto, la possibilità di collusione con l’azionista di controllo, perché l’azionista di minoranza non osserva il comportamento dei sindaci.

Consiglio di amministrazione. Come i sindaci, anche i consiglieri di amministrazione sono nominati e retribuiti dalla proprietà e hanno interesse a essere rinominati. La loro indipendenza è affidata alle loro caratteristiche personali: ma persone indipendenti per natura non verranno scelte da manager disonesti, che selezioneranno invece persone disposte a colludere. Bisognerebbe stabilire l’obbligatorietà che nei consigli siedano anche amministratori che vengono nominati e rispondono a terzi, con interessi contrapposti rispetto a quelli del manager o dell’azionista di controllo. Ad esempio i piccoli azionisti (come suggerisce Luigi Spaventa sul Corriere della Sera dell’11 gennaio) o i fondi. Inoltre, se nominati da azionisti di minoranza, potrebbero sorvegliare anche sul corretto comportamento dei sindaci (e viceversa).

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Società di revisione. Di nuovo, il revisore è scelto e retribuito dall’impresa. Ma la situazione è ancora peggiore, perché questo è uno degli anelli più importanti del controllo sulle informazioni societarie: questi esperti hanno infatti la possibilità di verificare attraverso riscontri documentali la correttezza delle scritture contabili, ed esistono alcune caratteristiche che accentuano la probabilità di collusione. Primo, le società di revisione fanno anche consulenza aziendale: chiudere un occhio sul bilancio di un’impresa può tornare utile per ottenere un contratto di consulenza. Secondo, relazioni ripetute nel tempo agevolano l’emersione di comportamenti collusivi: una relazione lunga conviene alla società di revisione poiché da un lato stabilizza i suoi profitti, dall’altra ne riduce i costi perché fare la revisione del bilancio di una società già nota è meno costoso che revisionare una società ex novo. Tanto più lungo è il contratto, tanto più la società di revisione è addomesticabile dall’impresa con la minaccia di non rinnovarlo.

Vi sono quattro cose che possono essere fatte per limitare il conflitto di interesse delle società di revisione: a) prevedere che la scelta della società di revisione abbia l’assenso esplicito del consigliere che rappresenta gli azionisti di minoranza. In alternativa, si istituisce un auditing committee (composto solo di amministratori indipendenti) che nomina la società di revisione senza mediazione del manager, sul modello della Sarbenes-Oxley negli Usa; b) vietare l’esercizio dell’attività di consulenza da parte delle società di auditing; c) imporre un limite breve (oggi nove anni) alla lunghezza dei contratti, con ad esempio rotazioni biennali; d) vietare che al termine del mandato la stessa società di revisione possa essere impiegata da un’altra società del gruppo, anche all’estero.

Nessuna di queste misure, anche in combinazione con altre, può assicurare che un caso come Parmalat non si ripeta.
Ma l’eliminazione di questi conflitti di interesse, soprattutto se accompagnati da un inasprimento delle pene per i reati societari, può renderlo meno probabile, e ridare credibilità ai bilanci delle società.

(1) Si veda il capitolo 5 di Charles Kindleberger (Manias, Crashes and Panics, Basic Books, 1989)

 

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La lunga marcia verso il dottorato

  1. Francesco Di Giano

    Il nostro parlamento, recentemente, ha licenziato una riforma integrale del diritto societario. Questo riforma è entrata in vigore, in modo definitivo, in questi giorni dopo un lungo periodo di transizione, in cui le società dovevano adeguarsi alla nuova normativa. Leggendo gli articoli di questa riforma ci si accorge, però, che nulla di quello che oggi le consiglia di introdurre nel nostro sistema societario è stato previsto. Che cosa significa questo? Il nostro parlamento aveva gli occhi chiusi? Parmalat non è il primo crack, è certamente il più grosso e il più megalomane. Nel 2001 c’è stato il crack della Banca di Brescia e Reggio nell’Emilia (Bipop-Carire) e nel 2002 il crack Cirio. Dopo questo due crack, molto più piccoli rispetto a Parmalat, perché il parlamento ha soprasseduto?
    Grazie per i vostri articoli, continuate su questa strada, il nostro paese ha bisogno di questa tipo di informazione
    Cordiali Saluti
    Francesco Di Giano

    • La redazione

      Grazie per la sua domanda. Non ho però una risposta precisa al suo quesito: perchè il Parlamento abbia ignorato i casi evidenti di conflitto di interesse all’interno delle società quando ha varato la riforma del diritto societario, che sono ragione seria per il perpetuarsi di possibili malversazioni a danno di azionisti di minoranza e creditori dell’impresa.
      Una possibile spiegazione è che il caso Parmalat, che ha fatto emergere questi problemi in tutta evidenza, non era ancora eploso, sebbene l’esperienza maturata con il caso Enron era più che sufficiente. Infatti, negli Stati Uniti una parte dello sforzo è stata dedicata proprio alla eliminazione di questi problemi (accento sugli amministratori indipendenti,
      creazione dell’ audit commette interno, affidamento della scelta della società di revisione a quest’ultimo, regolazione dei mandati delle società di revisione contabile etc.). Ma il fatto che questi problemi – che sono al cuore del caso Parmalat – non vengono assolutamente evidenziati dal
      Ministro nella sua audizione in Parlamento del 15 cm, e preferisce dare la responsabilità ad autorità estranee al caso, fa pensare si tratti di scelta politica oppure di ignoranza.
      Nell’uno e nell’altro caso non c’è da rallegrarsi.
      Luigi Guiso

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