La società che detiene la proprietà della Rete di trasmissione nazionale dell’energia elettrica, dopo la fusione con il Grtn, sarà privatizzata. Una decisione che comporta più svantaggi che vantaggi. Il guadagno in efficienza sarà minimo, mentre si profilano maggiori difficoltà di governance. Diversa la situazione se ad acquistare Terna fosse una società controllata dallo Stato. Unopzione possibile anche senza aggravi per la finanza pubblica. Quasi tutta la Rete di trasmissione nazionale (94 per cento) è proprietà di Terna, a sua volta posseduta al 100 per cento dall’Enel. Dalla fine del 2002 è in vigore una convenzione tra Terna e il Gestore della Rtn, società oggi posseduta dal Tesoro, cui lo Stato ha affidato in concessione le attività di trasmissione e dispacciamento dell’energia elettrica, ivi compresa la gestione unificata della Rtn. Terna è remunerata con un canone, il cui costo è coperto dal Grtn con i corrispettivi pagati dai produttori e distributori in base all’energia immessa o prelevata dalla rete. Perché privatizzare? È stato saggiamente deciso che Enel ceda Terna, per separare la produzione dalla distribuzione di energia. Il Ddl Marzano, nel testo recentemente approvato (legge 290/3) prevede poi che vengano unificate la proprietà e la gestione della Rtn, e che il nuovo soggetto (chiamiamolo “Nuova Terna”, quale risulterà dalla fusione di Terna e dell’attuale Grtn) venga successivamente privatizzato. Domanda: ha senso privatizzare una società che svolge un servizio pubblico in regime di monopolio naturale, caratterizzato da ricavi certi, rischi bassissimi, profitti che dipendono essenzialmente dalle tariffe riconosciute, assenza totale di concorrenza? Non sarebbe meglio che la Nuova Terna fosse posseduta, anche indirettamente, dallo Stato? La Nuova Terna opererà nell’ambito degli indirizzi e sotto il controllo del ministero per le Attività produttive, ma spetterà alla società deliberare gli interventi di manutenzione e sviluppo della rete: si tratta di scelte importanti (linee, tracciati, costi e così via) che possono essere molto diverse a seconda che il criterio ispiratore sia quello dell’interesse pubblico o della massimizzazione del profitto. Vi sarà dunque un difficile e continuo problema di governance, per indurre la società a perseguire l’interesse pubblico. Il problema non verrebbe superato nemmeno se si affermasse nel tempo un modello “consortile” (controllo da parte dei produttori di energia) perché costi e profitti del Grtn finiscono comunque per scaricarsi sui consumatori, ma risulterebbe invece molto attenuato se il gestore fosse una società pubblica. Il progetto di “privatizzare” la Nuova Terna quotandola in Borsa avrebbe certamente successo, vista l’attitudine di parte della società italiana a trasformarsi in “rentier” e la corsa di molti imprenditori a investire in settori dove non devono misurarsi con la concorrenza del mercato. Trovo preoccupante la notizia, non confermata, che il fondo chiuso “Clessidra”, che ha raccolto ingenti capitali per sostenere processi di razionalizzazione e sviluppo dell’industria italiana, stia considerando come prima operazione proprio l’acquisizione del 50 per cento della Terna. L’ipotesi società pubblica Per una soluzione alternativa, quella dell’acquisto da parte di una società pubblica, le questioni da affrontare sono due: quale prezzo riconoscere all’Enel e come finanziare l’acquisto senza gravare sulla finanza pubblica. Il valore di Terna dipenderà dalle tariffe future che verranno prossimamente determinate dall’Autorità per l’energia. Una volta note le tariffe, il prezzo che Enel otterrebbe quotando in Borsa il 35-50 per cento di Terna sconterebbe certamente un tasso di rendimento atteso richiesto dal mercato elevato e molto maggiore del tasso al quale potrebbe finanziarsi un ente pubblico. L’ente pubblico acquirente potrebbe quindi con vantaggio negoziare con l’Enel l’acquisto di Terna (80-100 per cento accelerando la dismissione) a un prezzo allineato al presunto ricavo dalla quotazione. L’onere per la finanza pubblica verrebbe evitato se la Rtn venisse acquisita da una società controllata dallo Stato ma non inclusa nella pubblica amministrazione come definita da Eurostat. Le risorse finanziarie potrebbero essere ottenute agevolmente, con un elevato indebitamento reso possibile dalla stabilità dei ricavi, mentre il capitale proprio (poche centinaia di milioni di euro sarebbero sufficienti) potrebbe essere sottoscritto in parte da enti quale la Cassa Depositi e Prestiti o dalle fondazioni bancarie, assicurando loro una redditività certa e un diritto put a medio/ lungo termine. Già nel 2002 Terna ha conseguito un risultato operativo ante imposte (e partite straordinarie) pari al 10,5 per cento del capitale netto investito (2.674 milioni di euro). Con i tassi d’interesse attuali il debito potrebbe essere rimborsato abbastanza rapidamente. Tra qualche anno, si potrebbero così ridurre le tariffe o disporre di fondi pubblici per altri investimenti, invece di continuare a riconoscere a investitori privati redditi molto, spesso troppo, generosi com’è nel caso di altri ben noti monopoli “privatizzati”.
In questo settore lo spazio per una eventuale maggior efficienza da parte di un gestore privato, argomento principe a favore delle privatizzazioni, sembra minimo. Certamente è marginale rispetto ai molti svantaggi riassumibili in maggiori difficoltà di governance, cioè di assicurare la prevalenza dell’interesse pubblico nella gestione. Rischio che il gestore privato consegua “extraprofitti” a danno dei consumatori. Rischio di rapporti incestuosi tra affari e politica.
Consideriamo questi tre aspetti.
Per limitare gli extraprofitti del gestore privato si ricorre a convenzioni basate sul “price cap”, cioè si conviene che le tariffe aumentino di pari passo con l’inflazione, più un quid per miglioramenti della qualità del servizio, più gli oneri di nuovi investimenti, meno l’aumento atteso di produttività. Tuttavia, come dimostra l’esperienza Autostrade, l’applicazione di questa “formula” è assai complicata, non assicura che si evitino “extraprofitti” e si presta ad ampi margini di discrezionalità, anche per la difficoltà di quantificare gli aspetti qualitativi del servizio. Vi è invece l’evidente rischio di pressioni più o meno legittime tra interessi privati e mondo politico, visto che i profitti del gestore dipendono molto più dall’attività di lobbying volta a ottenere aumenti di tariffe che da eventuali guadagni di efficienza nella gestione.
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Gian Luigi Diana
Concordo con quanto scritto: è tempo che le scelte governative di queste dimensioni siano realmente orientate al bene comune, e non al bene di pochi…L’ultimo black out nazionale è un evento che pone domande ed esige risposte ineludibili. E infine credo che non esista un assioma secondo cui l’unica via possibile per aumentare l’efficienza della “cosa pubblica” sia quella di privatizzarla…