Dodici giorni per discutere di cambiamenti climatici e di gas serra. Lagenda ufficiale della conferenza prevede che siano trattati temi importanti come le penalità per chi non rispetta il programma di mitigazione delle emissioni e la questione dei permessi di inquinamento legati a progetti di tecnologia pulita nei paesi in via di sviluppo. Ma aumenta il numero di coloro che pensano già al dopo-Kyoto, perché il Protocollo è stato svuotato dei suoi contenuti originari e perché rischia di non entrare mai in vigore. Dal 1 al 12 dicembre Milano ospita la nona “Conference of the Parties” (Cop), l’ultima in ordine di tempo tra quelle previste dall’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, dove fu firmata la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc) sotto l’egida delle Nazioni Unite. In quell’occasione centoottantotto paesi hanno sottoscritto l’impegno a mettere sotto controllo le emissioni di gas-serra, ritenute responsabili del riscaldamento del pianeta. Una breve storia Nonostante fosse un passo politico importante, la dichiarazione era priva di conseguenze pratiche. Il compito di dare contenuto concreto alla dichiarazione di intenti fu affidato a successivi incontri delle parti interessate, le Cop appunto. Il secondo aspetto riguarda l’entrata in vigore del Protocollo che stabilisce un duplice requisito di ratifica per i firmatari: perché entri in vigore sono necessari almeno cinquantacinque paesi, responsabili di almeno il 55 per cento delle emissioni accertate nel 1990. L’agenda milanese La Conferenza mondiale sul clima tenuta a Mosca dal 29 settembre al 3 ottobre e le dichiarazioni del presidente Vladimir Putin durante la sua visita a Roma all’inizio del mese scorso incrinano l’ottimismo di molti osservatori. Ma al di là dell’agenda ufficiale, quello che davvero conterà a Milano saranno gli “informal talks”. Saranno dominati dall’interrogativo su cosa fare se la Russia non firmerà il Protocollo. E un no russo alla ratifica non sarebbe certo quel regalo di Putin a Berlusconi che alcuni vagheggiano per le posizioni assunte dal nostro presidente del Consiglio sul conflitto ceceno e sugli affari interni russi. E allora cosa resterà di Cop9? Resteranno probabilmente ulteriori progressi sul fronte degli aspetti di implementazione di un accordo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra che forse non entrerà mai in vigore. Si inizia infatti a guardare oltre Kyoto. Il Protocollo stabilisce una riduzione complessiva di emissioni del 5 per cento, quando gli esperti ne giudicano necessaria una del 60 per cento. E finora nessuno ha inciso significativamente sul problema. L’Italia, con un target di riduzione del 6 per cento rispetto al 1990, ha aumentato le emissioni del 6 per cento. I paesi in via di sviluppo non sono toccati dall’accordo, ma con il maggiore sviluppo economico, crescono anche le emissioni, almeno per alcuni di loro. Il consumo di carbone, il combustibile fossile più inquinante, sta crescendo in Cina del 10 per cento annuo. Entro il 2012, la Cina diventerà il più importante mercato di sbocco delle vendite di automobili, l’India sarà il terzo, con gli Stati Uniti in mezzo. Per saperne di più Il sito ufficiale della Convenzione è:
Delle prime due Cop (Berlino 1995e Ginevra 1996) ci si ricorda a stento, ma nel 1997 a Kyoto viene negoziato il famoso Protocollo. In esso vengono stabiliti i limiti massimi alle emissioni di alcuni gas clima-alteranti (di cui la CO2 è il principale) che i paesi firmatari possono produrre, in percentuali definite rispetto all’anno 1990. Tali riduzioni vanno realizzate durante il primo “commitment period”, il quinquennio 2008-2012.
L’accordo prevede altri due punti molto importanti. Date le tecnologie di produzione e le abitudini di consumo attuali, una riduzione di emissioni passa necessariamente attraverso un minore consumo di combustibili fossili. Ciò comporta costi economici potenzialmente elevati. Introduce dunque alcuni meccanismi, detti di flessibilità, volti a mitigare l’impatto delle politiche di riduzione delle emissioni inquinanti. Tali meccanismi, che non sostituiscono o non dovrebbero sostituirsi alle politiche nazionali, consistono in un mercato internazionale dei permessi di inquinamento e nei cosiddetti JI (Joint Implementation) e Cdm (Clean Development Mechanism). Si tratta di progetti (per esempio, la costruzione di moderne centrali elettriche) attraverso cui i paesi sviluppati trasferiscono tecnologie pulite alle economie in transizione, nel primo caso, e ai paesi in via di sviluppo, nel secondo.
A oggi il Protocollo è stato ratificato da 119 paesi, pari al 44,2 per cento delle emissioni: dopo la defezione degli Usa (36,1 per cento) è cruciale la ratifica, molto dubbia della Russia, “forte” di un 17,4 per cento.
Arriviamo così a Milano, a Cop9. L’agenda ufficiale dei lavori è inaccessibile per chi non comprende il burocratese. La riunione dei capi di Stato e di governo è prevista per i giorni 10-11 dicembre. Nel frattempo si prepareranno bozze di dichiarazioni e, possibilmente, di decisioni su una serie di aspetti meno appariscenti, ma non per questo meno rilevanti, di attuazione del Protocollo.
L’interesse maggiore allora proviene dai numerosi “side events” in programma nei dodici giorni. Eventi dedicati alla propaganda, soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste, per mostrare quanto poco si è fatto o quanto non si sta facendo per l’ambiente. Vetrine delle amministrazioni nazionali, centrali e locali, per descrivere invece quanto si è fatto e si sta facendo. Ma soprattutto gli approfondimenti scientifici sui cambiamenti climatici.
Si ingrossano perciò le fila di coloro che danno per finito il Protocollo e guardano oltre. Se ci aggiungiamo gli scettici della prima ora, coloro che negano, per convinzione o per convenienza, validità scientifica al problema dei cambiamenti climatici, il rischio è che il messaggio che Cop9 consegnerà ai posteri è che Kyoto non è altro che un anagramma di Tokyo. Speriamo non sia così.
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Professore ordinario di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli studi di Milano. Dopo la laurea in Discipline economiche e sociali presso l’Università Bocconi di Milano ha conseguito il dottorato in economia (Ph.D.) presso la New York University di New York. È Direttore della ricerca scientifica della Fondazione Eni Enrico Mattei, dopo essere stato in passato coordinatore del programma di ricerca in modellistica e politica dei cambiamenti climatici. È Fellow del Centre for Research on Geography, Resources, Environment, Energy & Networks (GREEN) dell’Università Luigi Bocconi e Visiting Fellow presso il King Abdullah Petroleum Studies and Research Center (KAPSARC). È Review Editor del capitolo 4 (“Mitigation and development pathways in the near- to mid-term”), Sixth Assessment Report (AR6), IPCC WGIII, 2021. È stato fondatore e primo presidente dell’Associazione italiana degli economisti dell’ambiente e delle risorse naturali, è membro del comitato scientifico del Centro per un futuro sostenibile e della Fondazione Lombardia per l’Ambiente. È componente del comitato di redazione de lavoce.info.
Direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei, ha conseguito il Ph.D in Economics presso l’University College of London. È stato Chief Economist dell’Eni, amministratore delegato di Eni Corporate University e Principal Administrator dell’International Energy Agency (Energy and Environment Division). È stato consigliere di amministrazione dell’ENEA in rappresentanza del ministero dello Sviluppo economico. Autore di molte pubblicazioni su temi legati ad energia e ambiente è stato anche Autore principale (Lead Author) per il Third Assessment Report ed il Fifth Assessment Report per conto del IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change). Docente all’Università Luiss e alla Luiss Business School. Membro dell’Editorial Board de lavoce.info. Socio Fondatore dell’Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse Naturali e della Società Italiana per le Scienze del Clima (SISC).
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