Lemendamento governativo tende a vietare, piuttosto che a scoraggiare, le pensioni di anzianità. A compromettere gli equilibri del sistema previdenziale non è tuttavia il pensionamento flessibile in quanto tale, bensì la mancata previsione di correttivi attuariali che consentano di far pagare il pensionamento anticipato a chi lo sceglie. Mantenere la flessibilità del pensionamento avrebbe oltretutto permesso alle imprese di conservare un importante strumento di gestione degli esuberi. Nei quasi due anni che sono trascorsi dalla presentazione della “delega previdenziale” (dicembre 2001), il ministro Roberto Maroni ha insistentemente ripetuto che la delega stessa non sarebbe stata modificata, e in particolare che per elevare l’età di pensionamento non erano allo studio strumenti diversi dalla incentivazione. Ma a fine estate, inaspettatamente, è emersa l’ipotesi di disincentivare le pensioni di anzianità mediante correttivi attuariali del tipo già proposto nel 1994 dal primo governo Berlusconi. La sorpresa si spiega forse col venir meno della speranza di una “Maastricht delle pensioni”, ripetutamente invocata dallo stesso presidente del Consiglio, alla quale poter successivamente agganciare provvedimenti più incisivi di quelli “bonari” nel frattempo varati con la delega. Il disincentivo diventa divieto Non meraviglia che i disincentivi abbiano immediatamente trovato la ferma e compatta opposizione dei sindacati. Meraviglia, invece, che il Governo abbia reagito a questo rifiuto rincarando coraggiosamente la dose, e cioè con un provvedimento che tende a “vietare”, anziché semplicemente scoraggiare, il pensionamento per anzianità, consentendolo solo dopo quarant’anni di contributi. Nei confronti dei lavoratori interamente “contributivi” (che abbiano cioè avviato la carriera dopo l’entrata in vigore della riforma Dini del 1995), l’emendamento governativo propone riduzioni ancor più drastiche della flessibilità obbligando gli uomini ad andare in pensione a sessantacinque anni e impedendo alle donne di farlo prima di sessanta. Questo secondo provvedimento produrrà effetti effimeri sull’aliquota di equilibrio perché i fondamenti teorici dello schema contributivo garantiscono che, a regime, il minor numero di pensionati per lavoratore sarà compensato dall’aumento della pensione media rispetto al salario medio. (1) Oltre che inutile, il provvedimento è dannoso perché attacca una delle “ragioni d’essere” del modello contributivo, la flessibilità senza costi del pensionamento, così come la decontribuzione attacca l’altro grande “valore portante” rappresentato dalla corrispettività fra contributi e prestazioni. La “doppietta” di provvedimenti anti-flessibilità (per lavoratori vecchi e nuovi) giunge ancor più inattesa ove si pensi che colpisce duramente anche i datori di lavoro, da sempre interessati a utilizzare il pensionamento flessibile per la gestione degli esuberi occupazionali. Il mistero diventa ancora più fitto per la posizione assunta dalle organizzazioni datoriali le quali hanno sostanzialmente applaudito il Governo. Ulteriori perplessità scaturiscono infine dalla data, il 2008, scelta per intervenire coercitivamente sulle pensioni di anzianità. Una data così lontana è stata forse scelta per ammansire le parti sociali gettando intenzionalmente dubbi sulla credibilità di un provvedimento, in questa fase utile a scopi “esterni”, che vi sarà tutto il tempo di riconsiderare? Flessibilità autofinanziata Se il Governo avesse tenuto duro sui correttivi attuariali delle pensioni di anzianità, ed evitato di scomodare l’età pensionabile dei lavoratori contributivi, non avrebbe fatto un soldo di danno. Da tempo suggerisco che, per assicurare continuità fra presente e futuro, le correzioni siano ottenute sulla base dei coefficienti di conversione previsti per il calcolo delle pensioni contributive. Più precisamente, chi anticipa il pensionamento a un’età inferiore a 65 anni dovrebbe accettare che la sua pensione retributiva sia moltiplicata per un fattore correttivo pari al quoziente fra il coefficiente di conversione relativo all’età di pensionamento prescelta e quello massimo del sessantacinquesimo. Si può dimostrare che le correzioni così costruite consentono risultati soddisfacenti sotto ogni profilo. Lo dimostrano anche gli esercizi di simulazione proposti, sia pure immaginando correttivi non identici, da Boeri e Brugiavini. La sopravvivenza del pensionamento flessibile, autofinanziato fin d’ora mediante la correzione attuariale delle pensioni di anzianità, avrebbe anche consentito alle imprese di conservare un’importante strumento di gestione degli esuberi. È improbabile che la fantasia del legislatore italiano, per quanto molto sviluppata, riesca a produrre ammortizzatori sociali che, per consentire i necessari processi di ristrutturazione settoriale o aziendale, facciano a meno del pensionamento anticipato. Ma, per evitare che i lavoratori espulsi siano chiamati a pagare l’onere generato dalla loro stessa espulsione, la decurtazione delle loro pensioni dovrebbe essere compensata dalle prestazioni di un fondo nazionale alimentato dalla contribuzione delle imprese. Per saperne di più Gronchi S. (1997), Un’ipotesi di correzione e completamento della riforma delle pensioni del 1995, ministero del Tesoro – Commissione tecnica per la spesa pubblica, nota n.10. Gronchi S. e S. Nisticò (2003), Sistemi a ripartizione equi e sostenibili: modelli teorici e realizzazioni pratiche, Cnel-documenti, n. 27. Gronchi S. (2003), “Modelli NDC e riforme italiane: sarà mai possibile un sistema contributivo in Italia?”, in Cer, Rapporto n. 3 del 2003. (1) Nel primo periodo di applicazione, il provvedimento riguardante i lavoratori contributivi potrà generare temporanei risparmi di aliquota perché la riduzione del quoziente di dipendenza precederà l’aumento del rapporto pensione/salario. La dimensione di tali risparmi non è tuttavia prevedibile. Essa dipende dal modo in cui i lavoratori contributivi si sarebbero spontaneamente distribuiti entro la fascia d’età pensionabile finora prevista (57-65 anni). In particolare, i risparmi saranno tanto maggiori quanto più i lavoratori si fossero orientati al pensionamento precoce (a ridosso del cinquantasettesimo anno). Ma l’incentivo implicito derivante dalla rapida crescita per età dei coefficienti di trasformazione, unitamente alla crescente durata della formazione che tende ad accorciare le carriere lavorative, inducono a congetturare che i lavoratori contributivi si sarebbero orientati a posticipare il pensionamento (a ridosso del sessantacinquesimo anno) e perciò che i risparmi saranno modesti.
A compromettere gli equilibri del sistema pensionistico non è il pensionamento flessibile in quanto tale, che anzi può avere effetti benefici sul mercato del lavoro, bensì la mancata previsione di correttivi attuariali che consentano di far pagare il pensionamento anticipato a chi lo sceglie.
Per sua natura, il modello contributivo varato nel 1995 raggiungerà esattamente questo scopo attraverso la differenziazione per età dei coefficienti di trasformazione in rendita dei montanti contributivi: a parità di contributi versati, chi pretenderà di andare in pensione a 57 anni avrà il 23 per cento in meno rispetto a chi accetterà di farlo a 65. Forme analoghe di “autofinanziamento” dei pensionamenti precoci dovevano essere individuate per la fase transitoria mediante correzioni attuariali da applicare non solo alle pensioni interamente retributive, ma anche alla componente retributiva delle pensioni miste (spettanti ai lavoratori che a fine 1995 potevano vantare anzianità inferiori a 18 anni).
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