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Finlandia da imitare

Per rilanciare la crescita dell’Italia viene spesso indicato come esempio da seguire il modello spagnolo. Ma proprio la Spagna insegna che una strategia basata su poco Stato e un’accelerata liberalizzazione del mercato del lavoro non genera un aumento duraturo della produttività, il vero motore della crescita. Meglio allora guardare più a Nord, all’esperienza finlandese. Dove si è riusciti a produrre innovazione utilizzando la spesa pubblica per finanziare riforme capaci di garantire i giusti incentivi per investire e fare ricerca.

In Italia, ora che la crescita del Pil si è davvero fermata, si confrontano due strategie principali nella discussione su come rilanciare la crescita.

Due ricette

Ci sono i liberisti che dicono: basta con il gradualismo, è ora di far dimagrire lo Stato di cinque-dieci punti percentuali del Pil, tagliando davvero tasse e spesa pubblica, e di completare la liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei prodotti. Un complemento di queste idee è la proposta di Fiorella Kostoris (Sole 24 Ore, 19 marzo 2004) di allungare l’anno lavorativo di una settimana per dare un’altra spinta (temporanea) all’economia dal lato dell’offerta.
Altri esperti sottolineano l’importanza di aumentare gli investimenti per ricerca e istruzione.

Le imprese italiane sono però piccole e quindi non fanno ricerca e l’istruzione privata è poca cosa: questa ricetta si traduce quindi in una proposta di aumentare la spesa pubblica in ricerca e istruzione, beni pubblici di cui la nostra economia manca e la cui assenza riduce la produttività dell’investimento privato.
Spesso gli assertori dell’aumento della spesa pubblica produttiva presentano le loro proposte come complementari con le idee dei liberisti. L’idea che sia possibile aumentare la spesa pubblica “buona” riducendo la spesa improduttiva (riducendo gli “sprechi”) è, in realtà, un artificio retorico. Nella situazione attuale, se si vogliono aumentare le spese per i beni pubblici, non ci sono scorciatoie: bisogna rassegnarsi ad aumentare, non a diminuire, le tasse (a meno che non sia davvero messo da parte il Patto di Stabilità).

E due modelli

Se questa semplificazione non è troppo grossolana, ciò lascia una scelta tra due possibili esempi a cui ispirarsi: quello spagnolo e quello finlandese.
La via spagnola, elogiata da Michele Salvati sul Corriere della Sera e criticata da Luca Paolazzi sul Sole 24Ore, consiste nel perseguire la strada della modernizzazione del paese in un contesto di stabilità politica, liberalizzando i mercati, a cominciare da quello del lavoro. Uno sguardo attento ai dati di contabilità nazionale suggerisce però che l’esempio spagnolo è stato forse incensato un po’ troppo.
È vero che negli ultimi anni il Pil spagnolo è cresciuto a tassi doppi rispetto a quelli dell’Italia (3,4 per cento l’anno, contro l’1,7 per cento dell’Italia; vedi Tabella 1). Tuttavia, la crescita del Pil spagnolo è interamente spiegata dall’aumento delle ore complessivamente lavorate, aumentate del 3,7 per cento l’anno dopo il 1995.
Questa è la via spagnola: una forte crescita dell’occupazione associata a una crescita contenuta della produttività oraria (e quindi dei salari).
L’ampia disponibilità di nuovi entranti poco qualificati sul mercato del lavoro ha, infatti, favorito la creazione di tanti posti di lavoro, soprattutto a bassa produttività. L’esempio spagnolo insegna che una strategia basata su poco Stato e un’accelerata liberalizzazione del mercato del lavoro riesce sì a generare occupazione, ma non crescita duratura della produttività, il vero motore della crescita.

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Se si va un bel po’ più a Nord, ci si accorge che la via spagnola non è l’unica opzione di successo: c’è anche quella finlandese. La Finlandia sta, infatti, resistendo bene nell’attuale congiuntura sfavorevole. Ha visto crescere il proprio Pil a tassi “spagnoli” dal 1970 in poi. Soprattutto, negli ultimi anni è riuscita a conseguire un mix bilanciato in termini di crescita della produttività (+2,8 per cento l’anno) e dell’occupazione (+1 per cento).
Come discusso in un recente lavoro con Olmo Silva su Economic Policy (1), certamente anche la Finlandia ha di fronte problemi di ancora insufficiente e lenta diffusione dell’innovazione. Ma è un’economia che ha saputo trasformare un’impresa decotta, che aveva dieci differenti linee di produzione alla fine degli anni Ottanta, nel leader mondiale della produzione di cellulari. In altri comparti del terziario avanzato finlandese, hanno poi prosperato imprese che offrono servizi informatici e di telecomunicazione in Finlandia e all’estero, e che non sono strettamente classificabili come l’indotto di Nokia.
Come mai la Finlandia è riuscita a produrre innovazione? Purtroppo, abbiamo solo degli indizi. In Finlandia, non c’è corruzione, c’è un “business environment” molto competitivo, si investe tanto in ricerca e sviluppo, sia pubblica che privata. C’è anche uno Stato sociale e un sistema di istruzione capace di produrre lavoratori qualificati e in grado di cambiare lavoro se necessario. Ecco gli ingredienti per aumentare insieme produttività e occupazione.

Suggestioni italiane

C’è un’implicazione pratica e immediata del modello finlandese: sarebbe bene lasciare da parte l’idea, un po’ stantia, che lo sviluppo possa essere rilanciato con le Grandi Opere, come il ponte sullo Stretto di Messina. Le Grandi Opere sono ossigeno per la corruzione: meglio non farle, se non strettamente necessarie.

Una politica “finlandese” per la crescita vuol dire usare i soldi pubblici per finanziare le riforme che cambiano gli incentivi a investire e a fare ricerca.
Occorre cioè: (1) dare più soldi al mondo scolastico se accetta di essere al servizio degli studenti; (2) dare più soldi al mondo accademico se si pone l’obiettivo di premiare i migliori; (3) investire risorse pubbliche e dare sgravi fiscali alla ricerca e sviluppo, con contratti e gare d’appalto pan-europei.

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La persistente stagnazione dell’economia italiana dice che i pochi passi intrapresi in tale direzione sono insufficienti. Il confronto con Spagna e Finlandia suggerisce che, per rilanciare la crescita non basta liberalizzare i mercati, né il quick start in progetti infrastrutturali (che di “quick” hanno poco per definizione).
Ci vuole semmai un big kick di investimento in conoscenza. Altri paesi europei lo hanno fatto, perché l’Italia no?

 

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  1. Riccardo Mariani

    Per valutare la possibile compatibilità (negata nell’ articolo) tra politiche liberiste e incentivi alla ricerca sarebbe utile sapere se il divario che ci separa in questo ambito dai paesi più innovativi sia da imputare maggiormente alla ricerca pubblica piuttosto che a quella privata.
    Praticamente tutti i paesi più innovativi ci precedono nei vari index of economic freedom (compresa la Finlandia che ci sopravanza nell’ IEC dell’ Heritage foundation di una dozzina di posizioni). Mi suona strano, quindi, che il modo migliore per imitare questi paesi possa limitarsi ad un aumento della spesa pubblica per quanto mirato.
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Nel mio articolo non sostengo che si debba aumentare la spesa pubblica in R&S e basta. Il mio articolo parla di ciò che può fare il Governo italiano per accelerare la crescita.

      Nella parte finale, sostengo che, oltre a dare più risorse a scuola e università (purchè chi le riceve sia sottoposto a opportuni meccanismi di incentivo) e a non mettere troppi soldi in Grandi Opere, potrebbe anche incoraggiare la ricerca e sviluppo (R&D) sia con finanziamenti alla ricerca di
      base che con incentivi fiscali alla ricerca privata. Ci vogliono questi incentivi perchè le imprese italiane sono mediamente piccole e da sole non fanno R&S. C’è un articolo della finanziaria 2004 che va in questa direzione, tentando di promuovere la R&S fatta da consorzi di imprese. A mio avviso, lo fa in modo imperfetto. Su questo ho scritto un altro articolo per LaVoce chiamato “Una seria dimenticanza” qualche mese fa.

      Grazie dell’attenzione,

      Franceso Daveri

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