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Perché Lisbona resta un miraggio

Come da rituale, i capi di Governo riuniti a Bruxelles scoprono che l’Europa è ancora ben lontana dal diventare il continente più competitivo del pianeta. Perché le scelte politiche dei singoli paesi sono spesso in contrasto con gli obiettivi fissati nel 2000. Non tutti per esempio vogliono un aumento del tasso di occupazione perché implica tagliare i privilegi di alcuni. Così come è un errore limitare l’arrivo di lavoratori dai nuovi paesi membri. Se l’obiettivo è aumentare le ore lavorate, meglio aprire i flussi invece di chiedere agli italiani di ridurre le ferie.

Quattro anni fa, nel marzo del 2000, i capi di Governo dei paesi dell’Unione europea riuniti a Lisbona si accordarono su di un documento con obiettivi molto ambiziosi. Si proponeva di far diventare l’Europa il “continente più competitivo del pianeta”, aumentando la produttività e facendo lavorare venti milioni di persone in più nel giro di dieci anni.
Il documento non spiegava come tagliare questo traguardo, né perché i Governi dell’Unione non fossero riusciti prima a raggiungere questi obiettivi.
Da allora, ogni marzo, si ripete il rituale: i capi di Governo si ritrovano e scoprono di non avere fatto passi in avanti verso gli obiettivi di Lisbona e, in sfregio al buon senso e all’intelligenza dei cittadini europei, stabiliscono nuovi target altrettanto ambiziosi. Forse si spera che mettendone tanti, almeno uno, prima o poi, lo si raggiunga. Ma ogni anno che passa, diminuisce l’autocompiacimento per gli annunci roboanti e aumenta l’imbarazzo. Lo dimostra il comunicato finale del vertice appena conclusosi a Bruxelles.

I trade-off nascosti

Una delle principali novità del documento di Lisbona sono gli obiettivi sui tassi di occupazione.
Fino ad allora, i Governi si erano posti traguardi in termini di riduzione dei tassi di disoccupazione, volti a ridurre il numero di persone in cerca di lavoro, non degli inattivi che stanno ai margini del mercato del lavoro. Da Lisbona in poi ci si è posti l’obiettivo di portare il rapporto fra occupati e popolazione in età lavorativa nell’Unione al livello degli Stati Uniti (70 per cento), il tasso di occupazione femminile al 60 per cento, quello dei lavoratori adulti (tra i 55 e i 64 anni) al 50 per cento. Il tutto nel giro di dieci anni.

Perché questi obiettivi non erano stati definiti prima? Per quanto riguarda gli anziani, il basso tasso di occupazione riflette ovviamente i privilegi concessi dal sistema pensionistico a una generazione di lavoratori, a scapito delle generazioni future. Donne e giovani, invece, sono stati per anni scientemente tenuti fuori dal mercato del lavoro per allentare le pressioni competitive che il loro ingresso sul mercato poteva esercitare sugli uomini al lavoro in fasce di età centrali. Per fare posto a persone con scarsa esperienza lavorativa ci vogliono salari relativamente bassi: l’ingresso di giovani e di donne sul mercato del lavoro, infatti, si accompagna ovunque, almeno inizialmente, a un ampliamento dei divari salariali. Alla fine, anche in Europa e in Italia, vi è stata una creazione di posti di lavoro tra i giovani e le donne. Ma questa è stata spesso incanalata su binari separati, su contratti di lavoro e percorsi professionali diversi da quelli dei lavoratori in fasce di età centrali, con maggiore precarietà. È stato un modo, non sempre riuscito, di segregare i nuovi arrivati in lavori temporanei ed esposti al rischio di tagli occupazionali.

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Questi esempi dimostrano che vi è anche chi non vuole che aumentino i tassi di occupazione. Aumentare il tasso di occupazione non è neutrale dal punto di vista redistributivo: occorre tagliare i privilegi di cui alcuni hanno goduto, per consentire anche agli altri di lavorare. Se lo si fosse ammesso a Lisbona, forse avremmo fatto qualche passo in più nel tradurre i sogni dell’Europa in realtà.

Gli ozi degli europei

Non aiuta, in questo contesto, una tesi ricorrente negli ultimi tempi, anche fra autorevoli esponenti della nostra professione, quella secondo cui la bassa crescita degli europei sarebbe imputabile alla loro pigrizia, alla loro voglia di lavorare meno che negli Stati Uniti. Questa tesi è pericolosa perché deresponsabilizzante: dice ai Governi che, dopotutto, va bene così, sono gli europei che non vogliono crescere, preferiscono oziare e andare in vacanza. Ma soprattutto è sbagliata perché nega un fatto evidente: la scelta di lavorare non è, soprattutto in Europa, semplicemente una questione di scelte individuali.
È il risultato di politiche e istituzioni che tengono fuori dal mercato del lavoro milioni di persone, e che sono state introdotte per consentire a chi era dentro di strappare condizioni retributive e di orario di lavoro più vantaggiose.

Il grafico qui sotto (basato su dati dell’Ocse) decompone il divario fra Stati Uniti e i grandi paesi dell’Europa continentale in termini di ore lavorate per individuo in quattro componenti: i) la componente dovuta al minor numero di ore lavorate di chi ha un lavoro, ii) quella dovuta al minor numero di persone in età lavorativa (il divario demografico), iii) quella dovuta alla più bassa partecipazione al mercato del lavoro (persone che non lavorano e che non cercano un lavoro) e iv) quella dovuta al maggior tasso di disoccupazione europeo.

Decomposizione della differenza in ore lavorate fra Stati Uniti e alcuni grandi paesi europei



Come si vede, ad eccezione della Germania (dove conta molto una maggiore diffusione del part-time) il divario in ore lavorate fra Europa e Stati Uniti è imputabile principalmente al fatto che in Europa ci sono molte meno persone che lavorano.  E’, in altre parole, un problema di scelte politiche, più che di una maggiore predisposizione all’ozio: in Europa vi sono molte persone che stanno a casa pagate da altri e molte altre che vorrebbero lavorare anche a condizioni meno vantaggiose di chi è dentro, ma sono di fatto esclusi dal mercato del lavoro.  Insomma, conta l’economia, più che la psicologia. 

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Tra l’altro se il lavoratore medio europeo lavora meno di quello americano è anche perché il prelievo sul lavoro è più alto (le aliquote fiscali e contributive sono vicine al 50% rispetto al 30 negli Stati Uniti). E anche le tasse sono frutto di politiche che redistribuiscono, soprattutto togliendo a chi lavora e dando a chi è in pensione. 

Un allargamento col muro

L’Europa non può fare molto per rimuovere questi vincoli. Si tratta di scelte politiche nazionali, anche perché gli ostacoli alla partecipazione sono presenti in grado diverso nei vari paesi. L’Europa può comunque fare molto più che chiedere a italiani, francesi e tedeschi di lavorare di più.
Al vertice di Bruxelles, purtroppo, non si è parlato delle restrizioni nei confronti dei cittadini dei paesi dell’allargamento che molti Governi, tra cui purtroppo anche il nostro, si sono preoccupati di erigere prima del loro ingresso nell’Unione. Stiamo, soprattutto noi, tirandoci una zappata sui piedi perché rinunciamo a garantirci flussi di manodopera istruita e culturalmente affine, dunque più facilmente integrabile nel nostro tessuto sociale e fortemente richiesta dalle nostre imprese. In tutto il Nord la domanda di lavoratori immigrati è almeno quattro volte superiore agli ingressi garantiti dal decreto flussi (che contempla, tra l’altro, solo lavoratori stagionali). In alcune città, come Bologna, ci sono addirittura dieci domande per ogni ingresso. Alla fine i lavoratori arriveranno lo stesso, ma saranno illegali e spesso senza lavoro.
Per avvicinarsi agli obiettivi di Lisbona, l’Europa deve assumersi competenze in materia di immigrazione.
E da noi, invece di pensare a tagliare le ferie degli italiani, bisognerebbe cominciare dal quadruplicare i flussi.
Se l’obiettivo è quello di aumentare la quantità di ore lavorate, questo è il modo migliore di raggiungerlo.

 

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  1. marco capodaglio

    trovo le sue tesi sempre molto stimolanti, ne approfitto per chiederle un aiuto a chiarirmi le idee
    – nel diagramma sulle cause del differenziale fra ore lavorate come gioca il fenomeno del lavoro nero ?
    – esistono analisi che scomponongono gli stessi dati fra italia del sud e del nord dove coesistono lavoro tutelato normativamente e sindacalmente e piena occupazione ?
    – Che influenza si potrebbe pensare potrebbe avere una normativa che invece del l’ innalzamento dell’ età pensionabile prevedesse un periodo di riduzione dell’ orario di lavoro a parità di salario ( mi spiego : invece di elevare l’ età pensionabile a 60 anni permettere fra i 57 e i 63 un periodo di metà pensione /part time)?
    grazie per l’ attenzione

    • La redazione

      Grazie per gli apprezzamenti al nostro lavoro. Il lavoro nero dovrebbe, in principio, essere rilevato dalle nostre statistiche. Di fatto lo è solo in parte. Quindi tende ad aumentare il gap in ore lavorate pro-capite con gli Stati Uniti. Non abbiamo provato a decomporre il divario Nord-Sud in ore lavorate pro-capite in Italia, ma immagino che sia largamente associato ai margini estensivi, vale a dire poca gente che lavora. Nei paesi europei in cui l’occupazione adulta è aumentata, questo è avvenuto attraverso soprattutto lo sviluppo del part-time. Quindi schemi che dessero flessibilità nella combinazione di pensioni e reddito da lavoro (nell’ambito delle regole del sistema contributivo) potrebbero essere un modo utile di allungare la vita lavorativa.
      Cordiali saluti.

  2. DG

    Nel ringraziarvi per l’egregio lavoro che fate, stimolando la mia autonomia critica, colgo l’occasione per porre una domanda:
    si potrebbe prescindere da una riduzione del prelievo fiscale sui redditi da lavoro, per rendere più appetibile il tempo lavorato rispetto al tempo libero, e quindi per stimolare gli europei a lavorare di più?

    • La redazione

      Grazie per gli apprezzamenti. Sì la riduzione delle tasse non è l’unico strumento per promuovere una maggiore partecipazione. Cambiamenti nei regimi di protezione dell’impiego, riforme previdenziali e incentivi condizionati all’impiego avrebbero, ad esempio, effetti positivi sull’offerta di lavoro senza ridurre il prelievo. Semmai riducendo la spesa pubblica, quindi creando le condizioni per una riduzione, non in disavanzo come quella che il Governo mi sembra intenzionato a varare, delle tasse. Cordiali saluti

      Tito Boeri

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