Su un tema come la tutela del paesaggio, tutto sommato già ben regolamentato, il ministero interviene con un nuovo Codice. Che demanda in toto alle Regioni la redazione dei piani paesistici, senza che il ministero possa più intervenire neanche in caso di inadempienza. E che priva le soprintendenze del potere di bocciare progetti edilizi che avevano già ottenuto il parere favorevole delle amministrazioni locali. Né è chiaro quale sarà la sorte dei vincoli già imposti. Si tratta perciò di un intervento dai molti lati oscuri, sul quale il Parlamento è stato coinvolto solo marginalmente.

Nell’acceso dibattito seguito alla pubblicazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio elaborato da un gruppo di esperti per il ministro Giuliano Urbani e approvato con semplice decreto legislativo (entra in vigore 1° maggio 2004 per due anni di sperimentazione), la parte relativa alla tutela del paesaggio è stata ritenuta la più criticabile (anche da parte di consulenti del ministro, come Salvatore Settis). Assieme, s’intende, al meccanismo di alienazione di beni culturali e ambientali demaniali basato sul silenzio/assenso.

Prima e dopo il Codice

Parliamo di paesaggio. Un giurista non “schierato”come il professor Tommaso Alibrandi, ha pubblicamente criticato la necessità di un Codice a cinque anni appena dalla elaborazione del Testo unico 1999, che riuniva le leggi fondamentali sulla materia. Soprattutto le leggi Bottai n. 1089 e 1497 del 1939, in realtà riuscite rielaborazioni di normative prefasciste di ottima qualità, e la legge Galasso n. 431 del 1985 sui piani paesistici.
Quest’ultima votata quasi alla unanimità allorquando si era constatata la totale inerzia delle Regioni, otto anni dopo la delega loro assegnata su paesaggio e urbanistica con il Dpr 616/77. Delega sulla quale la Consulta aveva espresso parere contrario.

Ma vediamo quali le differenze più marcate introdotte dal Codice.
Con la legislazione precedente le Regioni erano obbligate a redigere, entro un certo periodo e con certi criteri, piani paesistici ai quali dovevano uniformarsi i piani comunali, provinciali, eccetera. In caso di conclamata inadempienza regionale, il ministero aveva un preciso diritto di surroga. Esercitato infatti per la Campania, la Calabria, la Puglia, mentre per la Lombardia vi fu solo una minaccia di sostituzione.
Col nuovo Codice si instaura invece un processo (senza obblighi, né scadenze precise) di pianificazione, al quale il ministero “può” essere chiamato a partecipare, ma nel quale il ruolo primario spetta alle Regioni. Conseguentemente è scomparso il diritto per il ministero dei Beni culturali di sostituirsi alle Regioni inadempienti nella redazione dei piani.
Inoltre, quale fine faranno quei vincoli sul 47 per cento del territorio nazionale apposti dalle leggi n. 1497/39 e n. 431/85? Quanti di essi saranno accolti nei piani ora soltanto regionali? Ancora non si sa. Si sa solo che rimarranno in vita fino all’approvazione dei nuovi piani regionali.

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Soprintendenze senza potere

Altro punto contestato: sin qui le soprintendenze, territoriali e regionali, hanno avuto il potere di bocciare progetti edilizi (lottizzazioni, villaggi, grandi fabbricati, eccetera) intervenendo quando gli stessi avevano avuto il benestare comunale e regionale.
Ogni anno ne venivano così bocciati circa tremila (2 per cento delle istruttorie compiute in 42-44 giorni), con punte elevate in Campania.
Il nuovo Codice prevede invece che le soprintendenze siano chiamate a fornire un loro parere consultivo, quindi non vincolante ancorché autorevole, all’inizio dell’iter dei progetti.
Senza poter più intervenire in seguito, senza perciò il potere di bloccare qualcosa.

Il sistema precedente aveva certamente alcuni inconvenienti: era “a valle” ; si esponeva a ricorsi al Tar (non in tutte le Regioni, in verità); creava un certo contenzioso, come del resto logico, dal momento che colpiva interessi molto corposi.
Si sarebbe potuto istituire questo parere iniziale e mantenere però una verifica finale.
Così i rischi appaiono gravi, anche perché le Regioni hanno per lo più sub-delegato questa materia ai comuni, che sono pertanto divenuti i certificatori di sé stessi, controllori/controllati.
Un parere tecnico-scientifico soltanto preventivo e consultivo appare davvero troppo poco in un paese in cui la legalità edilizia e ambientale, anche grazie ai condoni, risulta decisamente precaria.

Una sorta di “timbro” finale – tecnico, non politico – sarebbe stato molto più saggio.
Altro punto-chiave. Quando i comuni adottavano un nuovo piano regolatore, lo sottoponevano alla soprintendenza che quasi sempre tagliava cubature, rivedeva insediamenti, usando anche un certo potere di deterrenza legato al diritto di “bocciatura” dei singoli progetti.
Con le norme del Codice, i comuni sono di fatto liberi di decidere da sé in base ai piani paesistici regionali. I quali saranno su scala 1 a 25.000, cioè a maglie molto larghe.
Infine, resta un interrogativo di fondo: è giuridicamente possibile rivedere e sostituire leggi di impianto vasto come la Galasso con un semplice decreto legislativo passato (in commissione) alle Camere soltanto per un veloce parere consultivo? Molto probabilmente, una discussione più ampia avrebbe permesso di eliminare alcuni dei punti critici del Codice. E di assicurare un futuro al paesaggio italiano.

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Per saperne di più

“Un Paese spaesato”, Libro bianco a cura di Vittorio Emiliani e di Filippo Ciccone, edito dal Tci nel 2001.
Testo del Codice dei beni bulturali e del paesaggio, sul sito del ministero per i Beni e le attività culturali, 2004.
Osservazioni al Codice stesso nel sito “Patrimonio Sos” e nell’ultimo Bollettino dell’associazione Italia Nostra. Ampio materiale di osservazioni critiche e di proposte prodotto dal Wwf Italia e dall’associazione Bianchi Bandinelli. Vedi pure “Patrimonio Sos”, a cura di Maria Serena Palieri, con scritti di Giuseppe Chiarante e di Vittorio Emiliani, pp.170, edizioni “L’Unità”, 3,5 euro.

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